L'impatto dell'uso della tecnologia nei bambini
Perché un’esposizione prolungata dei bambini allo schermo di tablet e smartphone è dannosa.
Come già abbiamo visto in questa rubrica, la nascita dell’iPhone nel 2007 e quella dell’iPad del 2010 hanno rimosso dall’interazione con la tecnologia la barriera linguistica che a lungo aveva rappresentato il principale requisito di base per accedere alle potenzialità dei nuovi media: per poter utilizzare uno smartphone o un tablet non è più necessario saper leggere o scrivere. Basta saper controllare le proprie dita. E questo ha aperto il mondo digitale anche a bambini che hanno pochi mesi di vita, e soprattutto prima ancora che questi abbiano imparato a leggere e a scrivere.
Il problema è che a qualunque bambino interagire con le tecnologie digitali piace molto, anche troppo. Non solo, lo smartphone o il tablet assorbono completamente l’attenzione, trasformandosi per molti genitori in perfetti baby-sitter. Davanti a questa situazione le domande da porsi sono due. È una cosa giusta? E che cosa implica per le loro menti e le loro future capacità cognitive ed emotive? Data la novità del fenomeno, per tanto tempo non ci sono state risposte chiare a queste domande. Tuttavia, una serie di studi recentissimi ha cominciato a chiarire quali possono essere gli effetti a lungo termine di tali scelte. In particolare, la rivista americana JAMA Pediatrics
ha pubblicato negli ultimi mesi diversi articoli che offrono indicazioni assai chiare.
L'impatto dell'uso della tecnologia nei bambini - Giuseppe Riva
Il primo studio, «Prevalence of preschoolers meeting vs exceeding screen time guidelines» («Prevalenza di ragazzi in età pre-scolare che seguono o eccedono le linee guida relative al tempo di esposizione agli schermi», articolo scaricabile su http://tiny.cc/2kaxgz), ha mostrato chiaramente che la maggior parte dei bambini di 2-3 anni non rispetta le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e di varie associazioni pediatriche che, in questa fascia di età, suggeriscono un’esposizione agli schermi (sia televisivi che di tecnologie digitali) non superiore a un’ora al giorno.
In particolare, su un campione statunitense di oltre 3500 bambini, il 79% dei bambini di 2 anni e il 95% dei bambini di 3 anni superano significativamente detto valore. Lo studio mostra anche quali sono i fattori di rischio associati al mancato rispetto di tali indicazioni: il principale è il tempo passato dalla madre davanti agli schermi (maggiore è il tempo della madre, maggiore è quello del figlio), seguito dall’iscrizione a un asilo nido (chi è iscritto a un asilo ha meno rischi di chi sta a casa con un parente o una baby-sitter).
Ma cosa succede a chi supera questo valore? La risposta alla domanda viene da un secondo studio, «Associations between screen-based media use and brain white matter integrity in preschool-aged children» («Associazioni tra uso dei media basati su schermo e integrità della materia del cervello bianco nei bambini in età prescolare», scaricabile su http://tiny.cc/zwaxgz).
Lo studio, che ha usato la risonanza magnetica per analizzare gli effetti sul cervello dell’esposizione agli schermi, ha mostrato per la prima volta la presenza di alterazioni nello sviluppo delle aree cerebrali.
Sebbene i risultati siano solo preliminari, vista la limitata ampiezza del campione (47 bambini statunitensi di età compresa fra i 3 e i 5 anni), i risultati sono molto chiari. Superare le linee guida va ad alterare una serie di aree cerebrali che sono legate allo sviluppo del linguaggio, delle capacità di alfabetizzazione e delle funzioni esecutive. A tal proposito gli autori concludono dicendo che i loro risultati «sollevano dubbi sul fatto che un uso non corretto dei media possa fornire una stimolazione non ottimale dello sviluppo neurologico durante la prima infanzia».
Perché? Una possibile risposta è legata a come l’interazione con la tecnologia può alterare i meccanismi di strutturazione della conoscenza. Uno dei principali obiettivi del linguaggio è quello di permettere al bambino di identificare relazioni tra stimoli. Per esempio, se a un bambino chiedo: «Mi dai la palla grande?», la risposta è necessariamente relazionale, cioè legata alla capacità di cogliere la relazione tra due stimoli – la palla “piccola” e la palla “grande” – e di analizzarla. Invece, la maggior parte delle app pensate per i bambini è basata sulla risposta a stimoli specifici: premo il tasto e succede qualcosa, come evitare un ostacolo o muovere un oggetto. Se il bambino impara a usare il tablet o lo smartphone prima di iniziare a parlare, il rischio è quello di focalizzare la conoscenza sul qui e ora dello stimolo specifico, piuttosto che sulle relazioni tra oggetti e sulla loro persistenza al di fuori del momento immediato di interazione (capacità che si apprende a partire dagli 8 mesi). Questa capacità è infatti fondamentale per poter costruire relazioni arbitrarie, cioè non direttamente esperite dal soggetto in precedenza. La capacità si sviluppa tra i 17 e i 24 mesi ed è alla base dello sviluppo linguistico. Per esempio, è attraverso tali relazioni che il bambino impara a distinguere le “cose di papà” da “quelle di mamma”, che possono non avere proprietà fisiche simili. Inoltre, la costruzione di questa capacità passa necessariamente per l’interazione con soggetti significativi, cosa che non può avvenire se il bambino concentra la propria attenzione sugli schermi. Insomma, dare lo smartphone in mano a un bambino prima che abbia sviluppato la competenza linguistica può portarlo a un ritardo nell’apprendimento del linguaggio, che può essere associato a problemi più seri, come la dislessia o i disturbi dell’apprendimento.
In realtà, però, non tutti gli schermi sono dannosi per lo sviluppo cognitivo del bambino. Tra i 18 e i 24 mesi sono molto efficaci le app in grado di permettere il gioco simbolico, meglio se di gruppo. Queste app, che riproducono i contesti della vita quotidiana – la casa, l’asilo, il negozio – permettono al bimbo di far finta di essere qualcun altro, sviluppando la dimensione creativa e l’interiorizzazione di regole e comportamenti. Più precisamente, tramite l’imitazione dei comportamenti degli adulti di riferimento
– per esempio, cucinare, comprare, fare i genitori – il bambino impara a dare senso agli episodi della vita quotidiana. Inoltre, tramite l’interpretazione e la ripetizione dei comportamenti il bambino impara ad acquisire i comportamenti e le regole ad essi associate, migliorando la propria capacità di costruire relazioni arbitrarie.
Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Selfie. Narcisismo e identità (Il Mulino, 2016).
Questo articolo è di ed è presente nel numero 278 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui