Mauro Cibin, Silvia Faggian

Cosa avviene nel nostro cervello quando meditiamo con la Mindfulness

Visto che da qualche anno di essa si parla tanto, è interessante capire l’azione svolta dalla meditazione mindfulness sul cervello. Nel segno di un incremento 
di autoconsapevolezza e autocontrollo.

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Da alcuni anni il mondo occidentale sta riscoprendo l’antica arte della meditazione, sia nelle forme tradizionali di origine religiosa sia nella forma moderna della mindfulness. Acquietare il pensiero, concentrarsi sul respiro e sul corpo, “staccare” dal flusso della vita quotidiana sono gli elementi comuni di tutte le forme di meditazione: elementi che producono benessere nelle persone sane e che possono essere utilizzati per curare alcuni disturbi della mente, quali depressione, ansia, uso di alcol, tabacco, droghe, e come coadiuvanti nelle malattie fisiche legate allo stress (ipertensione, disturbi digestivi, cefalea ecc.).

Numerosi studi hanno dimostrato l’azione della meditazione sul cervello in queste situazioni. Spesso il disagio psichico origina infatti dalla difficoltà a fronteggiare lo stress, che a sua volta deriva dallo squilibrio tra le strutture cerebrali che “sentono” e regolano le emozioni e le sensazioni corporee, e quelle – situate nella corteccia cerebrale – ove hanno sede il pensiero cosciente, la razionalità, la capacità di programmazione. Tale squilibrio, tipico del mondo moderno, è determinato da situazioni di disagio e tensione prolungate, ardui eventi di vita, traumi. La meditazione ci aiuta, da sola o coniugata ad altri interventi terapeutici più classici, agendo su queste strutture cerebrali riequilibrandone la funzione, attraverso l’aumento della capacità di stare nel qui ed ora, sviluppando le capacità di attenzione, di regolazione emotiva e di consapevolezza di sé

Le funzioni cerebrali coinvolte nella Meditazione 

Per affrontare il tema dell’azione della meditazione sulle funzioni cerebrali partiamo dalla caratteristica fondamentale del nostro cervello, ossia la plasticità. La neuroplasticità è la capacità del cervello di modificarsi dal punto di vista strutturale e funzionale in risposta all’esperienza. “Use it or lose it” (o lo usi o lo perdi): con questo aforisma viene riassunto il concetto per il quale l’attività cerebrale stimola e indirizza la neuroplasticità mediante l’esercizio e la pratica. Le funzioni cerebrali sono assolte dall’insieme di reti neurali che connettono i differenti distretti neuronali e che possono arricchirsi o, al contrario, depauperarsi in funzione del numero e della qualità di attività svolte dall’individuo nel corso della vita. Nel presente lavoro prendiamo in considerazione le reti coinvolte durante uno stato di meditazione, mostrando come tale attività sia in grado di produrre modifiche durature nel network cerebrale specifico.

Lo studio delle aree coinvolte durante la meditazione viene eseguito con le neuroimmagini, che sono rappresentazioni del sistema nervoso centrale, ottenute mediante Tomografia Computerizzata (TC), Risonanza Magnetica (RM), Tomografia ad Emissione di Positroni (PET). La TC e la RM forniscono immagini statiche delle strutture cerebrali, mentre la PET permette di visualizzare dinamicamente l’attività metabolica cerebrale in base al consumo di ossigeno e di glucosio. In questo modo è possibile, in primis, evidenziare quali strutture si attivano in una determinata attività e, in seconda istanza, misurare cambiamenti anatomo-funzionali del cervello in seguito a una certa esperienza (in questo caso, la pratica della meditazione).

Il distretto maggiormente impegnato nel corso della meditazione è senza dubbio quello associato alla corteccia prefrontale e alle sue connessioni sottocorticali. In generale, questo circuito neuronale è implicato in moltissime funzioni di controllo sui pensieri, sulle abilità cognitive e sulle emozioni. Si tratta del network neurale che risponde agli stimoli emotivi in base alla loro rilevanza, promuovendo reazioni emotive più o meno armoniose. Esso dirige l’attenzione verso stimoli provenienti dall’ambiente esterno o da percezioni corporee, direzionando l’attenzione verso gli uni o gli altri a seconda della relativa salienza; in tal modo sono prese decisioni e programmate azioni coerenti. Si tratta, dunque, di una funzione cruciale sia nell’equilibrio emotivo sia nella progettazione dei comportamenti e degli obiettivi individuali.

La meditazione sembra intervenire in tale meccanismo riducendo l’attenzione che solitamente si rivolge agli stimoli emotivi inviati da specifiche strutture sottocorticali e aumentando il focus sugli stimoli esterni. Il risultato è un minor coinvolgimento emotivo, uno sgravio dei nostri processi mentali, i quali riescono così a concentrarsi maggiormente sui dati esterni. L’impressione raccolta da chi pratica la meditazione è «Mi sento meno in balia dei miei stati emotivi e riesco ad essere più leggero»; «Posso ragionare in modo più obiettivo e non dipendo dallo stato d’animo del momento»; «Riesco a guardare la mia vita con maggior distacco e a pensare al futuro in maniera più determinata».

In qualche modo, questi risultati sono una conquista che si ottiene con l’esercizio. Infatti, sono state osservate differenze significative tra meditatori esperti e meditatori neofiti, relativamente all’attivazione della corteccia prefrontale. Essa appare molto impegnata all’inizio della pratica, per sgravarsi progressivamente mano a mano che il meditatore diventa più esperto. Quello che succede, dunque, è che lo spostamento del focus dagli stimoli emotivi interni verso l’esterno richiede un certo sforzo, che con la pratica si fa automatico (Chiesa et al., 2013).

Analizzando il fenomeno più nello specifico, possiamo osservare i cambiamenti che coinvolgono il sistema di informazioni da e per la corteccia cingolata e le sue connessioni corticali; esso controlla in particolare quel vagare della mente che ci proietta in un’altra dimensione e che è tanto sensibile alla valenza emotiva del nostro stato d’animo. Grazie alla meditazione, si acquisisce una maggior capacità di autoregolazione, con un conseguente abbassamento del perdersi nei propri pensieri. Ancora una volta, il meditatore mostra di padroneggiare maggiormente i propri stati emotivi e di avere un ruolo più attivo nel dirigere l’attenzione verso determinati stimoli. A dimostrazione di tali cambiamenti, vi sono gli studi che riportano cambiamenti anatomo-funzionali della corteccia cingolata, come un aumento della zona anteriore e una riduzione di quella posteriore.

Un’altra diramazione del distretto in questione è quella verso la parte di corteccia cerebrale denominata “insula”, la quale contribuisce all’elaborazione emotiva fornendo soprattutto informazioni provenienti dalla percezione corporea degli input emotivi. La meditazione stimola direttamente questo sistema neurale aumentandone l’attività e favorendo quindi un maggior controllo rispetto agli input corporei ed emotivi. La conseguenza è che gli stimoli che giungono alla corteccia, per essere elaborati in senso cognitivo, hanno minori valenza e impatto, e perciò risultano meglio gestibili.

Proseguendo nell’analisi del distretto neuronale influenzato dalla meditazione, è stato evidenziato uno specifico coinvolgimento di aree connesse con l’a-migdala, sistema sottocorticale in grado di attribuire agli input esterni e interni una valenza emotiva. In tal caso si registra una minor attivazione tramite la meditazione, con l’effetto che il carico emotivo attribuito agli stimoli è inferiore.

Pertanto, quello che succede è che gli stimoli interni ed esterni assumono una carica emotiva più tenue e possono essere elaborati con maggiore cognizione a livello corticale. Ma non finisce qui! Infatti, la modifica della valenza emotiva non riguarda soltanto lo stimolo attuale, ma anche la traccia mnestica. Di conseguenza la pratica della meditazione è in grado di togliere l’allerta emotiva ad alcuni ricordi, reintegrandoli nella nostra memoria come inoffensivi e arricchiti di maggiori particolari più neutri o addirittura positivi. La memoria non è statica, ma si scrive e riscrive: richiamare ricordi induce, difatti, uno stato transitorio chiamato “riattivazione”, durante il quale le informazioni possono essere modificate, rinforzate, rimosse, sostituite con altre informazioni. La riattivazione si conclude con l’archiviazione della nuova traccia mnestica, attraverso un processo denominato “reconsolidation” (Chiamulera et al., 2014). La memoria dei traumi passati spesso irrompe nella nostra realtà costringendoci a ridurre il nostro campo di azione e di pensiero: è come se, grazie alla meditazione, riuscissimo a liberarci di alcune zavorre che ci impedivano di volare più in alto, guardando al nostro presente e al nostro futuro in termini più propositivi. 

Effetti della Mindfulness

La meditazione tipo mindfulness viene applicata nella cura di numerosi disturbi fisici e mentali. Non va tuttavia sottovalutato il suo effetto positivo nell’aumentare il benessere dei soggetti in assenza di specifiche patologie. Una ricerca condotta a Udine ha mostrato la sua efficacia per soggetti sani, nel modificarne alcuni aspetti caratteriali, come l’autodirettività (forza di volontà, capacità di adattamento e di autocontrollo), la cooperatività (disponibilità e accettazione verso gli altri) e la trascendenza di sé (capacità di godere degli elementi naturali, spiritualità) nella direzione del miglioramento della percezione di sé e della capacità di incidere sulla propria realtà (Campanella et al., 2014).

L’efficacia della meditazione mindfulness presso la popolazione normale si misura in termini di aumento del benessere percepito e della consapevolezza rispetto ai propri meccanismi cognitivi ed emotivi disfunzionali (Brown e Ryan, 2003). Secondo alcuni autori (Strauss et al., 2015), infatti, la meditazione mindfulness è in grado di migliorare la qualità di vita in virtù della possibilità di ridurre le preoccupazioni e i pensieri ossessivi dei partecipanti. Essa ha inoltre mostrato la sua efficacia nella capacità di ridurre la percezione dello stress quotidiano proprio a partire da una maggiore autoconsapevolezza (Carmodye e Baer, 2008). Alcuni lavori si sono concentrati su una delle popolazioni più a rischio per problemi psicologici, ossia gli adolescenti. Broderick e Jennings nel 2012 hanno dimostrato che un training basato sulla mind-fulness promuove l’equilibrio emotivo degli adolescenti e le loro capacità di fronteggiare lo stress (la cosiddetta resilienza) esponendoli a una minor probabilità di attuare comportamenti a rischio.

La meditazione mindfulness è utilizzata con successo anche in molti ambiti clinici, proprio in forza della sua capacità di incrementare la consapevolezza e la possibilità di autocontrollo. Ciò spiega perché essa sia efficace in particolare laddove vi sia l’esigenza di aiutare i pazienti a riprendere il controllo sul proprio comportamento e sulle emozioni, come per esempio nell’ambito delle dipendenze patologiche, dei disturbi alimentari, del dolore cronico e del disturbo da stress post-traumatico.

Conclusioni 

La mindfulness è praticabile in un setting terapeutico individuale o di gruppo, così come è esercitabile, anche in autonomia, in un contesto di salute. Promuove un cambiamento a livello cognitivo ed emotivo che restituisce un maggior equilibrio e benessere individuali. Tale pratica aiuta infatti a prendere le distanze da stati emotivi disfunzionali, guardando con maggiore obiettività i propri pensieri e gli eventi esterni. La consapevolezza di sé libera la persona da schemi e meccanismi che, in modalità quasi automatica, condizionano il modo di pensare e di sentire, gravando sulla percezione del presente e sulla programmazione del proprio futuro.

I cambiamenti prodotti dalla meditazione mindfulness sono concreti e duraturi, come dimostrano le ricerche effettuate sul cervello. Le aree deputate alla percezione emotiva inviano input con minor valenza alle aree corticali che gestiscono l’elaborazione delle informazioni. Inoltre vi è uno spostamento dell’attivazione corticale a vantaggio di un focus maggiore verso l’esterno, piuttosto che sugli stimoli interni. Questo tipo di meditazione promuove il benessere individuale, aiutando le persone a osservare sé stesse e il mondo esterno con maggior consapevolezza, alleggerite dai carichi emotivi che tendono a collezionare nel corso della vita.

 

Silvia Faggian, psicologa e psicoterapeuta del SerD di Dolo-Mirano AULSS 3 Veneto, è autrice di varie pubblicazioni e testi nell’ambito neuropsicologico. 

Mauro Cibin è psichiatra e gastroenterologo. Già dirigente ULSS, attualmente è direttore del Centro Soranzo (Venezia).
Si occupa in particolare del rapporto fra trauma e dipendenza, su cui ha pubblicato oltre 200 lavori.

 

 

Riferimenti bibliografici

Brown K., Ryan R. (2003), «The benefits of being present: Mindfulness and its role in psychological well-being», Journal of Personality and Social Psychology, 84, 822-848.
Campanella F., Crescentini C., Urgesi C., Fabbro F. (2014), «Mindfulness-oriented meditation improves self-related character scales in healthy individuals», Comprehensive Psychiatry, 55, 1269. 
Carmodye J., Baer R. (2008), «Relationships between mindfulness practice and levels of mindfulness, medical and psychological symptoms and well-being in a mindfulness-based stress reduction program», Journal of Behavioral Medicine, 31, 23-33.
Chiamulera C., Hinnenthal I., Auber A., Cibin M. (2014), «Reconsolidation of maladaptive memories as a therapeutic target: Pre-clinical data and clinical approaches», Frontiers in Psychiatry,
https://doi.org/10.3389/fpsyt.2014.00107
Chiesa A., Serretti A., Jakobsen J. C. (2013), «Mindfulness: Top-down or bottom-up emotion regulation strategy?», Clinical Psychology Review, 33, 82-96.
Strauss C., Bond R., Cavanagh K. (2015), «How do mindfulness-based cognitive therapy and mindfulness-based stress reduction improve mental health and wellbeing? A systematic review and meta-analysis
of mediation studies», Clinical Psychology Review, 37, 1-12.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui