Giorgio Nardone, Roberta Milanese

Le trasgressioni eretiche della psicoterapia breve strategica

Ispirata alla pragmatica della comunicazione di Watzlawick e integrata negli anni da apporti originali, la psicoterapia breve strategica continua a rappresentare, per molti versi, un modello eterodosso rispetto alle psicoterapie classiche.

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«Non c’è posto per i dogmi nella scienza» ammoniva il noto fisico Robert Oppenheimer di fronte alla disarmante evidenza di come la resistenza al cambiamento delle proprie visioni e teorie riguardi non solo l’uomo della strada, ma anche (e forse in particolar modo) chi si occupa di teorie scientifiche. E il mondo della psicoterapia non fa eccezione: nata poco più di cento anni fa, questa disciplina conta oggi più di 70 modelli, ognuno con le proprie tecniche e teorie di riferimento, ma che rimandano ancora, in larga parte, a presupposti epistemologici e teorici dogmatici, benché questi siano stati ampiamente disconfermati dagli avanzamenti della ricerca scientifica. 

Nata a partire dal lavoro clinico del grande ipnotista Milton Erickson e formalizzata per la prima volta come modello nel libro Change di Paul Watzla­wick, del 1974, la psicoterapia breve strategica si è da subito configurata come un approccio “eretico” rispetto all’ortodossia delle teorie e prassi classiche in campo psicoterapeutico. Come esposto nel testo L’arte del cambiamento di Nardone e Watzlawick (1990), lo psicoterapeuta strategico è “eretico” nel senso etimologico del termine, ossia come “colui che ha possibilità di scelta”, aspetto che si evidenzia a livello sia epistemologico che teorico-applicativo. Cioè trasgredire i dettami, ma non per una rivoluzione ideologica, bensì per un’evoluzione scientifica, come è avvenuto in numerose scienze nel momento in cui nuove teorie hanno rotto con le precedenti, per creare una nuova conoscenza e nuove tecniche applicative. 

eresiaNon esiste una definizione unica di normalità e patologia. L’approccio strategico alla terapia si richiama alla moderna filosofia della conoscenza costruttivista, secondo la quale non esiste un’unica realtà “vera”, ma tante realtà che variano a seconda dei punti di osservazione e degli strumenti utilizzati per conoscere. Come sosteneva Einstein, «Sono le teorie che determinano ciò che possiamo osservare». Su questa scia, la terapia strategica non utilizza alcuna teoria che descriva la “natura umana” e prescriva di conseguenza i concetti di “sanità” o “normalità” comportamentale e psichica in opposizione a quello di “patologia”, quale è il caso dei tradizionali modelli di psicoterapia. Il pensiero strategico si interessa piuttosto della funzionalità del comportamento umano in termini di percezione e relazione che ogni individuo vive con sé stesso, con gli altri e con il mondo (quello che è stato definito il nostro “sistema percettivo-reattivo”). L’obiettivo del terapeuta strategico è il buon funzionamento di queste 3 fondamentali relazioni interdipendenti, mai in termini assoluti, ma sempre in termini di realtà del tutto personali e diverse da individuo a individuo e da contesto a contesto. Il terapeuta strategico adotta un’ottica di pragmatismo operativo in cui l’unica forma di “verità” è costituita dall’efficacia del proprio intervento e non da una teoria aprioristica forte, da confermare a tutti i costi. Per questa ragione l’intervento viene sempre adattato alle caratteristiche del problema da risolvere o dell’obiettivo da raggiungere, in linea con la logica “strategica”, branca della logica matematica da cui deriva anche il nome del modello.

eresiaSi conosce un problema mediante la sua soluzione. «Il mondo non ha bisogno di dogmi, ma di libera ricerca» sosteneva Bertrand Russell. E difatti anche la metodologia di ricerca dell’approccio strategico differisce da quella degli altri orientamenti. Richiamandosi al concetto di “ricerca-azione” di Kurt Lewin, ci si avvale di una metodologia – la ricerca-intervento – che esce dall’asettico mondo del laboratorio, completamente inadatto allo studio di fenomeni complessi come quello del cambiamento, e che si configura piuttosto come una ricerca sul campo di tipo empirico. La ricerca-intervento si basa sul presupposto che per conoscere come funziona un sistema si deve intervenire su di esso cercando di cambiarlo. Sarà la risposta che il sistema darà a questo tentativo di cambiamento ciò che ci permetterà di conoscere in che modo il sistema funzionava. In altri termini: si conosce come un problema funziona, grazie alla sua soluzione. Negli ultimi trent’anni, tramite i progetti di ricerca-intervento condotti su decine di migliaia di pazienti presso il CTS di Arezzo, è stata possibile la messa a punto di protocolli specifici di terapia breve composti di tecniche innovative costruite ad hoc per sbloccare le particolari tipologie di persistenza proprie delle più importanti patologie psichiche e comportamentali (disturbi fobico-ossessivi, alimentari, depressivi, sessuali ecc.); molti di questi protocolli sono ormai internazionalmente riconosciuti come tecniche elettive per la cura di specifici disturbi (Nardone e Portelli, 2005; Nardone e Balbi, 2008). 

3ª eresiaPer risolvere un problema non è necessario conoscerne le cause. Forse il dogma più duro a morire in ambito psicoterapeutico è quello in base al quale per risolvere un problema o disturbo è indispensabile prima conoscerne a fondo le cause. Sarebbe proprio questa conoscenza, come ci insegna il costrutto di “insight” psicoanalitico, a permettere il cambiamento terapeutico. In realtà, la ricerca della causa come prerequisito per la soluzione di un problema non è ad oggi più sostenibile. In primo luogo, è stato ampiamente dimostrato come la nostra memoria non sia mai una fedele riproduzione degli eventi vissuti, bensì un processo “ricostruttivo” estremamente sensibile a fenomeni suggestivi. Basti pensare ai numerosi scandali legati ad approcci terapeutici, come quello delle “memorie represse”, che hanno portato persone in totale buonafede a “ricordare” abusi sofferti nell’infanzia che in realtà non erano mai avvenuti. Ma anche nel caso in cui sia possibile individuare la causa originaria di un disturbo, come per esempio di fronte a un trauma evidente (un incidente o un abuso), il fatto di conoscerla non aiuta minimamente la persona a risolvere il proprio disturbo. La teoria che per risolvere un problema se ne debbano conoscere le cause è smentita persino dalla pratica medica, ove più dell’80% delle malattie è affrontato con successo senza conoscerne esattamente la causa. 

Come l’approccio strategico ha ampiamente dimostrato, per risolvere un disturbo, piuttosto che cercare di intervenire sulle (presunte) cause (che comunque non potrebbero essere modificate), è indispensabile intervenire sulla modalità di persistenza di quel disturbo nel presente. Da tale prospettiva, il compito del terapeuta si focalizza non sull’analisi del “profondo” e appunto sulla ricerca delle cause, ma su come il problema funziona qui ed ora e su come si può cambiare la situazione di disagio di un soggetto, coppia o famiglia. Il passaggio è dai contenuti ai processi, da una causalità lineare a una circolare, da un “perché” a un “saper come fare”. 

Il terapeuta strategico, quindi, non utilizza nemmeno i costrutti diagnostici di tipo descrittivo, come quelli del DSM e dell’ICD, ma si avvale di una diagnosi di tipo operativo che, individuando i meccanismi alla base della persistenza di un disturbo nel presente, consente di orientare l’intervento terapeutico in maniera “chirurgica”, portando alla totale risoluzione del primo in tempi rapidi (Nardone e Watzlawick, 2005). 

4ª eresiaSe un problema persiste da tanto tempo. non è necessario un tempo altrettanto lungo per risolverlo. La logica conseguenza dell’eresia precedente è l’idea che se anche un problema causa molta sofferenza e persiste da lungo tempo, non sia indispensabile un altrettanto sofferto e prolungato percorso terapeutico per risolverlo. Dal momento che il terapeuta strategico si focalizza sull’interruzione della modalità di persistenza del problema nel qui ed ora della persona tramite specifiche strategie di intervento, il cambiamento può essere estremamente rapido anche su disturbi invalidanti che persistano da tanto tempo. Anche il grattacielo più alto, infatti, può essere rapidamente abbattuto se si conoscono i punti critici dove piazzare le cariche esplosive.

Il ricorso a logiche non ordinarie (come la logica del paradosso, della contraddizione e della credenza) e l’utilizzo di modalità di comunicazione persuasorie, aspetti che distinguono l’approccio strategico da tutti gli altri, permettono di aggirare la naturale resistenza al cambiamento della persona e di intervenire perciò in tempi rapidi sulla risoluzione di gran parte dei più diffusi problemi psicologici. Ovviamente, se il disturbo è stato invalidante per parecchio tempo, una volta sbloccata la sua sintomatologia sarà necessario guidare la persona a costruire un nuovo equilibrio nella sua percezione della realtà, in modo da consolidare il cambiamento avvenuto. Ma anche questo non richiederà un numero elevato di sedute, bensì di seguire la persona a distanza sempre maggiore (una volta al mese, una ogni due mesi ecc.) fino al completo raggiungimento del nuovo equilibrio.

5ª eresiaLa via maestra per il cambiamento sono le “esperienze emozionali correttive”, e non le cognizioni. «Niente è nell’intelletto che non sia passato prima dai sensi» diceva Tommaso d’Aquino. Eppure in ambito psicologico e terapeutico continua a dominare l’idea che le vie privilegiate per aiutare le persone a cambiare passino attraverso apprendimenti che devono avvenire anzitutto a livello cognitivo e razionale, relegando l’ambito delle percezioni e delle emozioni a un ruolo secondario. In realtà, se osserviamo come il cambiamento avviene in natura, riscontriamo un fattore comune: i cambiamenti più repentini, sia negativi che positivi, non avvengono sulla scia di uno sforzo cognitivo, ma come effetto di quella che Franz Alexander ha definito “esperienza emozionale correttiva”, ossia quel momento in cui l’individuo vive una reale esperienza di cambiamento delle proprie percezioni nei confronti della realtà, che lo porta a scoprire differenti modalità di reazione. È proprio in virtù di queste esperienze emozionali concrete che la persona, spesso intrappolata da tempo in un problema, sperimenta per la prima volta la capacità di cambiare. Il più delle volte il cambiamento avviene quindi in maniera incosciente e solo dopo se ne prende atto a livello cognitivo, aspetto, questo, suffragato anche dalle più recenti scoperte delle neuroscienze. Che ne siano consapevoli o meno, tutti gli approcci psicoterapeutici si avvalgono di esperienze emozionali correttive, sebbene nella maggior parte dei casi queste si producano “spontaneamente” nel corso del trattamento psicoterapeutico, cioè senza alcun tipo di intervento diretto del terapeuta. Nell’approccio strategico, al contrario, è proprio il terapeuta a creare quelli che Watzlawick ha definito “eventi causali pianificati”, ovverosia delle manovre (comunicative o prescrittive) che guidano le persone a vivere esperienze correttive che a lei appaiono “casuali”, mentre in real­­tà sono stratagemmi attentamente pianificati dal terapeuta per cambiare le percezioni del soggetto e, in virtù di ciò, le sue reazioni. Ciò avviene, il più delle volte, senza che il soggetto ne sia lucidamente cosciente, in modo tale da aggirare le sue naturali resistenze al cambiamento. Il terapeuta strategico, con netta precisione, mira a innescare una nuova dinamica tra il soggetto e la sua realtà, rompendo la rigidità e il reiterarsi dei copioni disfunzionali, divenuti meccanismi automatizzati. Questo in modo tale da far scoprire, invece che capire, attraverso la concreta esperienza di cambiamento vissuta, che la persona è in grado di superare il proprio disagio o disturbo. Solo dopo che il cambiamento è stato realizzato, vengono offerte tutte le spiegazioni a quel punto necessarie per rafforzare l’effetto e farlo diventare consapevole e replicabile (Nardone e Milanese, 2018).

6ª eresiaIl terapeuta strategico si assume la responsabilità di influenzare l’altro mediante il ricorso a una comunicazione persuasoria. Come apparirà ormai chiaro al lettore da quanto esposto fin qui, nell’approccio strategico il terapeuta si assume la responsabilità di influenzare direttamente il comportamento e le concezioni della persona che chiede aiuto. «Non si può non comunicare» recita il primo assioma della pragmatica della comunicazione umana, ed è quindi illusoria l’idea che un terapeuta possa “non influenzare” il suo interlocutore. Se è impossibile non influenzare l’altro tramite la nostra comunicazione (verbale e non verbale), diventa dovere del terapeuta saperla utilizzare
in modo consapevole, infrangendo così anche i dogmi della “autenticità” e della “spontaneità” professati da alcuni modelli tradizionali di psicoterapia. Il terapeuta strategico si avvale quindi di un’ampia gamma di strategie comunicative di tipo persuasorio che consentano di aggirare la naturale resistenza al cambiamento del paziente e di facilitare il processo di cura. Per “comunicazione persuasoria” intendiamo la capacità comunicativa di indurre l’altro a fidarsi e affidarsi. Infatti, etimologicamente “persuadere” significa “condurre soavemente a sé”, cioè fare in modo che l’altro si avvicini a noi e alle nostre posizioni senza forzarlo, anzi conducendolo dolcemente a scoprire differenti punti di vista sulla propria realtà. La persuasione strategica è pertanto assai differente dal concetto di “manipolazione”, di cui l’approccio strategico viene ancora oggi talvolta impropriamente tacciato da parte dei suoi detrattori. 

La persuasione per condurre al cambiamento delle convinzioni e dei comportamenti, infatti, evita la disputa fra gli opposti e i metodi di condizionamento, e usa il linguaggio in tutti i suoi aspetti per far sì che la persona “scopra” da sola una nuova visione della realtà, persuadendosi così «prima e meglio», come suggerito dal grande persuasore Blaise Pascal. Dovendo condurre dolcemente l’interlocutore a cambiare prospettiva e opinione, molto spesso le tecniche retoriche della persuasione sono così sofisticate da apparire come trucchi o stratagemmi suggestivi, prendendo la forma di manovre linguistiche indirette o di concatenazioni di espedienti retorici. Le tecniche di comunicazione persuasoria evolute, quali il dialogo strategico e l’ipnosi senza trance, attivano contemporaneamente l’emisfero destro e sinistro del cervello, inducendo risposte contemporanee del telencefalo, la mente “moderna”, e del paleoencefalo, la mente “antica”. Ed è proprio in virtù di tali proprietà che la comunicazione persuasoria produce i suoi effetti di cambiamento in modo talvolta sorprendente, riuscendo allo stesso tempo a toccare il cuore e cambiare gli occhi. 

7ª eresiaConiugare arte e scienza. La settima eresia trasgredisce la regola che vorrebbe l’arte e la scienza due realtà inconciliabili, laddove nel lavoro clinico, come nella ricerca, spesso il “guizzo creativo” permette di andare oltre i limiti della tecnica predefinita, così come, secondo il pensiero di Fleming, la «mente preparata» coglie e utilizza il caso per giungere a nuove scoperte. Lavorare costruendo e applicando strategie e stratagemmi che calzino alle psicopatologie in costante evoluzione, come pure elaborare forme comunicative suggestive e persuasorie che calzino alle caratteristiche del singolo individuo, richiede sia rigore tecnico che estro artistico, senza mai dimenticare, come ammoniva Gregory Bateson, che «il rigore da solo è la morte per asfissia e la creatività da sola è pura follia».

 

Riferimenti bibliografici

Nardone G., Balbi E. (2008), Solcare il mare all’insaputa del cielo, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Milanese R. (2018), Il cambiamento strategico, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Portelli C. (2005), Knowing through changing, Crown House Publishing, Carmarthen.

Nardone G., Watzlawick P. (1990), L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Watzlawick P. (2005), Brief Strategic Therapy, Jason Aronson, Lanham.

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Roberta Milanese, autrice di numerose pubblicazioni, è docente nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica di Arezzo e Firenze e in master di specializzazione in Italia e all’estero.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 271 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui