Mauro Fornaro

Odio in famiglia: tra pulsioni fratricide e pulsioni parricide

Amore e odio sono sentimenti compresenti all’interno delle famiglie: moti di ostilità si attivano anche se non degenerano in aperta violenza, come per fortuna avviene nella maggior parte dei casi. Qual è la loro perturbante genesi? Come farvi fronte?

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Fa sempre pensare l’osservazione di Agostino (IV secolo d.C.) nelle Confessioni (libro I, cap. 7,11): «Io ho visto e conosciuto bene un bambino geloso: non parlava ancora e già guardava livido, con occhi torvi, il suo fratello di latte». Il filosofo di Ippona così scriveva, ad attestazione del peccato originale, e noi lo citiamo per chiederci se non vi sia una radice innata della propensione ostile anche verso chi ci è così prossimo, come lo è uno stretto familiare.

FRATERNA GELOSIA

Fatto sta che pure nelle migliori famiglie sono rilevabili molestie del maggiore di qualche anno nei confronti del fratello o sorella neonato/a, specie quando questi è investito dell’attenzione particolare che i genitori comprensibilmente gli/le riservano. È verosimile che nessun genitore, salvo casi patologici, sia così perverso da istigare comportamenti nocivi dell’un figlio verso l’altro; d’altra parte, è improbabile che dei genitori espongano il bimbo in tenera età («infans» scrive Agostino) alla visione di scene di violenza in misura tale da indurre in lui comportamenti imitativi.

Psicologi, antropologi, etologi si sono da sempre divisi tra la schiera di chi propende per una spiegazione innatista e disadattiva delle tendenze aggressive e quella di chi invece propende per una ambientalista e adattiva (Fornaro, 2004): a un estremo vi è chi parla di innata e disfunzionale pulsione di morte, all’altro estremo chi riconduce gli episodi di sadismo del bimbo (come lo strozzare animaletti o il mutilare bambole) alla mera imitazione o al sano esercizio di abilità motorie. Ma una soluzione convincente della sempiterna questione sull’origine dell’aggressività discende da una formulazione più corretta della questione.

Nel contesto di una concezione bio-psico-sociale dell’essere umano, infatti, la questione non è se l’aggressività sia innata o acquisita, ma quanto nei singoli individui e nelle singole tipologie di aggressività pesi il fattore biologico (costituzione fisica, dotazione ereditaria), quanto quello psicologico (personalità, abitudini) e quanto quello sociale (ambiente, educazione, valori condivisi).

Dunque, neanche il fenomeno dell’ostilità tra fratelli e sorelle dovrebbe sottrarsi a questo approccio multifattoriale. Imputarlo alla gelosia appare un’ipotesi plausibile, benché non esaustiva: la posta in gioco è l’esclusività dell’amore genitoriale, messa in forse da un pericoloso concorrente per quel bene primario espresso emblematicamente dal rapporto con il seno materno. Ma far risalire odio e propensione aggressiva alla gelosia significa solo spostare la questione: da dove proviene un’emozione complessa come la gelosia, che da nessuno il piccolo dovrebbe aver appreso? L’odio fratricida appare dunque l’esito possibile di innati moti di gelosia, come già nella storia di Caino che uccide il fratello Abele, dove la posta in gioco è, pure qui, l’amore dell’altro (nientemeno che Jahvè, nel caso). 

RESPONSABILITÀ PARENTALI

È pur vero, tuttavia, che non è meccanico il passaggio dalla gelosia all’odio fratricida: specie se vi sono un’adeguata preparazione e “narrazione” da parte dei genitori, il maggiore può essere indotto a un atteggiamento protettivo e di cura verso il neonato fratello o sorella, cosa che in genere riesce meglio con la bambina, suggerendole e coinvolgendola nel ruolo di “mammina”. Se nei piccoli l’ostilità è promossa dal dover condividere un amore parentale bramato in esclusiva, negli adulti un’occasione ricorrente di ostilità è la divisione dei beni lasciati in eredità dai genitori: la divisione è tanto più sofferta quanto più i beni sono investiti di significato affettivo, quasi si trasferisse simbolicamente su di essi quel bene primario che è l’amore parentale. E se i conflitti arrivano fino ai tribunali – “parenti serpenti” si suol dire – non è forse che le radici più profonde di queste strazianti contese vanno ricercate proprio nell’antica ambivalenza emotiva di amore e odio, riscontrabile pure tra fratelli/sorelle “al di sotto” di rapporti fin lì civili? Ed è un’ambivalenza che può dare frutti tanto più avvelenati quanto più i genitori sono stati ciechi a fronte di dinamiche inquietanti nella loro giovane prole.

Anzi, lo studio delle dinamiche familiari, intese come un sistema organico e non semplicemente come somma di comportamenti individuali, porta a constatare la presenza inevitabile di giochi di ruolo: ciascun membro della famiglia assume inconsapevolmente una certa posizione in relazione a quella degli altri membri e manifesta di conseguenza un comportamento complementare a quello degli altri. Tra i possibili giochi sta il gioco del buono e del cattivo: tipico è il canovaccio del figlio scapestrato che cerca una propria identità e autonomia nella ribellione, rispetto al quale, in correlazione di opposizione, si pone l’altro figlio, ligio alla legge della famiglia, l’uno esemplare, l’altro dissennato, talora fino a esiti drammatici.

Un caso come quello di Erika De Nardo – l’adolescente di Novi Ligure che nel 2001 uccide il fratello, ragazzo modello, e la madre, colpevole del mancato riconoscimento verso una figlia precocemente ribelle – può trovare un’ipotesi esplicativa proprio in siffatti giochi di ruolo; ed è un assetto evidentemente sfuggito di mano alla coppia genitoriale.

Tuttavia, solo un estremismo di scuola risolve la spiegazione di casi come questo nelle dinamiche del sistema-famiglia, trascurando le caratteristiche di personalità dei singoli; ma non meno parziale è la spiegazione che si limita ai moventi interni ai singoli, innati o acquisiti che siano.

CRIMINE ESECRANDO

Come uccidere il padre è il titolo ad effetto di un volume di Eva Cantarella (2017) che studia i rapporti tra padri e figli nell’antica Roma: vi si mostra come le virtù del buon tempo antico siano illusione. Parricidi e tentati parricidi dovevano essere un problema molto sentito, se Roma puniva il reo con un supplizio terribile: chiuso in un grosso otre assieme a una vipera, a un gallo e a una scimmia, costui veniva gettato a soffocare in mare o in un corso d’acqua.

Ma qual è il senso di una punizione così singolare? Per limitarci al confinamento nell’otre, verosimilmente il parricida doveva essere isolato dagli elementi naturali – che altrimenti egli avrebbe contaminato con il proprio contatto –, tanto era innaturale uccidere chi ti aveva dato la vita. Un delitto, dunque, esecrando, in quanto violava ciò che c’è di più sacro. Ma se tanta era la preoccupazione del legislatore romano, è perché il crimine evidentemente non era raro e inoltre era tale da mettere in questione le fondamenta stesse di una società costruita su clan patriarcali, con capifamiglia padroni di vita e di morte su figli e servi. E in un contesto in cui anche i figli maschi, seppur maggiorenni e affermati nella vita pubblica, continuavano a dipendere economicamente e giuridicamente dal padre, si comprende come essi non potessero che attendere la morte del padre, talora fino ad anticiparla, specialmente a fronte di un padre dispotico. Ma se la rivolta generazionale non scoppiò, è perché tanto padre era anche oggetto di ammirazione e di emulazione, da parte di figli che a loro volta sarebbero divenuti potenti pater familias.

Con tutti i mutamenti storici e sociali del caso, il prepotere del padre si è trascinato fine alle soglie dell’età contemporanea, se nei Fratelli Karamazov, capolavoro di Dostoevskij del 1879, vediamo la coalizione parricida dei figli (salvo il quarto, Aljoscia). Oltre al movente in comune con l’antico romano – cioè l’ostilità verso un padre dispotico, detentore di un patrimonio avaramente custodito – qui appare il movente della gelosia erotica: il padre Fëdor e il primogenito Dimitrij si contendono la medesima giovane donna. È un’avvisaglia di ciò che sarà un leitmotiv nella tradizione psicoanalitica, ossia il complesso di Edipo, che vede l’ostilità verso il padre per il “possesso” della madre. Ulteriore motivo di interesse nella vicenda dei Karamazov è che il primogenito, benché innocente del parricidio, perpetrato materialmente da un altro fratello, accetta il carcere perché anche lui ha desiderato la morte del padre. Ecco, quindi, il pensiero della morte del padre: esso appare fonte di un senso di colpa, quando sfiora perturbante pure la mente dell’adolescente dei nostri giorni, a seguito di acuti contrasti con il padre. Lo attesta la clinica psicoterapeutica.

TRAMONTO DEL COMPLESSO DI EDIPO?

Indubbiamente, nella nostra attuale società meno rilevanti sono i motivi di conflitti col padre, anche se, beninteso, non mancano momenti e motivi di odio. In effetti, vistoso è il ridimensionamento del potere paterno nelle società occidentali: da una parte vige la parità almeno giuridica tra i due genitori nel contesto peraltro di una famiglia di tipo nucleare e non più patriarcale, dall’altra parte vi è un rispetto per il minore, ignoto in passato (si pensi solo alla generale condanna odierna delle punizioni fisiche). Di più, l’avanzata del femminismo e la maggiore interscambiabilità di ruoli tra padre e madre hanno messo seriamente in questione l’esistenza di una specifica funzione paterna (Fornaro, 2018). Insomma, le occasioni di pesanti conflitti con il padre sono depotenziate (un discorso a parte meritano le ostilità riversate sulla madre, soprattutto nei casi di conturbanti odi da parte della figlia). Da tutto ciò risulta che oggi gli episodi parricidi sono meno frequenti; d’altro lato, però, si manifesta l’inquietante fenomeno di padri moralmente assenti o che non esercitano correttamente le funzioni paterne. In ogni caso, è da chiedersi se è un bene la mancanza di conflitto, il che non vuol dire di necessità guerra aperta, bensì incontro e scontro con una persona che dà delle regole, limitando desideri e pretese dei figli.

Quanto poi alle elaborazioni teoriche, è interessante notare rilevanti variazioni che si correlano ai suddetti cambiamenti sociali. Se più di ogni altra scuola la psicoanalisi freudiana ha focalizzato nel complesso edipico la rivalità del figlio con il padre, il senso di tale complesso è stato di recente ridimensionato o reinterpretato anche entro la tradizione psicoanalitica. Così, l’importante corrente della psicologia del Sé di Kohut, pur non negando il conflitto, insiste sul ruolo altresì paterno di favorire la crescita e la realizzazione del figlio nelle sue doti personali. In tal modo essa contrappone al mito di Laio – padre che abbandona il neonato Edipo avendo saputo dall’indovino che questi lo avrebbe ucciso – il mito di Ulisse, che per salvare il figlioletto Telemaco dalla morte accetta di partire per la guerra di Troia, pur sapendo che difficilmente ne tornerà (Kohut, 1981).

A seguito poi di considerazioni che portano a limitare il ruolo della sessualità, si insiste su un altro aspetto del complesso di Edipo: la funzione di acquisire il senso dell’alterità, dato dalla presenza di una figura terza rispetto alla coppia, tendenzialmente fusionale, madre-bambino. Da ultimo vengono le elaborazioni di teorici LGBT (Lesbiche Gay Bisessuali Transessuali): negata la funzione dell’Edipo quale mezzo per interiorizzare le differenze di genere (essere come il padre e “avere” la madre per il maschio, viceversa per la femmina), se ne riduce il senso alla generica problematica di ogni piccolo, quella di definire il proprio spazio entro la famiglia, sia essa a base etero- od omosessuale (Lingiardi e Carone, 2013).

Comunque, anche se si limita il ruolo della sessualità, resta sempre la necessità di significare l’alterità, la terzietà, quale funzione tipicamente paterna, quand’anche fosse esercitata dalla madre. Essa comporta una delimitazione dei desideri e l’avvio alla dura realtà sociale come ineludibile compito educativo. Allora è inevitabile il conflitto, specie in età adolescenziale, quando il desiderio di autonomia si scontra con le regole della famiglia. Non devono pertanto sorprendere le manifestazioni di ostilità a quell’età, fino a espressioni violente: sta al padre (e alla madre) saper cogliere il senso positivo di comportamenti inaccettabili, in ordine a una maldestra ricerca di indipendenza.

Il conflitto, tuttavia, non dovrebbe essere esorcizzato con discutibili comportamenti giovanilistici di un padre (o di una madre) che si ponga nella parte di collusivo fratello (o sorella) maggiore, più che in quella di adulto consapevole del salto generazionale; anzi, una certa misura di conflitto rafforza il carattere. Va da sé poi, sul versante opposto, che si debba evitare, grazie al dialogo e al perdono, che scontri ricorrenti si sedimentino in radicati sentimenti di odio. E il padre, o chi ne fa funzione, dovrà attendere paziente la riconoscenza da parte del figlio/a, quando questi avrà maturato l’indipendenza effettiva.

 

Riferimenti bibliografici

Cantarella E. (2017), Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Feltrinelli, Milano.

Fornaro M. (2004), Aggressività. I classici nella tradizione della psicologia sperimentale, della psicologia clinica, dell’etologia, Centro Scientifico Editore, Torino. 

Fornaro M. (2018), «A che serve il padre? Un ruolo controverso al giorno d’oggi», Psicologia contemporanea, 265, 50-54. 

Kohut H. (1981), «Introspezione, empatia e il semicerchio della salute mentale». In Le due analisi del signor Z (trad. it.), Astrolabio, Roma, 1989. 

Lingiardi V., Carone N. (2013), «Adozione e omogenitorialità: l’abbandono di Edipo?», www.funzione gamma.it/wp-content/uploads/04_lingiardi_carone.pdf 

Mauro Fornaro, già ordinario di Psicologia dinamica all’Università di Chieti-Pescara, è psicologo e psicoterapeuta. Ha pubblicato oltre un centinaio, tra volumi e articoli, su temi di storia ed epistemologia della psicologia.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 272 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui