Andrea Castiello D'Antonio, Luciana d'Ambrosio Marri

Burnout: l’incendio che aumenta col virus

Cos'è il burnout e come agisce? Vediamo da vicino lo stress che medici e paramedici hanno sopportato per fronteggiare le fasi peggiori del contagio da covid-19.

Bornou.png

Con l’undicesima revisione dell’ICD, l’International Classification of Diseases, il burnout è stato inquadrato come fenomeno occupazionale. Questa nuova versione dell’ICD – frutto di oltre dieci anni di lavoro da parte di una numerosa platea di operatori sanitari a livello internazionale – è stata presentata nel maggio del 2019 alla World Health Assembly (Organizzazione Mondiale della Sanità) per essere adottata dagli Stati membri ed entrerà in vigore dal gennaio 2022.

La definizione del burnout nell’ICD-11 è più precisa e dettagliata di quella della versione precedente della classificazione internazionale. Ora il burnout è definito (QD-85) una sindrome concettualizzata come risultante dello stress cronico sul posto di lavoro, che non è stato gestito con successo.
È caratterizzato da 3 dimensioni:
1) sentimenti di debolezza energetica o di esaurimento;
2) aumento della distanza mentale dal proprio lavoro, sentimenti di negativismo o di cinismo collegati al proprio lavoro;
3) ridotta efficacia professionale. Il burnout si riferisce specificamente a fenomeni che avvengono nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato a esperienze che si collocano in altri settori della vita.

Inserito nel capitolo dell’ICD-11 dedicato ai fattori che influenzano lo stato di salute ma che non sono classificabili come patologie, malattie o lesioni fisiche, il burnout è stato differenziato da altre condizioni limitrofe, come i disturbi dell’umore, l’ansia, i problemi di adattamento e i disturbi associati al distress. Ma da dove deriva l’idea del burnout, una sindrome inizialmente visualizzata nell’ambito delle professioni assistenziali e socio-sanitarie, e che poi è stata estesa all’ambiente occupazionale generale?

Il termine stesso designa la situazione di un soggetto esaurito, surriscaldato, bruciato, o crollato, indicando dunque una situazione-limite di grave logoramento psicofisico; le emozioni specifiche sono legate al ritiro in sé stessi, al disinteresse, alla demotivazione, alla disaffezione e alla sensazione di essere enormemente pressati e di non farcela più, al prosciugamento emotivo, ma anche al senso di colpa e disistima. Tale condizione porta con sé una serie di difficoltà nella sfera della relazione e altrettante possibili problematiche nella sfera somatica, dall’insonnia ai disturbi psicosomatici.

Le prime indicazioni sul burnout provengono dagli studi dello psicologo e psicoanalista Herbert J. Freudenberger (1974; Freudenberger e Richelson, 1980) e dalla psicologa Christina Maslach (1978; 1982), ma la BOS - Burn-Out Syndrome rappresenta la manifestazione finale di un processo che avviene per fasi contraddistinto, secondo Cherniss (1980), da un primo momento di disequilibrio tra richieste di lavoro e risorse personali, da una seconda fase in cui si manifestano nervosismo, esaurimento, ansia e affaticamento generale, e da una terza in cui emergono difensivamente modalità di relazione con il lavoro caratterizzate da rigidità, ritiro, cinismo e distacco emotivo.

BURNOUT E LA FATICA DELLA COMPASSIONE

Se già il burnout colpisce maggiormente categorie professionali come medici, sanitari, operatori dell’emergenza e professionisti nelle relazioni di aiuto (Maslach, Schaufeli e Leiter, 2009), in tempi di Covid-19 la situazione si è esasperata. Oltre ai fattori che abitualmente portano in direzione burnout, la tragedia e l’incalzare dell’epidemia internazionale nella sua lunga fase iniziale, gli orari di lavoro senza limiti per l’emergenza negli ospedali e per le richieste di aiuto hanno portato molti operatori a dedicarsi ancora di più alle attività di cura e a non volersi esimere dal dover curare ed “esserci” con competenze e umanità, mettendo però ad alto rischio la propria salute personale. Il problema che è emerso è stato quello di essere persone, prima che operatori, costantemente in azione, senza poter/voler recuperare, stante la situazione sempre al limite e oltre il limite, come per mesi è stato esperito sul campo anti-Coronavirus. Oltre al burnout, in questa drammatica situazione è emerso un altro fattore di stress, riassumibile nell’espressione fatica della compassione. Si è trattato dell’affaticamento derivante dall’impossibilità di separare il lavoro e la vita personale, dalla costante preoccupazione per i malati o per chi si ha in cura, dall’assunzione di molteplici responsabilità che vanno oltre il confine prescritto del ruolo professionale. Emozioni di tal genere in un periodo drammatico di intenso bisogno della comunità tutta, come quello di una pandemia, sono difficili da evitare.

IL BURNOUT AI TEMPI DEL COVID-19

Solitamente, per arginare il rischio burnout, gli esperti consigliano di ristrutturare il proprio assetto mentale, la cornice di riferimento personale/professionale in cui si opera, di cambiare cioè prospettiva. Prendersi delle pause, pensare e concentrarsi sul futuro in cui l’apice del distress sarà superato, fare esercizi di rilassamento a partire dalla respirazione, dialogare con sé stessi potenziando l’automotivazione e la necessità del proprio ben-essere, ed esprimere le emozioni negative di tristezza o rabbia a mo’ di esercizio utile per la ripresa di un assetto emozionale meno gravato dalla pressione di sentimenti difficili da contenere soprattutto in condizioni di esasperazione interiore e pressione esterna.

Nel caso degli operatori in trincea Covid-19, non potendo modificare direttamente il virus, e quindi le condizioni oggettive responsabili del problema, diventa fondamentale modificare il significato dell’esperienza vissuta e presidiare le conseguenze psicologiche entro limiti sostenibili anche grazie a un aiuto specializzato esterno. Ciò appare ancora più importante se si pensa che lavorare undici ore al giorno può aumentare fino a 2.5 volte il rischio di cadere in depressione. È questo il risultato di uno studio condotto dai ricercatori della Queen Mary University di Londra, dell’Università di Bristol, della McGill University e del Finnish Institute of Occupational Health, pubblicato nel 2012 sulla rivista digitale PLoS One.

In ambito sanitario e delle attività di emergenza, la pandemia del Coronavirus ha diffuso negli operatori sentimenti di conflitto interiore tra pensare a sé e pensare agli altri, difficoltà di gestione della contraddizione fra dedicarsi al proprio ruolo assistenziale e salvaguardare la salute propria e dei propri familiari, ansia nel convivere con il rischio di ammalarsi e forse morire. Tutto questo schiaccia l’essere umano e implica sforzi straordinari e responsabilità altrettanto straordinarie per coloro che dirigono il personale in tali ambiti. La leadership sana e responsabile ha l’obbligo di comprendere l’eccezionalità della situazione e le aree di rischio non solo “oggettivo” che si aprono per i collaboratori in una dimensione in cui tutti hanno a che fare con scarse e non sempre affidabili informazioni. I fattori di incertezza, le molte ore di lavoro, l’alta concentrazione, la perdita di sonno, la perdita di controllo e la mancanza di informazioni – cioè proprio quello che si è intensificato nei primi mesi della pandemia – sono tra le maggiori concause del distress.

Chi esercita ruoli di guida di persone dovrebbe assumere una leadership basata sul favorire una consapevolezza situazionale, dovrebbe riuscire a prendere decisioni mutevoli rispetto alle necessità variabili ed evolutive dell’emergenza, sostenere le persone con empatia ma anche favorendo quella minimale distanza emotiva che salvaguarda le persone stesse dall’effetto-boomerang dell’eccesso di empatia. Ciò perché la comprensione di sé e delle emozioni dell’altro in certe situazioni di forte impatto emotivo può far entrare gli operatori dell’emergenza in tunnel emozionali da cui è difficile uscire. Cosa non facile in tempi di Covid-19, dove distanza sociale e invisibilità di quella comunicazione non verbale che ci rende umani e percepibili dagli altri per l’obbligo di maschere, tute e guanti inibiscono i canali di costruzione di quel rapporto emotivo che di solito veicolano elementi e segnali di reciprocità, fiducia, umanità.

VALUTARE IL LIVELLO DI BURNOUT NELL’ORGANIZZAZIONE

L’OCS - Organizational Checkup System, di Michael P. Leiter e Christina Maslach, ha lo scopo di misurare il livello di burnout nell’organizzazione di lavoro, identificandone le cause principali, e di pianificare percorsi di recupero lungo il continuum burnout-engagement (Castiello d’Antonio, 2016).

Sulla base del costrutto elaborato da Maslach, l’OCS rileva le 3 dimensioni del job burnout:
1) la resistenza individuale, che va dall’esaurimento all’energia;
2) la reazione agli altri e al lavoro, che va dalla disaffezione lavorativa al coinvolgimento;
3) la reazione individuale verso il proprio lavoro, che va da un sentimento di inefficacia a uno di efficacia professionale.

A queste 3 dimensioni si associano 6 aree declinate sui due versanti del burnout e dell’engagement. Per far fronte alle 6 aree del burnout sono stati individuati 3 processi manageriali centrati sulla leadership, sullo sviluppo delle competenze e sulla coesione di gruppo.

Al fine di valutare le specifiche forme di stress presenti negli operatori della sanità è stato sviluppato l’HPSCS - Health Professions Stress and Coping Scale, un questionario self-report che rileva lo stress percepito e le possibili risposte (coping) poste all’opera per affrontarlo. Le due versioni del test ― una per gli infermieri, l’altra per i medici ― rilevano 5 forme di stress e 4 tipologie di strategie di coping. Ogni stressor e ciascuna strategia di coping sono analizzati tramite altrettante specifiche scale di misura. Nell’insieme i due questionari consentono di intervenire a livello del singolo, del team o dell’intera organizzazione non solo valutandone le condizioni di salute, ma anche gettando le basi per impostare piani di formazione o di recupero.

L’OCS e l’HPSCS sono disponibili nel Catalogo Test 2020 di Giunti Psychometrics.

BURNOUT E QUALITÀ DELLE CURE

Il burnout influisce sulla qualità delle cure dei pazienti stessi. Diverse ricerche dimostrano che medici e infermieri con segnali di burnout si preoccupano di più di commettere errori mentre il livello di attenzione razionale e finalizzato diminuisce. Una nuova indagine coordinata da Holly Wei, membro della Facoltà del College of Nursing della East Carolina University, ha esaminato gli infermieri dei pazienti Covid-19 nella provincia di Hubei, in Cina, all’inizio dello scoppio della pandemia. Lo studio – recentemente accettato per la pubblicazione in Issues in Mental Health Nursing – ha mostrato che gli infermieri in prima linea nella pandemia sono passati attraverso diverse fasi psicologiche quando si sono presi cura dei pazienti con Covid-19. Queste fasi includono ambivalenza, esaurimento emotivo e rinnovamento energetico.

L’équipe di professionisti coordinata da Wei ha poi pubblicato uno studio riguardante l’impatto degli stili di leadership sul burnout delle infermiere. Sia la ricerca che la letteratura mostrano che i dirigenti svolgono un ruolo significativo nello stabilire un ambiente di lavoro favorevole, fornendo le attrezzature necessarie e soddisfacendo i bisogni emotivi degli infermieri.

A conferma dei pericoli dello specifico burnout da Coronavirus, uno studio pubblicato qualche mese fa su JAMA Network Open (23 marzo 2020; DOI:10.1001/jamanetworkopen.2020.3976) ha quantificato il rischio di sviluppo di patologie psicologiche e psichiatriche tra gli infermieri e i medici impegnati nella cura dei pazienti affetti da Covid-19. Dai dati della ricerca sulla salute mentale di 1257 operatori sanitari di 34 ospedali cinesi che hanno dovuto assistere pazienti contagiati da SARS-CoV emerge che la maggioranza ha riferito di aver sviluppato i seguenti disturbi: depressione (50%), ansia (45%), insonnia (34%), disagio psicologico generalizzato (71.5%).

LA NOIA SUL LAVORO: IL BOREOUT

C’è un altro tipo di distress che presenta i sintomi del burnout e che, per paradosso, è il suo contrario estremo: il boreout. Esso è lo stress sul lavoro derivante dalla totale monotonia e dalla prolungata assenza di stimoli dotati in qualche modo di senso per la persona. Il boreout è stato studiato e definito nel 2008 da due consulenti d’impresa, Philippe Rothlin e Peter Werder, ma se ne sono occupati anche psicologi e studiosi come lo psicoterapeuta tedesco Wolfgang Merkle.

Gli effetti sul soggetto in boreout sono sia fisici (problemi di digestione, mal di testa, insonnia) sia psicologici ed emotivi (ansietà, frustrazione, depressione). La persona che cade in una miscela pesante di queste condizioni può arrivare a simulare di essere impegnata sul lavoro perché si vergogna di essere inutile, ma a rallentare in modo esasperato gesti e rimi di attività che altrimenti potrebbero durare pochi minuti (per esempio, il caffè alla macchinetta aziendale, il tempo di una fotocopia ecc.). In tal modo il soggetto prolunga la durata di azioni anche banali al solo scopo di occupare più tempo possibile facendo comunque qualcosa. Oppure rimanendo più che può in ufficio fingendo di essere molto impegnato e difendendo così, disperatamente, l’immagine sociale dell’essere indaffarato sul lavoro e quindi utile.

Naturalmente, ciò provoca spesso una dinamica ancora più stressante, per cui il soggetto è inattivo per parecchio tempo, l’autostima si abbassa ed egli, invece di cercare come uscirne e confrontarsi anche in maniera autocritica, entra in una condizione di avvilimento nel vuoto del proprio ruolo (d’Ambrosio Marri, 2020).

CONCLUSIONI

È qui, allora, che strategie di coping per affrontare la drammatica situazione mondiale nello specifico ambito operativo di emergenza diventano fondamentali. Un elemento di tale strategia è potenziare il grado di capacità di resilienza degli operatori e dei capi che li guidano, dato che con il Covid-19 dovremo conviverci ancora a lungo.

Se questa è la situazione del burnout e degli stressor professionali associati al Covid-19, il boreout non ha certamente investito gli operatori sanitari e quelli dell’emergenza contro il Covid-19, nemico pericoloso, invisibile, subdolo, trasmissibile anche da inconsapevoli portatori privi di sintomi (i famigerati “asintomatici”) e comportante il rischio di riaffacciarsi anche in zone che hanno già avuto a che fare con esso.

Dunque, per gli operatori sanitari e dell’emergenza lo sviluppo e il rinforzo della resilienza sono dati da più fattori: essere consapevoli del valore del proprio contributo per la modifica positiva delle situazioni, ricevere dall’organizzazione riscontri e riconoscimenti sul proprio agire competente e dedito oltre misura, poter lavorare in squadra anche nella logica del buddy team (per cui due operatori si affiancano monitorando reciprocamente la sicurezza personale e la capacità di sostenere le difficoltà), ricevere supporto di debriefing (cioè un’occasione di riflessione in gruppo per condividere esperienze e apprendimenti) con esperti esterni per la gestione dell’eccessivo distress ma anche delle proprie, più che comprensibili, paure, ansie e fragilità con cui convivere. Insomma, imparare a non essere i “pompieri” di sé stessi perché si rischia di pretendere troppo da sé, a scapito della propria salute.

Queste sono alcune chiavi sostanziali per attutire il rischio burnout e continuare a svolgere bene, per come si può, il proprio lavoro in condizioni drammatiche come non mai.

Luciana d’Ambrosio Marri, sociologa del lavoro, coach e counselor, si occupa di selezione, formazione, diversity management, sviluppo delle persone e benessere organizzativo. È autrice di numerosi saggi e articoli di psicosociologia.
https://www.lucianadambrosiomarri.it/
Facebook: Luciana D'Ambrosio Marri

Andrea Castiello d’Antonio, psicoterapeuta e psicologo delle organizzazioni, già professore straordinario presso l’Università Europea di Roma, ha pubblicato venti volumi e circa duecento articoli in diverse aree della psicologia.
https://www.castiellodantonio.it/
Facebook: Andrea Castiello d'Antonio


Riferimenti bibliografici

Castiello d’Antonio A. (2016), «Lavorare con entusiasmo. Engagement e benessere lavorativo», Psicologia contemporanea, 256, 36-43.
Cherniss C. (1980), La sindrome del burn-out. Lo stress lavorativo degli operatori dei servizi socio-sanitari (trad. it.), Centro Scientifico Torinese, Torino, 1983.
D’Ambrosio Marri L. (2020), «Intervista», OK Salute e Benessere, 4, 54.
Freudenberger H. J. (1974), «Staff burn-out», Journal of Social Issues, 1 (30), 159-165.
Freudenberger H. J., Richelson G. (1980), Burnout: The high cost of high achievement, Anchor Press, Garden City.
Maslach C. (1978), «Job burnout: How the people cope», Public Welfare, 36 (2), 56-58.
Maslach C. (1982), Burnout: The cost of caring, Prentice Hall, Englewood Cliffs.
Maslach C., Schaufeli W. B., Leiter M. P. (2009), «Burnout: 35 years of research and practice», Career Development International, 14 (3), 204-220.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui