Omicidi in famiglia, tra ordinaria follia e responsabilità penale
Il fenomeno degli omicidi tra le mura domestiche ripropone la domanda: è sempre per un incontrollabile raptus che si uccide un congiunto?
La famiglia è cambiata. È aumentata la labilità dei suoi confini verso l’esterno, sempre più invasivo a causa dei social media, che le sottraggono il ruolo normativo riguardo ai valori etici e sociali e alla loro trasmissione generazionale. Questo rende più difficile gestire all’interno della famiglia i conflitti, i fallimenti e le sofferenze dei membri; così, anziché un contenitore di affetti, essa diventa un luogo in cui scaricare l’aggressività sugli elementi più deboli: donne, anziani, bambini. Le trasformazioni delle dinamiche parentali rendono la famiglia un luogo insicuro, che si presta a diventare scenario di violenza.
Tra le violenze che spesso esitano in omicidio, quella più frequente è l’uxoricidio, per la maggior parte “femminicidio”: uccisione di mogli e compagne da parte dei loro partner. Spesso, causa di questi delitti è la possessività e la gelosia ossessiva che interferisce con un amore male interpretato. Viene attaccato l’oggetto del bisogno e del piacere, che si pretende di possedere ma che diventa impossibile da controllare. I delitti vengono definiti “passionali” in quanto attribuiti a impulsi non controllabili scaricati contro l’oggetto della passione, che non vuole più essere tale. Un proposito di separazione può innescare uno stato di frustrazione e timore per la paura di perdere le figure di riferimento, di interrompere i rapporti con i figli, di dover cedere la casa di proprietà e versare onerosi assegni di mantenimento; si crea una situazione di squilibrio e turbamento – con forti ansie per il futuro percepito come sconvolgente, che personalità fragili non riescono a reggere – la quale finisce per portare a un omicidio e/o suicidio. Ci sono poi le violenze omicide dei genitori (in questo caso, prevalentemente la madre) verso i figli, o dei figli verso i genitori.
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