Guido Sarchielli

Il lavoro come ossessione

Genesi e modalità di manifestazione del workaholism, la dipendenza da lavoro. Una degenerazione che mette a dura prova l’equilibrio tra l’attività professionale e le altre sfere di realizzazione personale.

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Spesso ci si lamenta – soprattutto in Italia – del fatto che si dovrebbe lavorare di più per essere più competitivi sui mercati; nello stesso tempo ci si sta rendendo conto dei rischi del lavorare troppo. Si vuole alludere al workaholism, una situazione di intrappolamento nel lavoro studiata da quasi cinquant’anni che però pare ampliarsi negli ultimi tempi come ulteriore indicatore dei rischi personali connessi con una scarsa qualità delle relazioni lavorative. 

Ma a cosa ci si riferisce con questo termine inglese, traducibile come “ubriachezza”, “ossessione per il lavoro”? Si tratta di un’eccessiva dedizione al lavoro, caratterizzata da un elevato numero di ore lavorative, ben oltre quelle richieste dai contratti, tale da rendere una persona completamente invischiata nella sua attività professionale. I workaholic sono i cosiddetti “maniaci del lavoro”. Un’espressione gergale che può avere un significato metaforico innocuo, quasi un’etichetta di merito auto-assegnatasi o attribuita dai colleghi in modo un po’ sarcastico, adatta a segnalare un sovrainvestimento personale sul lavoro o a giustificare qualche lacuna nell’equilibrio tra le varie sfere della vita personale. Tuttavia, quando questo modo di fare dura a lungo, sfugge all’autoregolazione, produce insoddisfazione ed effetti negativi sui rapporti familiari, sulla salute psicofisica e sulla vita in generale, allora le cose cambiano radicalmente. (CONTINUA...)

 

 

Dati allarmanti sulla prevalenza del workaholism

È difficile stimare la prevalenza di questo fenomeno perché ci sono pochi studi epidemiologici e modi troppo diversi per misurarlo. Tuttavia le stime sono assai preoccupanti, variando dal 5 al 20% (vi è concordanza intorno al 10%) della popolazione lavorativa e lasciando sospettare quote elevate di persone a rischio di effettiva patologia. Sono più colpiti alcuni gruppi professionali, come manager, psicologi, medici (soprattutto chirurghi), avvocati, venditori.

Evitare confusioni

Gli psicologi hanno cercato di far luce sui diversi significati del lavoro eccessivo. Infatti, si può lavorare più del dovuto per tanti motivi (per guadagnare di più, per mantenersi un posto di lavoro precario, per agevolare un avanzamento di carriera, perché è richiesto in modo indiretto dall’organizzazione ecc.), senza che ciò comporti conseguenze dannose alla persona. In effetti, tanti lavoratori fanno lunghe ore di lavoro straordinario, ma poi riescono a coltivare relazioni significative, si prendono cura dei loro cari e godono di attività esterne nel tempo libero. Questa comune osservazione ha spinto a riconoscere anche aspetti positivi del sovrainvestimento sul lavoro, vedendolo spesso associato ad alte prestazioni, entusiasmo, soddisfazione, successi di carriera e rimarcando la sua funzione di possibile modello da seguire da parte dei colleghi. Grandi lavoratori di tal genere, che amano molto la loro attività, sono stati visti come tipi positivi di workaholic, mentre i tipi negativi corrisponderebbero alle persone che continuano a mettere il lavoro innanzi a tutto anche senza provarne gioia. Questo modo di intendere il workaholism come fenomeno unitario, seppure con un polo positivo e uno negativo, oggi viene sostituito da una più chiara distinzione tra lavoratori molto impegnati (engaged) e workaholic o maniaci del lavoro (Clark et al., 2016). 

Le persone engaged lavorano parecchio perché provano un piacere intrinseco nel lavorare, a differenza dei workaholic, che sono indotti a lavorare troppo da una costrizione interna incontrollabile. Sono diversi pure i risvolti emotivi del lavorare: gli engaged tendono a sperimentare, sul lavoro e a casa, emozioni positive (soddisfazione, eccitazione, passione, entusiasmo, gioia), mentre i workaholic manifestano più facilmente tensione, ostilità, delusione e sensi di colpa. Inoltre, i lavoratori engaged mantengono un ragionevole controllo sul loro modo di fare, mentre i maniaci del lavoro si fanno intrappolare da richieste impossibili auto-imposte e nel lavorare tanto trovano un modo per compensare la paura di inadeguatezze personali in altri campi, oppure una scappatoia per evitare insuccessi, delusioni e relazioni o responsabilità indesiderate. È opportuno pertanto focalizzarsi su questa specifica condizione a rischio, rileggendola come una vera e propria sindrome dai risvolti patologici, assimilabile a una dipendenza comportamentale analoga, per esempio, al gioco d’azzardo.

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Il lavoro eccessivo come dipendenza

Sebbene non sia incluso tra le dipendenze previste dal DSM-5 (la 5a edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), il workaholism condivide – secondo Quinones e Griffiths (2015) – i più comuni criteri con cui si definisce una dipendenza:
a) la salienza (il lavoro è la preoccupazione dominante fra tutti i pensieri della persona);
b) le variazioni dell’umore (il lavoro diviene l’unica fonte di eccitamento o, al contrario, di attenuazione di emozioni negative e di ansia);
c) la soglia di tolleranza (il dover sempre più incrementare il lavoro per ottenere il livello d’umore desiderato);
d) l’astinenza (l’avvertire agitazione fisica e mentale quando non si lavora);
e) il conflitto (l’abuso del tempo di lavoro confligge con le diverse aree di vita, con le relazioni interpersonali e con le possibili diverse aspettative interiori della persona);
f) la recidiva (la frequente ricaduta in condotte lavorative estenuanti dopo periodi di relativo controllo). 

Questa interpretazione è oggi condivisa (Atroszko e Griffiths, 2017) benché non siano ancora disponibili evidenze empiriche definitive basate su indicatori oggettivi di natura biologica. Essa si fonda su una specifica fenomenologia (la differenza tra i “lavoratori appassionati” e i veri “maniaci del lavoro”) e sul fatto di riferirsi a una sindrome non transitoria che produce esiti disfunzionali assimilabili a quelli di altre, più note, dipendenze.

Da rilevare, infine, che la dipendenza da lavoro compare di frequente anche in situazioni di cosiddetta “doppia diagnosi”, ossia ha molte probabilità di associarsi ad altre dipendenze patologiche, come l’alcolismo, e a diagnosi cliniche come la sindrome di iperattività degli adulti (ADHD), il disturbo ossessivo-compulsivo, la sindrome ansioso-depressiva.

Un’invadenza tossica 

Sono stati notati numerosi sintomi (Clark et al., 2016) collegati alle principali componenti della sindrome compulsiva del workaholism. Essi spesso sono mal identificabili poiché risultano conformi alle aspettative sociali e di ruolo che esaltano la produttività. I workaholic, infatti, risultano sempre indaffarati, non delegano compiti ad altri, sono perfezionisti e credono che il loro modo di agire sia comunque il migliore. Sono ossessionati dal lavoro (lo pensano e rimuginano di continuo), cercano di controllare ogni situazione, sono impulsivi e agiscono in termini compulsivi (senza riflettere sulle conseguenze per sé e per gli altri). Tendono a fare delle vere e proprie “abbuffate di lavoro” extraorario, senza pause anche se si sentono stanchi, non chiedono permessi di uscita né fanno assenze; anzi, usano al minimo le ferie o, dopo una malattia, rientrano al lavoro quando ancora sono convalescenti. 

Questi sintomi indicano un’impossibilità di staccarsi dal lavoro che sul piano della produttività appare efficace solo inizialmente. Infatti, subentrano difficoltà nelle relazioni interpersonali e di gruppo (i workaholic sono cattivi giocatori di squadra), stanchezza fisica e mentale (compensate più o meno bene), effetti di stress (impazienza, irritabilità, senso di inadeguatezza e di autodenigrazione, decisioni errate ecc.), disinteresse per il proprio stato di salute psicofisica (minato dallo scarso esercizio fisico, dall’insonnia, dall’alimentazione compensatoria, dal frequente uso di tabacco e stimolanti ecc.), con scarsa consapevolezza dei rischi a lungo termine che stanno correndo. Inoltre, spesso, la pretesa di qualche manager maniaco del lavoro di imporre i propri standard lavorativi troppo elevati e l’abitudine a mettere sotto pressione i propri collaboratori e ad eccedere nelle critiche anche per lievi errori provocano un clima di ansia, paura e insicurezza, pieno di risentimenti, microconflitti e morale basso fra i colleghi. Tutti esiti che concorrono al progressivo decremento della quantità/qualità delle prestazioni e all’aumento dello sforzo lavorativo e di possibili condotte controproduttive (come ira e aggressività sul lavoro), con la conseguenza di scarsi benefici sia per la persona che per l’organizzazione. 

Dalle metanalisi sull’argomento emergono con chiarezza esiti negativi non solo per l’organizzazione, ma anche per l’individuo stesso e la sua famiglia. Infatti, si ha un peggioramento della soddisfazione familiare, con persistenti conflitti coniugali, rapporti sbagliati con i figli e una difficoltà nel trovare un accettabile equilibrio tra lavoro e vita privata. Dal punto di vista personale, i principali esiti negativi consistono nell’aumento del burn-out in tutte e tre le sue dimensioni (cinismo, depersonalizzazione ed esaurimento emotivo), in una riduzione dell’appagamento per la vita in generale, nel peggioramento delle condizioni psicofisiche e dell’equilibrio emotivo.

Eziologia: molti antecedenti

Poiché la sindrome da eccesso di lavoro ha così tante sfaccettature e si manifesta con variegate modalità, è plausibile considerarla come un fenomeno di origine multifattoriale, ovvero in essa sono coinvolti numerosi antecedenti, raggruppabili in 2 categorie – fattori personali e fattori organizzativi e del lavoro – interagenti (Balducci et al., 2018). Tra i fattori personali sono state evidenziate relazioni con alcune dimensioni del Big Five, che considera le 5 dimensioni tipiche di personalità (estroversione, amicalità, coscienziosità, nevroticismo, apertura mentale): in generale, i maniaci del lavoro tendono ad essere più coscienziosi e nevrotici, ma tali relazioni sono relativamente deboli e con una forte variabilità tra gli studi. Connessioni più sistematiche sono emerse con caratteristiche disposizionali orientate al raggiungimento dei risultati, quali: il bisogno di riuscita, l’auto-efficacia e la personalità di tipo A (iper-competitività, impazienza, eccessiva autocritica, ostilità verso gli altri). Ci sono correlazioni anche con il perfezionismo, il narcisismo (egocentrismo e senso di superiorità), la paura del fallimento, la bassa stima di sé, e in particolare la centratura su un’immagine di sé costruita quasi esclusivamente sul proprio livello di rendimento. Se l’autostima degli individui dipende esclusivamente da prestazioni eccezionali, è probabile che essi lavorino assai duramente per conseguire questa autovalutazione positiva, anche sacrificando altre fonti significative del loro valore e della loro identità personale: quando tale modo di agire risulta fuori controllo può drenare tutte le loro energie e portare facilmente al burn-out.

Accanto a questi tratti personali relativamente più stabili sono stati evidenziati pure gli effetti dell’apprendimento sociale. In altri termini, la dipendenza può derivare da condotte apprese nel periodo formativo o dai modelli familiari e dai rinforzi esterni delle condotte eccessive ottenuti sin dalle prime esperienze lavorative o nelle attuali situazioni di lavoro. Per esempio, i valori del lavoro rinforzati e introiettati come guida su ciò che è giusto o sbagliato possono assumere una centralità eccessiva (a scapito di altri valori personali), divenendo credenze distorte sui propri doveri che sostengono anche rischiosi eccessi di coinvolgimento lavorativo. Va poi considerata l’influenza dei fattori organizzativi e del lavoro nell’avvio e nel mantenimento di condotte di dipendenza dal lavoro. Se un’organizzazione non solo tende a vedere in modo positivo chi lavora duramente, ma arriva ad esortare al massimo coinvolgimento/identificazione con il lavoro senza tener conto del bilanciamento lavoro-vita privata e – tramite premi materiali (monetari o di carriera) o immateriali (reputazione, riconoscimenti di stima) – incentiva il massimo sforzo anche quando non è necessario, è assai probabile che dalle persone siano adottate condotte di lavoro eccessivo. Effetti analoghi sembrano derivare da contesti di lavoro caratterizzati da un’intensificazione del lavoro (tempi e ritmi) e da domande alquanto impegnative, vissute peraltro come pressioni esterne ad adottare strategie di forte impegno personale per allinearsi allo standard richiesto. Da notare che le attuali modalità di lavoro basate su smartphone e Internet tendono a destrutturare tempi e luoghi lavorativi, facilitando il sovraccarico mentale, e a smussare i confini tra lavoro e vita privata, elevando così la probabilità di una “doppia dipendenza”: dal lavoro e dalle tecnologie comunicative.

Di recente sono stati chiamate in causa 2 ulteriori cause:
a) le aspettative di carriera, che possono accentuare la spinta interiore e la persistenza nel lavorare strenuamente anche senza provare soddisfazione e a scapito degli altri interessi di vita e della propria salute. Si tratterebbe di una strategia più o meno consapevole per raggiungere i propri obiettivi basata sul sovrainvestimento lavorativo, che scatta specialmente se si percepiscono insicurezza per il futuro e barriere alla crescita professionale;
b) il clima organizzativo sbilanciato sulle richieste di superlavoro (overwork climate; Mazzetti et al., 2014) e fortemente competitivo, che può indurre nei lavoratori un eccesso di focalizzazione sul lavoro, con condotte di malsano autosfruttamento delle proprie forze.

Perdipiù le persone tenderanno a investire il massimo di risorse mentali e fisiche per essere superiori ai colleghi, iniziando a provare disagio e senso di colpa quando non riusciranno a lavorare come e quanto vorrebbero per vincere la competizione con gli altri.

Che cosa fare per ridurre i rischi?

Dati la multifattorialità della dipendenza da lavoro (cause personali e ambientali) e il suo carattere insidioso e subdolo, di cui la persona stessa è poco consapevole, sarebbero indicate iniziative sia di prevenzione primaria che di cura. Ci si riferisce all’opportunità che le organizzazioni evitino di considerare il maniaco del lavoro come un desiderato “campione” di produttività e impegno, sforzandosi di contrastare un clima di superlavoro e facilitando un bilanciamento tra le esigenze del lavoro e quelle della vita privata. Occorrerebbe poi prendere atto della serietà dei rischi del workaholism, offrendo informazioni e servizi di counseling o di vera e propria psicoterapia, in grado di accompagnare le persone nella presa di coscienza delle possibili trappole del loro sovrainvestimento sul lavoro e di stimolare strategie di autoregolazione dei propri impegni, di ragionevole distacco dal lavoro e di recupero dell’equilibrio tra le varie sfere di vita.

Opzioni di trattamento della dipendenza da lavoro

I trattamenti si focalizzano su:

a) partecipazione a gruppi di auto-aiuto (supporto emotivo tra pari, comprensione e rinforzo delle strategie di disimpegno e riequilibrio lavoro-famiglia);
b) tecniche cognitivo-comportamentali (contrasto di credenze difettose e di standard di prestazione irrealistici, e loro sostituzione con pensieri più positivi);
c) forme di rilassamento antistress e di meditazione (come la mindfulness);
d) approcci psicodinamici per far riflettere su fattori personali più profondi alla base dello stato di dipendenza.

Guido Sarchielli è professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna. Tra gli altri volumi, ha pubblicato Introduzione alla psicologia del lavoro (con F. Fraccaroli, Il Mulino, 2017).

Riferimenti bibliografici
Atroszko P. A., Griffiths M. D. (2017), «Work addiction is not new to the psychological literature and has evolved over time», Global Journal of Addiction & Rehabilitation Medicine, 3 (3), 1-2.
Balducci C., Avanzi L., Fraccaroli F. (2018), «The individual “costs” of workaholism: An analysis based on multisource and prospective data», Journal of Management, 44 (7), 2961-2986.
Clark M. A., Michel J. S., Zhadnova L., Pui S., Baltes B. B. (2016), «All work and no play? A meta-analytic examination of the correlates and outcomes of workaholism», Journal of Management, 42 (7), 1836-1873.
Mazzetti G., Schaufeli W. B., Guglielmi D. (2014), «Are workaholics born or made? Relations of workaholism with person characteristics and overwork climate», International Journal of Stress Management, 21, 227-254.
Quinones C., Griffiths M. D. (2015), «Addiction to work: A critical review of the workaholism construct and recommendations for assessment», Journal of Psychosocial Nursing and Mental Health Services, 53 (10), 48-59.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui