Pietro Trabucchi

L'alibi del dolore

A volte il dolore degli sportivi non ha una causa fisica, ma è un prodotto dell’ansia e serve a fornirci un alibi per tenerci lontano da eventi agonistici percepiti come “minacciosi” per la nostra autostima.

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«Poco importa se le persone non siano mai state trovate morte di labbra screpolate. Ogni piccolo dolore mi porta a uno studio medico dove ho bisogno di rassicurazione». Con questa battuta Woody Allen descrive lo sfuggente legame che intercorre tra l’ansia e il dolore. Chiunque pratichi esercizio fisico finisce infatti per confrontarsi con due tipi di dolore: quello causato in maniera diretta e inequivocabile dalla pratica sportiva e quello – ben più misterioso – che a volte compare durante la preparazione o nell’imminenza di una gara. Si tratta di due esperienze fondamentalmente diverse nei loro risvolti psicologici, per quanto simili dal punto di vista percettivo: il primo tipo viene definito “dolore atletico” con riferimento alle cause che l’originano. La voce “dolore atletico” non deve trarre in inganno. Non parliamo, infatti, di una nuova categoria di sensazioni. Si tratta sempre di dolore tout court, come quello di un martello che cade sul piede o di una mano che rimane chiusa dentro una porta: l’aggettivo “atletico” fa semplicemente riferimento alle cause che lo producono, ossia alla pratica sportiva. Per esempio, se corro a lungo o sollevo un peso cospicuo, posso provare dolore a causa della distruzione delle fibre muscolari operata dalle sollecitazioni dell’esercizio. Ma le maggiori responsabili della comparsa di dolore atletico negli sportivi sono le infiammazioni: guaine, tendini e articolazioni sono i giardini in cui l’attività fisica coltiva la sofferenza. 

Questo primo tipo di dolore non presenta grandi misteri. Le sue origini sono evidenti, e in più esso presenta il vantaggio di poter essere controllato; cioè, ci si può allenare a sentirlo di meno, ovverosia a innalzarne la soglia percettiva: esistono infatti tecniche per il controllo del dolore all’interno di molti programmi di allenamento mentale. 

L’altro tipo di dolore, quello che tende a comparire improvvisamente prima di ogni appuntamento sportivo importante, ha invece una natura più subdola. Facciamo un esempio: un certo atleta X, in prossimità di un impegno agonistico, comincia a sentire dolore al ginocchio. Di fronte a un simile evento possono darsi 3 casi:

1. il ginocchio dell’atleta in questione è veramente fuori uso, come gli accertamenti clinici dimostrano, e dunque il dolore ricade a pieno titolo nella categoria del “dolore atle­tico” di cui abbiamo appena parlato;

2. il ginocchio dell’atleta non evidenzia alcun segno clinico e il dolore, dunque, non sembra riconducibile ad alcuna causa organica;

3. il ginocchio ha, sì, qualcosa, ma questo qualcosa non “giustifica” così tanto dolore.

Nei casi 2 e 3 il dolore sembra assumere significati diversi da quello biologico di campanello d’allarme utile a segnalarci la presenza di un danno fisico in atto: è in queste circostanze che emerge il forte legame esistente tra dolore e ansia. Gli stati d’ansia modificano la percezione del dolore, portando a focalizzare l’attenzione in modo spasmodico su sensazioni ordinarie del corpo, che ne risultano ingigantite. Del resto, è nota da decenni agli studiosi l’esistenza di una forte correlazione tra livelli di ansia e intensità del dolore: i soggetti ansiosi, in altre parole, possiedono una soglia del dolore più bassa della media, cioè amplificano la sofferenza. 

L’ansia è quindi la causa dei malesseri inspiegabili – o delle improvvise riacutizzazioni di vecchie patologie – che compaiono talvolta in occasione degli impegni agonistici: disturbi che quasi sempre spariscono “miracolosamente” una volta che si è varcata la soglia dello striscione di partenza o dell’ingresso del campo di gioco. In queste circostanze, l’ansia utilizza la sensazione di dolore per tenere lontano il soggetto da qualcosa che lo spaventa: il confronto, la resa dei conti, la prospettiva di un fallimento. Il dolore fornisce al soggetto una sorta di “via d’uscita” onorevole di fronte all’impasse di una prestazione temuta: esso permette di avere un alibi in caso di prestazione inferiore alle aspettative. Oppure fornisce una scusa per evitare il mettersi in gioco, il doversi confrontare, il fare fatica.

A volte, nei giovani, il dolore fantasma funge da scappatoia di fronte a un’eccessiva pressione agonistica: quando le pretese di prestazione da parte del tecnico o dei genitori sono esagerate può succedere che il bambino sviluppi dei dolori che gli impediscono di allenarsi e/o di gareggiare. Non è che questi dolori siano “recitati”; cioè, non vuol dire che il bambino stia attuando una consapevole strategia di impostura e di raggiro. Il dolore esiste realmente: solo che si sviluppa in maniera indipendente dalle reali condizioni fisiche. In altre parole, la sofferenza esprime un disagio che ha un’origine più psicologica che brutalmente fisica. E al tempo stesso diventa anche una strategia per sopravvivere a un livello di richiesta percepito come insostenibile.

Un ragazzino che gareggiava nel ciclismo aveva sviluppato, per sottrarsi alle pretese e alle aspettative troppo elevate di allenatore e genitori, una forma dolorosa al piede che gli impediva di pedalare e di allenarsi in bici. Il caso aveva delle evidenti origini psicologiche, stante che diversi esami clinici non avevano accertato alcuna patologia organica a carico del piede. Non solo: stranamente il dolore scompariva del tutto nei giorni in cui il soggetto non doveva allenarsi; e, ancora più stranamente, non si faceva vivo se il ragazzo usciva a pedalare per puro divertimento con gli amici.

Ciò detto, non bisogna, tuttavia, nemmeno cadere nell’errore di ricondurre tutto a cause psicologiche. Di fronte a dolori non rapportabili a una causa oggettiva, il tecnico, o lo stesso atleta (se adulto), dovrebbe utilizzare il buon senso: un dolore inspiegabile può essere il segno di un disagio psicologico. Ma ho visto anche tanti casi dove il dolore non era spiegabile sulla base di cause mediche solo perché erano stati eseguiti accertamenti superficiali o errati, e non perché vi fosse sotto un problema di ansietà.

Pietro Trabucchi si occupa di motivazione, gestione dello stress e resilienza, in particolare applicata alla psicologia dello sport. Insegna all’Università di Verona. www.pietrotrabucchi.it

 

 

 

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