Guido Sarchielli

Vendicarsi o perdonare, quando si subisce un torto sul lavoro?

Virtù e limiti di due atteggiamenti opposti, rispetto a uno sgarbo ricevuto sul luogo di lavoro.

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«Ho un collega che non sopporto più. Non solo è pigro, egocentrico, improduttivo e, peggio ancora, non smette mai di parlare, ma spesso è invadente e si mette al centro dell’attenzione di fronte ai capi. Preleva le cose dalla mia scrivania senza chiederle, persino lo yogurt dal frigo comune scompare spesso. Ha il vizio di prendere in giro con sarcasmo gli altri o li svaluta, direttamente o dietro la spalle, suscitando malcontento nell’ufficio. Di recente ha tradito la mia fiducia facendo passare per sue le idee di un mio progetto e prendendosi sfacciatamente gli elogi per meriti non suoi. Ora basta con questi torti. Sono indignato e non vedo l’ora di rendergli pan per focaccia».

Questo è un esempio di condotte che violano la qualità e i confini delle normali relazioni interpersonali. Sono frequenti nei contesti di lavoro poiché i rapporti quotidiani con i colleghi e i superiori diventano facili occasioni di incomprensioni, sgarbi, piccoli soprusi e contrasti non esplicitati, che possono portare a sentimenti di frustrazione e percezioni di ingiustizia. Pur essendo trasgressioni minori e poco appariscenti (se non agli occhi dei diretti interessati), alla lunga incrinano il clima psicosociale e possono costituire il terreno di coltura per forme più gravi di devianza relazionale, come la violenza interpersonale, l’harrassment (le molestie), il bullismo, i furti ecc.

Tali forme, comunque, sono in grado di provocare il risentimento, cioè uno stato d’irritazione ripetuto nel tempo che spinge a rivivere i torti che hanno innescato le prime reazioni emotivamente disturbanti. Questo stato d’animo può manifestarsi con gradi diversi di indignazione, astio, rabbia, ansia, senso di impotenza e sfiducia negli altri, e soprattutto attivare desideri di rivalsa. Le relazioni di lavoro intrise di risentimento possono interferire con la qualità delle prestazioni e la produttività soprattutto quando le persone devono lavorare in modo interdipendente. 

Gli psicologi hanno studiato fenomeni del genere nell’ambito dello stress lavorativo, descrivendo differenti strategie di risposta (coping), tra le quali la vendetta e il perdono.

La vendetta si esprime nei contesti organizzativi con ritorsioni mirate a controbilanciare i torti subiti. Si presenta sia con azioni dirette verso il trasgressore o verso l’istituzione sia con modalità meno palesi, quali, per esempio, il lavorare più lentamente, il rifiutarsi di aiutare il collega o l’ignorare i compiti da lui assegnati nel caso sia un superiore. Qualche volta la vendetta resta un’intenzione o una fantasia che non si concretizzano in condotte esplicite. In tal caso, rimuginare su come rimettersi in pari con una vendetta ha un impatto negativo sulla salute, essendo stato dimostrato che concentrarsi sulla vendetta aumenta lo stress, interferisce con le normali funzioni mentali e indebolisce persino il sistema immunitario: le emozioni negative persistenti sembrano portare più danno al vendicatore che alla persona da cui questi è stato offeso. La vendetta, seppure abbia una connotazione etica negativa – come arcaica “legge del taglione” –, non è sempre considerata un male. 

Le ricerche sulla giustizia organizzativa hanno infatti spiegato la grande diffusione della vendetta in nome del fatto che può configurarsi come un mezzo, sia pure estremo, per ripristinare il senso di giustizia e per fungere da dissuasore di comportamenti offensivi da parte di colleghi o superiori prevaricanti e da catalizzatore per cambiamenti positivi in seno all’organizzazione. Malgrado questi presunti benefici, nondimeno, la vendetta organizzativa è generalmente criticata sia perché produce di rado i risultati desiderati sia perché è accompagnata da una rabbia repressa potenzialmente malsana sul piano psicologico. Inoltre, è scoraggiata come modalità di soluzione dei conflitti perché può provocare un’escalation di ritorsioni di lunga durata, fonte di turbamento del clima organizzativo e delle relazioni lavorative.

Il perdono organizzativo manifesta la volontà di una persona che ha subito torti e ingiustizie di rinunciare al proprio diritto al risentimento e alla rappresaglia, variando il proprio modo di vedere la situazione, nella prospettiva di migliorarla, e rimpiazzando le emozioni negative con quelle positive, come la speranza, e altruistiche, come l’empatia. Ciò non significa condonare la trasgressione (ossia negarla o fingere che non sia accaduta) né dimenticarla o minimizzarla con qualche giustificazione ex post, e neppure riconciliarsi a tutti i costi. Infatti, la riconciliazione può far seguito al perdono, ma richiede che entrambe le parti riconoscano il significato di quanto è accaduto e lavorino insieme per recuperare la relazione sulla base del rispetto ritrovato e della fiducia riguadagnata. Il perdono è invece un processo innescato liberamente da chi ha patito il torto: non negoziato con il trasgressore, ma ricercato con coraggio e impegno nella prospettiva di liberarsi dallo stato di risentimento per il passato e di proiettarsi verso un futuro più soddisfacente per tutti.

Le evidenze sugli effetti positivi del perdono nei contesti di lavoro sono ormai numerose. Esso è associato non solo alla riduzione dei sintomi personali di stress, quali ansia, depressione, ipertensione e cefalea, e all’aumento delle percezioni di benessere psicofisico e di autoefficacia, ma anche al miglioramento della produttività, del coinvolgimento sul lavoro e della cooperazione con i colleghi. Inoltre, il perdono tende a produrre un “contagio positivo” collettivo innalzando il morale e stimolando un clima di fiducia e percezioni di continuo miglioramento delle relazioni interpersonali. 

È quindi nell’interesse dell’organizzazione prendersi maggiore cura del proprio personale e far sì che anche le piccole trasgressioni siano risolte in modo da impedire che finiscano per violare i contratti psicologici tra i membri dell’organizzazione, basati sulla fiducia, e per minare il rispetto, la credibilità, la legittimità e la reputazione, che sono fondamentali per buoni rapporti di lavoro. In tal senso, la strategia del perdono è oggi molto apprezzata e facilitata da specifiche iniziative di formazione e servizi di counseling centrati sullo sviluppo di resilienza a relazioni interpersonali avverse e sulla consapevolezza dei vantaggi personali e collettivi del saper perdonare.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 271 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui