Guido Sarchielli

Successo professionale e benessere. Conseguenza o causa?

Recenti studi mostrano che provare emozioni positive come appagamento, soddisfazione e ottimismo si collega a un atteggiamento più costruttivo anche nel contesto di lavoro.

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Abbiamo sentito spesso, dai nostri genitori, insegnanti, datori di lavoro e persino dalla pubblicità, il messaggio: «Impegnati e lavora sodo, così avrai successo e sarai contento». Anche se appare intuitiva, sfortunatamente questa sequenza risulta ingenua e talvolta illusoria. Sin dagli anni Trenta le scienze del lavoro si sono sforzate di dimostrare l’ipotesi che esista un legame linea­re tra riuscita lavorativa, migliori prestazioni e contentezza delle persone, ma, nonostante ormai sia una credenza accolta nelle stesse pratiche manageriali, essa non ha trovato prove empiriche coerenti e solide. Per esempio, le recenti indagini Gallup a livello internazionale mostrano risultati contraddittori: da un lato, oltre i due terzi dei lavoratori si dichiarano soddisfatti del loro lavoro, ma, dall’altro, solo circa il 15% di essi risulta engaged, ossia impegnato attivamente e orientato a investire sugli obiettivi del suo lavoro, e addirittura moltissimi detestano il loro ambiente lavorativo e provano emozioni negative, in particolare verso i loro capi. (CONTINUA...)

Tale contraddizione sembra legata all’uso indifferenziato della soddisfazione come unico indicatore globale di riuscita e benessere lavorativo. In realtà, la soddisfazione è un giudizio sui pro e contro del lavoro che implica un bilancio cognitivo dei ricavi ottenuti, sia di quelli immateriali sia di quelli oggettivi, come la sicurezza del posto, le condizioni lavorative o il livello salariale. Lo stato di benessere, invece, ha una prevalente connotazione emozionale e si basa sulla pienezza dei significati dell’esperienza lavorativa in relazione al self e su dimensioni soggettive per le quali oggi si tende a usare il termine felicità nelle due accezioni: edonica (piacere immediato) ed eudemonica (benessere a lungo termine come virtuosa autorealizzazione delle potenzialità personali). 

Non si tratta di una distinzione solo nominalistica, ma avente a che fare con effetti sostanziali anche sul piano pratico: viene prima l’uovo o la gallina? Insomma, sono il lavoro e la riuscita professionale a generare benessere (e soddisfazione) o, viceversa, è possibile che uno stato di benessere soggettivo influenzi il lavoro, la sua produttività e la carriera?

La ricerca più recente, assumendo un’ottica di psicologia positiva, si focalizza sul benessere psicologico evidenziando che emozioni positive quali gioia, ottimismo, contentezza e appagamento si associano a comportamenti costruttivi quali un più facile inserimento in situazioni nuove, una fruttuosa collaborazione con gli altri, tenacia nel perseguimento di nuovi obiettivi, investimento di energie personali sul lavoro. Lo stato di benessere manifestato da emozioni positive sembra inoltre indicare che la vita di una persona sta andando bene, che si hanno risorse adeguate, senza minacce e costrizioni, e che gli obiettivi personali sono raggiungibili tramite l’impegno lavorativo personale. In altri termini, un assetto emotivo positivo risulta svolgere tanto una funzione adattiva quanto un ruolo motivante che spinge l’individuo a raccogliere i propri sforzi, a indirizzarli sui compiti attuali e a prepararsi per le sfide future. 

Molte indagini sul campo rivelano che le persone dotate di un più elevato livello di benessere psicologico sono maggiormente soddisfatte del loro lavoro, lo descrivono come più significativo e autonomo, hanno maggiori probabilità di andare oltre il semplice mansionario (con numerosi comportamenti altruistici di “cittadinanza organizzativa”) e di ricevere maggiore sostegno sociale dai colleghi nonché valutazioni più favorevoli dai loro supervisori. Inoltre, i lavoratori più felici risultano meno inclini al burnout, fanno meno assenze dal lavoro e non hanno intenzione di lasciare il loro lavoro. In generale, essi si rivelano più produttivi, più coinvolti nel lavoro (engaged) e tendono ad assumersi un’ampia gamma di responsabilità e ad avere redditi leggermente più alti rispetto alle persone meno felici. Da notare che questi effetti del benessere psicologico sono stati confermati anche da ricerche longitudinali (con ripetute osservazioni nel corso del tempo) mostrando, per esempio, che:
a) i neolaureati con un più elevato livello di benessere psicologico hanno maggiori probabilità di successo nei colloqui di lavoro e di avviarsi a carriere prestigiose;
b) le persone più felici hanno meno probabilità di perdere il lavoro e più opportunità di ritrovarlo in caso di crisi occupazionale;
c) le persone più felici, ricontattate dopo alcuni anni, svolgevano attività lavorative molto significative e spesso avevano raggiunto posizioni invidiabili nelle loro organizzazioni.
In sostanza, la presenza di un buon livello di benessere psicologico non è sempre un effetto, ma può precedere e persino promuovere il coinvolgimento lavorativo, la produttività e il successo di carriera.

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La felicità individuale, intesa come benessere soggettivo, non è ovviamente l’unico fattore che influenza il successo professionale (anche persone meno felici, seppure con più fatica, possono avere carriere degne di nota), perché esso richiede anche condizioni socio-economiche, organizzative e gestionali più o meno facilitanti. Tuttavia le organizzazioni che implementano iniziative di welfare, positive per il benessere psicologico delle persone sin dalla loro assunzione, realizzano di fatto un investimento con ritorni vantaggiosi anche per il proprio funzionamento. In tal senso possono essere considerate le attività di counseling di carriera o di coaching centrate non tanto sulla gestione di disfunzioni, quanto sulla promozione di un buon funzionamento psicosociale; sulla valorizzazione dei punti di forza della persona; sulla autoregolazione delle emozioni (un ragionevole equilibrio tra emozioni positive e negative); sul supporto emotivo dell’autostima e dell’autoefficacia; sull’incoraggiamento dell’ottimismo e sulla ridefinizione di obiettivi aperti al futuro (riducendo nel contempo il rimpianto e il rimuginio su eventuali episodi passati negativi). 

Guido Sarchielli è professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna.


 

Riferimenti bibliografici

Robertson P. J. (2017), «Positive psychology and career development», British Journal of Guidance & Counselling, 46 (2), 241-254.

Walsh L. C., Boehm J. K., Lyubo­mirsky S. (2018), «Does happiness promote career success? Revisiting the evidence», Journal of Career Assessment, 26 (2), 199-219.

Warr P., Clapperton G. (2011),
Il gusto di lavorare. Soddisfazione, felicità e lavoro (trad. it.),
Il Mulino, Bologna.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 274 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui