Chiara Pensa, Valeria Ugazio

Perché drogarsi

Le stesse sostanze assumono funzioni diverse in base ai significati con i quali chi ne è dipendente costruisce il suo mondo.

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«Voi lo sapete – afferma lo scrittore americano William Burroughs (1953) – com’è quando si comincia a star lontani dalla droga. Si viene nei pantaloni». Per Burroughs l’eroina è salvifica perché ti libera dagli impulsi sessuali e «ottunde anche le reazioni emotive fino al punto di annullarle» (1985). Finalmente sei solo cervello. Attraverso la droga, Burroughs può trascendere il proprio corpo perché la sostanza lo rende evanescente: non rimangono che organi frammentati senza un contenitore. Proprio questo annientamento del corpo gli consente un rapporto positivo con gli altri, che per lui è una comunicazione incorporea e telepatica. Lo yage, una sostanza usata dagli indios dell’Amazzonia, durante la permanenza in Messico dopo la morte della moglie gli sembrò lo strumento più idoneo per raggiungere questa comunicazione, che prescinde dalla corruzione del corpo. 

DROGA E LETTERATURA

Completamente diversa è l’esperienza con le sostanze di Jack Kerouac. Esponente della beat generation come Burroughs, Kerouac non ne condivideva i dilemmi. Era un viaggiatore, un solitario, un avventuriero alla Jack London che però sapeva di avere sempre la sua stanza e la sua macchina da scrivere che lo aspettavano nella casa della madre. Orgoglioso della propria forza e della propria capacità di cavarsela da solo quando si metteva “on the road”, Jack in realtà non riuscì mai ad essere come avrebbe voluto e tornò terrorizzato da un paio di esperienze vissute in solitudine sulle montagne dell’Ovest. La benzedrina sembrava avesse per lui il potere di aiutarlo a padroneggiare le proprie paure. Era fiero di riuscire ad assumerne dosi massicce, il suo corpo era tanto forte da sostenerle! L’alcol gli serviva invece per regolare le distanze entro le relazioni. Annebbiandolo, gli dava la sensazione di riuscire a mantenere un certo distacco dagli altri e dalle proprie emozioni.

Non sono certo queste le motivazioni che indussero Aldous Huxley, l’autore di Il mondo nuovo, a provare nel 1953 la mescalina. Il suo obiettivo era evadere dalle ristrettezze dell’io cosciente per raggiungere l’illuminazione, o almeno una percezione fuori dall’ordinario, simile a quella dell’esperienza mistica. Huxley era convinto che l’evoluzione avesse privilegiato in tutti noi una conoscenza al servizio della sopravvivenza della specie, condannando al silenzio altre forme di percezione estranee a dinamiche utilitaristiche. E voleva esplorare l’Altro Mondo, quello agli antipodi della mente, i cui tesori sono nascosti a chi si accontenta della percezione ordinaria. Attraverso la mescalina, desiderava quantomeno aprire una breccia nel muro che ci separa da questo mondo, intravisto soltanto dai grandi visionari alla Emanuel Swedenborg o alla William Blake. 

Le droghe, secondo Huxley (1954; 1956), nascono «dal desiderio universale e sempre presente di auto-trascendenza», dal bisogno che tutti noi sentiamo di prenderci delle vacanze dalla nostra intollerabile personalità cosciente e dai suoi problemi di autoaffermazione, dal bisogno di «essere sospinti fuori dalle linee dell’ordinaria percezione, di ricevere, per qualche ora al di là del tempo, la manifestazione del mondo esterno e di quello interno […] così come essi sono captati, direttamente e incondizionatamente nell’esperienza».

Intellettuale inglese tra i più colti e raffinati, arrivato alle soglie dei 60 anni, Huxley vuole liberarsi dalla «fiduciosa insolenza» dell’intelletto, dal mondo «opaco» dei concetti, dalle astrazioni esplicative entro cui ha passato tutta la sua vita, per arrivare a cogliere «le cose in sé». E la mescalina, se non gli fa raggiungere l’illuminazione, mantiene tuttavia la promessa di restituirgli per qualche ora la bellezza fatata di un mondo dove le cose splendono dall’interno, dove i colori, intensificati, appaiono di una brillantezza al di là della natura.

In Le porte della percezione (1954) e in Paradiso e inferno (1956), Huxley ci offre un resoconto accurato della sua esperienza con la mescalina, che lo trasporta in un mondo straordinario dove le cose brillano di luce propria e sono «soddisfatte di essere soltanto sé stesse, sufficienti nella loro quintessenza» come le ragazze dei quadri di Vermeer. 

LA SEMANTICA COSTRUISCE  LE DIPENDENZE

Sono proprio queste letture ad averci suggerito l’ipotesi che ciascuno attribuisce alla droga significati e funzioni diversi a seconda dei significati con i quali costruisce il proprio mondo. Questa idea è stata confermata da una ricerca pilota che abbiamo recentemente condotto, entro il framework della teoria delle polarità semantiche di Ugazio (2018), su 30 tossicodipendenti impegnati in un percorso riabilitativo in una struttura residenziale (Pensa e Ugazio, in preparazione), di cui qui anticipiamo il risultato più interessante. 

In tutti i tossicodipendenti intervistati prevaleva una semantica, cioè un modo particolare di organizzare il significato nella costruzione del proprio mondo, alimentato da specifiche emozioni. Ed era questa stessa semantica che dava un significato del tutto particolare alle droghe di cui avevano fatto uso. 

LA SEMANTICA DELLA BONTÀ

La maggioranza dei partecipanti alla ricerca apparteneva alla semantica della bontà e aveva fatto uso prevalente di eroina e cocaina. Come tutti coloro che utilizzano in modo prevalente questa semantica, leggevano la loro storia attraverso le polarità “buono/cattivo” e “vivo/morto”, alimentate da piacere e disgusto. 

Un pathos drammatico alimentava la loro narrazione, perché la vita, nell’ambito di tale semantica, sta dalla parte del male. “Buono” per loro era chi nella loro famiglia rinunciava all’espressione dei propri desideri e alla difesa dei propri interessi, chi si sacrificava, chi si allontana dalla dinamica “pulsionale”. “Cattivo” era invece chi nel proprio mondo, compresi sé stessi, esprimeva la propria sessualità e le proprie pulsioni aggressive. In questa semantica, «Le istanze vitali – sessualità, affermazione di sé, investimenti su persone e cose – sono il luogo in cui si esplica il male, mentre sacrificio, rinuncia e ascesi vengono identificati con il bene» (Ugazio, 2018). Un principio, questo, di cui erano intessute le loro storie, segnate – come spesso accade nel contesto di tale semantica –
dalla difficoltà di collocarsi stabilmente in uno dei due poli. La bontà è infatti difficile da raggiungere in questa semantica perché richiede la negazione delle istanze vitali. Anche vivere è un’impresa ardua, poiché implica il coraggio di essere cattivi.

I partecipanti si descrivevano spesso come scissi in due parti: una li incitava ad affermarsi, coinvolgersi emotivamente, vivere, esprimere le proprie emozioni, l’altra impediva loro l’espressione di affetti e impulsi. L’uso di cocaina e eroina permetteva loro di trovare un positioning più o meno stabile in uno dei due poli, superando sterili blocchi. Cocaina ed eroina assumevano significati opposti. La cocaina consentiva loro il libero sfogo di pulsioni represse. Determinava così uno spostamento verso il polo “cattivo”, “pulsionale”, “vitale”. Finalmente potevano vivere! Naturalmente, passato l’effetto, essi sperimentavano colpa, paura e angoscia. Un paio di casi tra i nostri aveva avuto episodi di disorganizzazione psicotica su temi di colpa e punizione proprio a seguito dell’assunzione di cocaina e di conseguenti comportamenti “cattivi”. L’eroina assumeva invece per queste persone, come per Burroughs, il significato opposto di anestetizzare, sedare, reprimere le emozioni. Grazie al suo effetto gli interessati si posizionavano nel polo astinente senza soffrire. 

LA VICENDA DI ROCCO

Rocco, un trentacinquenne, nato e cresciuto in una famiglia mafiosa, con una carriera delinquenziale alle spalle, esprimeva emblematicamente questa dinamica. Si riteneva una persona «pacifica», «buona», cui piaceva «mettere pace quando due litigano». Tuttavia riconosceva di essere stato a due passi dal compiere omicidi e aveva paura della propria aggressività: «Devo trattenerla – confessava –, se non lo facessi esploderebbe in modo devastante!». Ed era già esplosa. Rocco aveva compiuto gesti efferati. Aveva aggredito con una spranga di ferro, per vendetta, due giovani mandandone uno in coma, aveva torturato per tre giorni un coetaneo con cui la sua ragazza l’aveva tradito. La propria violenza gli faceva paura, gli provocava rimorsi, sensi di colpa e disgusto verso sé stesso: «Il male che ho fatto rimane addosso anche a me. Poi mi faccio schifo».

Confessava di avere pianto, a volte, dopo essere stato aggressivo, di essersi fatto male tirando pugni contro il muro. Generalmente si asteneva dall’essere aggressivo, evitava le situazioni pericolose, ma alla fine si sentiva spossato dal continuo controllo che esercitava su di sé, vissuto come rinuncia alla vita. Attraverso cocaina e alcol trovava il coraggio di essere cattivo. Tutti i numerosi episodi di violenza di cui si era macchiato erano stati commessi sotto l’uso di queste sostanze. La cocaina «mi faceva sentire un leone, diventavo forte… facevo lo spavaldo, prendevo coraggio e la mischiavo con l’alcol… iniziavo a caricarmi e lì paura non ce n’era… avevo il diavolo addosso». Conseguenze completamente diverse aveva su di lui l’eroina, sentita come «un muro» capace di bloccare le emozioni e di farlo sentire buono e in pace con il mondo. «Con l’eroina – continua Rocco – tutto si annullava ed ero finalmente tranquillo, ma quando veniva a mancare era come la caduta del Vajont: le emozioni, la rabbia e la voglia di violenza spingevano da dietro la mia schiena per uscire e sembravano travolgermi». Rocco proverà più volte anche la speedball, combinazione di cocaina (o crack) ed eroina (o morfina). Unendo cocaina ed eroina, l’uomo aveva la netta percezione di rischiare di morire, eppure era affascinato dallo speedball, forse perché racchiudeva in sé il proprio dilemma tra l’essere buono e l’essere cattivo, tra l’esprimere l’aggressività e il reprimerla.

SEMANTICA DEL POTERE. LA STORIA DI VITTORIO

Di regola non utilizzavano eroina, ma cocaina e crack, i nostri partecipanti che costruivano il loro mondo con la semantica del potere, di poco meno frequente della semantica della bontà nel nostro campione. Il loro mondo, come quello dei pazienti con disturbi alimentari, dove questa semantica prevale, era popolato da vincenti, in quanto determinati, volitivi, capaci di far sentire la propria voce, e da perdenti, in quanto incapaci di farsi valere e imporsi sugli altri. I conflitti competitivi nel loro contesto erano la norma, e incessante la battaglia per la definizione delle relazioni.

Nonostante alla base di cocaina e crack vi sia la stessa sostanza, l’assunzione di queste due droghe rifletteva e contribuiva a produrre cambiamenti netti nei loro positioning. La cocaina aiutava il soggetto a sentirsi vincente. Euforia, sensazione di maggiore prestanza fisica, più elevate capacità cognitive, ridotto senso di fatica e appetito, che la sostanza di per sé genera, venivano da loro interpretati come manifestazioni di efficacia personale. Grazie alla cocaina si sentivano sicuri di sé, grintosi come non mai. Il successo a cui avevano sempre aspirato sembrava ora a portata di mano. E a volte proprio con la marcia in più fornita dalla cocaina avevano raggiunto importanti traguardi

Il crack, invece, li faceva sentire falliti. Dopo aver assunto il crack, si descrivevano come passivi, inetti, arrendevoli, in altre parole si sentivano perdenti ed erano considerati tali dalle persone accanto a loro. A volte il crack era sostituito dall’alcol, che determinava un’analoga mancanza di volitività e determinazione ed era quindi foriero di un senso di fallimento. Sia cocaina che crack, o alcol, presentavano un vantaggio: liberarli dalla tendenza coattiva a confrontarsi con gli altri. Si garantivano così «una vacanza psicologica», come ebbe a dire uno dei nostri partecipanti.

Proveniente da una famiglia nella quale la riuscita scolastica e professionale era fondamentale, dove alcuni avevano avuto successo professionale e accademico mentre altri erano considerati dei falliti, Vittorio oscillava all’interno della polarità “vincente/perdente”. Era l’unico dei fratelli ad essersi laureato. Sia la sorella che il fratello, accademicamente più brillanti di lui, avevano entrambi abbandonato l’università quando ormai erano quasi alla fine del percorso: la prima a causa dello sviluppo di una grave anoressia e il secondo per motivazioni imprecisate. Vittorio era consapevole di quanto la competizione e il ripetuto confronto con gli altri fossero stati fonte di costante stress per lui, come pure per i fratelli: «Ti nasce dentro un’ansia da prestazione che ti rovina, anche loro [i fratelli] si sono fatti degli autogoal perché non ce la facevano più». Quando era bambino, la fantasia lo aiutava a prendere le distanze dalle richieste prestazionali della famiglia, ma erano soltanto tecniche diversive di breve durata, come il vagheggiato uso di funghi allucinogeni.

L’ansia da prestazione non lo abbandonava neppure in comunità, dove a un certo punto entrò, perché anche quella esperienza era vista come una prova: se fosse riuscita, avrebbe potuto rimetterlo nuovamente in gioco, mentre, se fosse fallita, ne avrebbe sancito la definitiva sconfitta: «A 36 anni, se va male anche questa, non ho più chance». La sua vita aveva conosciuto momenti di successo, cui erano seguiti altri di totale fallimento, scanditi dall’uso di due sostanze: cocaina e crack.

Vittorio aveva iniziato una carriera accademica ed era stato assunto da una multinazionale. Tutti questi avanzamenti erano stati ottenuti anche grazie alla cocaina, che lo rendeva «grintoso». «Finalmente – raccontava l’uomo – mi sentivo adeguato… la cocaina mi dava un senso di controllo… Senza, era tutto uno stress, un andare di cervello, mentre la cocaina mi faceva stare bene, mi centrava su me stesso, mi sentivo efficace». Ma dalla cocaina era passato al crack, che aveva determinato «il crollo, il fallimento totale», con perdita di lavoro e di fidanzata, e successivo uso di alcol e benzodiazepine. «All’inizio – continuava – questa sostanza ti dà un up molto forte, ti senti un leone, ma il down è pesantissimo, il cervello poi ti va in acqua». E aggiungeva: «È il crack ad avermi portato qui».

Naturalmente, questi modi di concepire le sostanze non sono esaustivi. Se avessimo intervistato i tossicodipendenti in carcere, probabilmente avremmo incontrato molti soggetti che costruiscono il loro mondo nella semantica dell’appartenenza, dove rabbia e disperazione, e conseguente violenza, giocano un ruolo determinante e ne alimentano le polarità caratteristiche: esclusione/inclusione e onore/onta. Negli unici due casi in cui è emersa la prevalenza della semantica dell’appartenenza fra i nostri soggetti, la comunità era sostitutiva del carcere. Se avessimo incluso nella ricerca le persone che si disintossicano fruendo dell’assistenza dei servizi pubblici territoriali, avremmo probabilmente incontrato persone nella semantica della libertà perché queste sono restie ad allontanarsi da casa e preferiscono affidarsi all’aiuto dei familiari. Di loro parleremo in un contributo a parte. 

Chiara Pensa, dottore in Psicologia e psicologa, è ricercatrice presso la EIST, European Institute of Systemic-relational Therapies – Milano.

Valeria Ugazio è psicoterapeuta e dirige a Milano l’EIST, che ha fondato nel 1999. Professore ordinario di Psicologia clinica all’Università di Bergamo, è autrice di numerosi articoli e volumi.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Burroughs W. S. (1953), La scimmia sulla schiena (trad. it.), BUR, Milano, 2014. 

Burroughs W. S. (1985), Checca (trad. it.), Adelphi, Milano, 1998.

Huxley A. (1954; 19562), Le porte della percezione. Paradiso e inferno (trad. it.), Mondadori, Milano, 2016.

Kerouac J. (1957), Sulla strada (trad. it.), Mondadori, Milano, 2006.

Pensa C., Ugazio V. (in preparazione), Che significati assumono le sostanze per chi si droga?.

Ugazio V. (1998-2012-2018), Storie permesse, storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatologie, 3a edizione ampliata, aggiornata e rivista con un glossario dei termini specifici e una bibliografia ragionata 1991-2018, Bollati Boringhieri, Torino.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 283 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui