Anna Oliverio Ferraris

Resilienza, il ruolo dell'immaginazione e della speranza

Per resistere nelle situazioni più terribili spesso è necessario trovare quel distanziamento che da un lato ci “aliena” dal loro carico di sofferenza, ma dall’altro ci consente in realtà di elaborarlo.

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«Improvvisamente mi vedo in una sala per le conferenze: bene illuminata, bella, calda: sono sul podio. Davanti a me un pubblico interessato e attento, seduto in comode poltrone - e parlo. Parlo e tengo una conferenza di psicologia sul campo di concentramento! E tutto ciò che mi tormenta e mi opprime, risulta obiettivato, visto e descritto da un superiore punto di vista scientifico. Riesco così a pormi, in qualche modo, al di sopra della situazione, al di sopra del presente e del suo dolore, guardandolo come se fosse il passato e come se io stesso, con tutti i miei dolori, fossi oggetto di un interessante esame psicologico-scientifico, che svolgo personalmente. Che cosa dice Spinoza nella sua Etica? “Un moto dello spirito che è una sofferenza, cessa di essere una sofferenza, non appena ce ne facciamo una idea chiara e distinta”. Chi invece non sa credere più nel futuro, nel suo futuro, in un campo di concentramento è perduto [...] È grazie alla propria vita interiore che il prigioniero poteva proteggersi dal vuoto, dalla desolazione e dalla povertà spirituale della propria esistenza» (V. E. Frankl, Lo psicologo nei lager, 1946).

Nel descrivere la propria esperienza in un campo di sterminio nazista, il neurologo e psichiatra austriaco Viktor Frankl (1905-1997) affermò che i fattori che più contribuirono alla sua sopravvivenza in condizioni di stress estremo come i lager nazisti furono:

- darsi dei compiti;

- porsi degli obiettivi;

- mantenere viva la speranza e la capacità di fare progetti;

- coltivare l’indipendenza di pensiero e l’abilità di analizzare obiettivamente ciò che si verificava in una situazione complessa e assurda come quella in cui lui, al pari di migliaia di altri prigionieri, era sprofondato;

- riuscire a tenere sotto controllo i propri impulsi a lamentarsi, a ribellarsi o a esprimere rabbia, ossia non cadere preda della disperazione esponendosi così a rappresaglie;

- usare l’immaginazione per astrarsi ed entrare in un mondo parallelo, separato da quello reale fatto di orrori e di sofferenze indicibili.

Il brano sopra riportato fa riferimento a quest’ultimo aspetto. Secondo lo psichiatra viennese, emigrato poi in California, uno dei fattori protettivi, in condizioni di grossa difficoltà e sofferenza, è la capacità di frapporre una distanza di sicurezza tra la propria mente e gli eventi reali che minacciano di dissestarla.

Ciò che in condizioni normali potrebbe indicare un disturbo o una patologia mentale – come una netta separazione tra il proprio Sé e la realtà esterna, tanto da non riuscire più a collegarli in una relazione dotata di senso –, in condizioni di impotenza e di caos può invece rivelarsi una strategia salvifica

In situazioni estreme, come appunto la vita in un campo di sterminio – dove le persone sono state non solo brutalmente sradicate dalla loro vita precedente e dai loro affetti, ma anche private della loro identità e umanità –, patologico non è certo l’individuo che seguendo la propria immaginazione si costruisca una realtà fittizia; patologica è semmai la realtà assurda in cui quell’individuo è stato catapultato.

D’altro canto, questo tipo di attività mentale può entrare in azione fin dai primi anni di vita, non appena, da bambini, cominciamo a
far uso dell’immaginazione e diventiamo capaci di rappresentarci, nei giochi, situazioni diverse od opposte a quelle della vita reale. Un felice dinamismo della mente umana che è stato magistralmente illustrato nel film di Roberto Benigni La vita è bella (1997)

In quel film sono illustrate le fughe nella fantasia e la forza dell’umorismo di un padre che, internato con il figlio in un campo di concentramento, riesce fino all’ultimo a proteggerlo mascherando l’intero dramma della prigionia e della morte dietro la facciata divertente di un gioco a punti, sino alla prova conclusiva che nella fantasia del bambino assume i connotati di una lunga partita a nascondino.

Trattando in chiave umoristica e surreale una realtà insostenibile, quel padre riesce a creare una distanza salvifica, dalla valenza terapeutica, tra suo figlio e l’orribile realtà del lager in cui entrambi sono stati internati e in cui alla fine il padre sarà ucciso.

Quelle descritte da Frankl e da Benigni sono reazioni psicologiche che si attivano nella mente infantile come in quella adulta. Ponendo il proprio male a distanza, si ha l’impressione (per tempi più o meno lunghi) di potersi sottrarre o ciò che minaccia e opprime. Questo distacco psichico ha l’effetto di distogliere la persona ferita dal sentimento di annientamento che la sovrasta e di consentirle di trascendere il male in cui è immersa, senza perdere la speranza di uscirne.

E se il sentimento della speranza non garantisce di per sé la possibilità di sottrarsi a minacce mortali, esso ha però il pregio di creare un clima psicologico favorevole grazie al quale non si perde la fiducia in un cambiamento positivo. La speranza, infatti, è quella forza interiore che non guarda al passato e al presente ma all’avvenire e che, orientando l’attenzione verso il futuro, spinge le persone a impegnare le proprie energie verso un fine. Una spinta propulsiva che aumenta le probabilità di riuscita. Specularmente, le probabilità di riuscire diminuiscono notevolmente in chi non credendo nel futuro non dispone di questa spinta.

È ancora Frankl a raccontarci che cosa succedeva a coloro che nei lager nazisti avevano un crollo della speranza, una crisi esistenziale senza rimedio: «Ognuno di noi temeva – non per sé, sarebbe stato ormai superfluo, ma per i suoi amici – il momento in cui la crisi sarebbe apparsa. In genere succedeva questo: un giorno il detenuto in questione restava sdraiato nella baracca, e non era possibile convincerlo a vestirsi, andare nella stanza da bagno, venire sulla piazza dell’appello. Quando si arriva a questo punto nulla ha più effetto, nulla può spaventare – né preghiere, né minacce, né botte – tutto è inutile. Quell’uomo resta semplicemente sdraiato, si arrende, non si preoccupa più di nulla».

Questo articolo è di ed è presente nel numero 267 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui