Pietro Trabucchi

Ma i runner ce l'hanno più sviluppato?

Ovviamente parliamo del cervello. Un organo che anche uno sport basato su un controllo motorio semplice è in grado di stimolare.

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È il mio secondo organo preferito» diceva Woody Allen a proposito del cervello. Ma anche il grande comico rimarrebbe stupito dalla scoperta di una relazione tra cervello e corsa, molto più stretta di quanto finora avessimo sospettato.

Siamo i figli di una cultura che ha sempre scisso corpo e mente, pensiero e materia, associandoli a un ordine di valori: al di sopra, sublime e svincolato dalla greve materialità, il pensiero; sotto, immerso nelle tenebre del peccato, il corpo.

È quindi sconcertante scoprire che le cose non stanno proprio così; e che l’attività del cervello è potenziata e accresciuta dal lavoro del corpo.

A dire il vero, questo pregiudizio ha cominciato ad essere messo in discussione da quasi vent’anni, con la scoperta che l’esercizio fisico volontario innalzava i livelli del fattore neurotrofico cerebrale (BDNF), una neurotrofina in grado di favorire la crescita di nuovi neuroni e sinapsi.

Negli anni successivi sono state pubblicate molte ricerche che hanno dimostrato l’importante legame esistente tra cervello ed esercizio fisico; tuttavia si trattava quasi sempre di lavori che mettevano in evidenza gli effetti sul cervello di attività motorie ad alto contenuto coordinativo, come la ginnastica artistica, il golf, i tuffi o il nuoto sincronizzato.

In tempi recenti, invece, hanno cominciato ad essere pubblicati studi su un settore dell’esercizio fisico considerato povero di ripercussioni cerebrali e di contenuti cognitivi: quello del running (Raichlen et al., 2016). L’impatto di questi studi è sorprendente perché ci aiuta a renderci conto che la corsa non è semplicemente il mettere un piede dopo l’altro; se, infatti, parecchi di noi sono disposti a concedere che il cervello venga sollecitato da sport dove il controllo motorio è molto complesso, è abbastanza sconcertante scoprire che anche la corsa stimola fortemente il funzionamento cerebrale.

A questo proposito ho trovato illuminante lo studio svolto dai ricercatori dell’Università dell’Arizona (Raichlen et al., 2016): essi hanno reclutato 11 runner e altrettanti sedentari della stessa età, tutti di sesso maschile. La scelta di concentrarsi esclusivamente su individui di sesso maschile è stata giustificata dalla necessità di eliminare la variabilità di effetti cerebrali e fisici legati al ciclo.

Tutti i partecipanti sono stati collocati, in stato di riposo, all’interno di un MRI scanner: parliamo di quelle enormi apparecchiature sagomate a forma di tunnel all’interno delle quali viene spinto il paziente sdraiato su un lettino. A quel punto, per 6 minuti, è stata misurata la connettività funzionale del cervello di ciascun soggetto: la connettività funzionale è la capacità di attivare in modo simultaneo zone cerebrali differenti e fisicamente distanti tra loro.

Quello che è interessante è che la connettività tra aree diverse risulta tanto più marcata quanto più quelle zone hanno appreso a lavorare insieme: per esempio, nei musicisti esperti si riscontra un forte collegamento tra le aree motorie responsabili dell’uso dello strumento e le aree cognitive legate alla comprensione dello spartito. La sorpresa è stata nell’osservare che i cervelli dei runner mostrano molta più connettività, rispetto ai sedentari, tra aree di controllo motorio e aree cognitive. La cosa è sorprendente perché normalmente noi non riteniamo la corsa un’attività ad alto contenuto cognitivo, come invece potrebbe essere il fatto di suonare uno strumento.

Normalmente reputiamo che la corsa sia un’attività ripetitiva e piuttosto semplice, di gran lunga meno “cerebrale” che eseguire musica o leggere una rivista. Invece non è così. A quanto sembra, correre implica l’uso di abilità di orientamento e di “navigazione” estremamente complesse: occorre
pianificare e monitorare costantemente il percorso («Qui non conviene attraversare, meglio più avanti»), ispezionare l’ambiente, confrontare memorie di corse passate con la situazione attuale («Non era mica qui che mi ha rincorso un cane l’altra volta?»).

Tutte queste informazioni vengono coordinate con il network cerebrale che si occupa di coordinare l’attività motoria in atto. Ma anche altre funzioni cognitive sono implicate dal correre: come la capacità di spostare l’attenzione continuamente dall’ambiente interno a quello esterno («Dovrei prendere il concorrente davanti, però sto facendo troppa fatica») o la working-memory («Devo ricordarmi di girare a destra, tra poco»).

In un solo caso la connettività dei runner è risultata più bassa rispetto al gruppo di controllo: è avvenuto per quello che riguarda il Deafult Mode Network (DMN), una rete cerebrale che si attiva quando la persona si concentra sui propri stati interni (immagini, pensieri ed emozioni) e lascia la mente libera di vagare. In altre parole, è la struttura sottostante ai sogni ad occhi aperti e alle fantasticherie. Questi risultati non devono stupire: i vagabondaggi della mente non sono funzionali alla prestazione e interferiscono con il raggiungimento dell’obiettivo. I runner, perciò, diventano bravi a “spegnere” il DMN quando lo scopo è andare forte.

Il sedentario è invece meno bravo a “staccare la spina”; e se deve impegnarsi in una prestazione (non necessariamente atletica), rischia di portarsi dietro un mondo di ruminazioni, dubbi e paure.

Però, a pensarci bene, tanti allenatori quest’ultima verità l’avevano intuita da tempo. Anni fa uno di loro aveva appeso nello spogliatoio di un campo di atletica il seguente cartello: «Se volete andare forte in pista, ricordatevi di lasciare le seghe mentali in spogliatoio». Sostituite la locuzione “seghe mentali” con “DMN” e ammetterete che costui aveva già capito tutto anche senza uno scanner MRI.

 

Riferimenti bibliografici

Cotman C., Berchtold N. C. (2002), «Exercise: A behavioral intervention to enhance brain health and plasticity», Trends in Neurosciences, 25 (6), 295-301.

Raichlen D. A., Bharadwaj P. K., Fitzhugh M. C. et al. (2016), «Differences in resting state functional connectivity between young adult endurance athletes and healthy controls», Frontiers in Human Neuroscience, 10.

Pietro Trabucchi si occupa di motivazione, gestione dello stress e resilienza, in particolare applicata alla psicologia dello sport. Insegna all’Università di Verona.

Ma i runner ce l'hanno più sviluppato?

Questo articolo è di ed è presente nel numero 271 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui