I media raccontano quotidianamente storie di violenze di genere. Storie che scuotono profondamente l’animo di chi ascolta e che suscitano rabbia, dolore, indignazione. Per contrastare il fenomeno appaiono sempre più utili alcuni trattamenti terapeutici.
Chi sono gli uomini violenti? Sono quelli che hanno problemi psichiatrici? Quelli che hanno un basso livello culturale? Gli stranieri? I carcerati? I tossicodipendenti? Spesso sono queste le categorie in cui collochiamo chi agisce violenza, categorie che consentono di distanziare il comportamento aggressivo all’esterno di noi, proiettandolo su altri. Se è il malato di mente, l’alcolista, o l’immigrato di turno ad essere violento, mi posso indignare, arrabbiare, puntare il dito, ma tutto sommato mi “salvo” e certamente non metto in discussione la mia presunta “normalità”.
Eppure non è così. Le azioni violente, fisiche o psicologiche, agite all’interno delle mura domestiche appartengono anche a chi ha un buon lavoro, sicuro e remunerato, a chi ha un elevato livello di istruzione, a chi ha con il vicinato rapporti gentili e cortesi, a chi non ha mai avuto problemi con la legge. Sono comportamenti che, in forme diverse, ritroviamo in noi stessi e nei nostri pazienti in tutte le fasce d’età, e che ci spingono ad interrogarci sulla violenza come dimensione trasversale all’essere umano.
CHE FARE CONTRO LA VIOLENZA?
Le azioni politico-sociali contro la violenza messe in campo nel corso degli ultimi decenni sono state prevalentemente orientate, da un lato, alla protezione della vittima, per esempio con l’istituzione di centri di accoglienza e tutela per la donna e, dall’altro lato, alla condanna del reo, con il progressivo inasprimento delle sanzioni penali.
Nel sistema giuridico italiano, d’altra parte, c’è stato un graduale cambiamento nella modalità di considerare l’azione violenta dell’uomo contro la donna, allo scopo di abbattere forme di supremazia e disparità tra i generi. L’uomo che, fino a qualche decennio fa, era giustificato nei suoi comportamenti aggressivi, come, per esempio, nel delitto d’onore, viene oggi nella maggior parte dei casi arrestato e processato.
Ma può questo bastare a ridurre e contrastare il fenomeno della violenza di genere? La pena può essere sufficiente a interrompere il circolo vizioso della violenza?
PERCORSI TERAPEUTICI AD HOC
Solo negli ultimi anni è emersa l’esigenza di poter strutturare percorsi terapeutici rivolti ad autori di comportamenti maltrattanti, nell’ottica non solo di punire e castigare, ma di stimolare e sostenere un cambiamento. È una strada ancora giovane, che testimonia però l’esigenza di operare trasformazioni durature e significative nel delicato equilibrio della relazione di coppia.
Dal 2009, anno dell’apertura a Firenze del primo Centro italiano rivolto al trattamento di autori di violenza familiare, si sono moltiplicate le esperienze di chi, nel pubblico, come nel privato sociale, ha posto in essere, o sta progettando, simili percorsi di cura.
CHE TIPO DI INTERVENTO?
Nella nostra pratica clinica, in carcere come nella libera professione, abbiamo incontrato molti uomini con storie di comportamenti violenti, sia in setting individuali che di gruppo.
La complessità di questi incontri ci ha spinto a intraprendere una formazione specifica, mettendoci in gioco sia come psicologi, nella ricerca di tecniche e competenze, sia come persone, nell’analisi dei nostri modelli e comportanti violenti. Durante il percorso abbiamo tratto ispirazione da alcuni esempi europei di trattamento (come, per esempio, il Centro ATV di Oslo fondato nel 1987), coniugando il sapere altrui di realtà già collaudate con ricerche e pratiche professionali di tipo più individuale.
Vogliamo qui introdurre alcune possibili direttrici di lavoro nel trattamento dell’autore di comportamenti violenti che, per esigenze di sintesi, abbiamo raggruppato in due macro-filoni.
LA PRIMA DIRETTRICE
In un primo livello di intervento il clinico si prefigge, da un lato, di stimolare nel paziente consapevolezza e responsabilità in merito al suo comportamento aggressivo e, dall’altro lato, di favorire il blocco immediato delle azioni violente. Sono noti, per chi lavora nel settore, alcuni meccanismi difensivi che i pazienti utilizzano per porre il comportamento violento al di fuori di sé, per esempio, negandolo («Non è vero niente»; «Mia moglie si è inventata tutto»), svalutandolo («Le ho solo dato una spinta»; «Le hanno dato una prognosi di pochi giorni, quindi vuol dire che non le ho fatto niente di grave»), oppure esternalizzandolo («È colpa sua»; «Lei lo sa che sono un tipo nervoso ma continua a provocare»).
A volte il paziente si deresponsabilizza rispetto al proprio comportamento violento descrivendolo come espressione di una furia cieca, come un qualcosa di non controllabile e quindi ineluttabile. Non sono semplici bugie ma strategie, a volte inconsapevoli, con cui il paziente si difende da stati di angoscia e dalla vergogna per quello che ha commesso.
Il terapeuta dovrà in modo graduale scalfire queste difese, con l’obiettivo di accompagnare l’uomo ad una presa di coscienza dei propri comportamenti aggressivi. Una delle tecniche possibili è quella della “moviola” in cui si invita il paziente a raccontare l’episodio di violenza, scomponendolo in sequenze dettagliate. Attraverso opportune domande – «Dove si trovava?»; «Cosa ha detto?»; «Cosa ha provato in quel mo- mento?» – il paziente ricostruisce la scena nei minimi particolari, mettendo in luce quegli antecedenti di pensiero e di emozione che hanno motivato il suo comportamento violento. In questo modo l’attenzione viene orientata dall’altro a sé, così da evidenziare la responsabilità personale nella scelta di quella determinata azione.
Nel caso, per esempio, di chi colpisce la propria ragazza per un “raptus di gelosia”, potrebbe emergere, attraverso un’attenta analisi dell’episodio, che il paziente ha scelto di non picchiarla davanti agli amici al bar, ma solo dopo, nell’ambiente domestico. Il paziente stesso riconoscerebbe che l’azione violenta non era fuori controllo, ma sotto effetto di un pensiero razionale che gli ha permesso di posticiparla: «La picchio ma non davanti agli altri».
In questa prima fase di lavoro è prioritario per il clinico l’invito a bloccare ogni forma di comportamento violento, in quanto estremamente pericoloso per la partner. Non essendo ancora in grado di attivare modalità relazionali funzionali, il paziente può apprendere alcune semplici tecniche di gestione dell’aggressività, di matrice comportamentale. Un esempio è il “time out”, tecnica con cui lo si “educa” a lasciare la stanza, dove è in atto il litigio, quando avverte che la sua attivazione fisiologica è al limite di rischio.
LA SECONDA DIRETTRICE
In un secondo livello di intervento il clinico accompagna il paziente a un’esplorazione del significato della violenza, nel suo funzionamento psichico. Il focus è duplice, da un lato l’esplorazione della storia di vita personale alla ricerca di possibili eventi traumatici, come l’esposizione a violenza intrafamiliare o l’aver subito comportamenti di maltrattamento e trascuratezza nell’infanzia, e, dall’altro lato, l’esplorazione dei modelli culturali di genere che possono avere un ruolo deformante nella visione del rapporto di coppia, come una concezione patriarcale della famiglia.
I pazienti che agiscono comportamenti violenti spesso ci hanno sorpreso per la scarsa consapevolezza della loro dimensione emotiva. La rabbia viene di solito riconosciuta, ma risulta molto più difficile nominare la tristezza, la paura, il dolore che spesso si intrecciano ad essa. A volte il limite si spiega nella storia individuale, dove esperienze traumatiche hanno “congelato” la possibilità di accedere a emozioni dolorose, altre volte si spiega nel riferimento culturale collettivo, dove alcuni sentimenti sono banditi nella visione maschile del mondo.
Questa fase del percorso si configura come un intervento psicoterapeutico in cui il paziente viene accompagnato ad una maggiore comprensione del suo funzionamento psichico globale. L’azione violenta viene letta in un sistema emotivo e cognitivo complesso, con un suo pre- ciso significato. Il soggetto, consapevole delle sue emozioni e bisogni relazionali, potrà sperimentare modalità interpersonali maggiormente funzionali e adattive.
CONCLUSIONI
Possiamo dire che i percorsi di protezione delle vittime e gli interventi afflittivi per il reo, pur indispensabili, non sono da soli sufficienti. Riteniamo, invece, indispensabile affiancare ad essi trattamenti terapeutici rivolti all’autore dei comportamenti aggressivi così da interrompere, là dove origina, il circuito della violenza. Naturalmente, questi interventi saranno potenziati nel loro effetto di cura da una società che continui a tutelare e promuovere, su più fronti, la parità di genere.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 245 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui