Giorgio Nardone

Imparare a sbagliare

Oggi la sfida più grande è avere l’umiltà di cogliere i nostri limiti e di accettare i nostri errori per capire come evitarli o ridurli in futuro.

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Ormai da decenni mi occupo di prestazioni elevate e ho avuto il piacere di confrontarmi con numerose sfide, rappresentate dal guidare atleti, artisti, manager, persino medici o psicologi, a superare i propri limiti per conseguire le rispettive performance superiori e talvolta davvero straordinarie.

Ciò che certamente si è presentato come fattore cruciale non è stato il talento individuale, persino quando questo appariva eclatante, nemmeno le grandi risorse strumentali ed economiche a disposizione e neanche la tenacia nella preparazione al raggiungimento dello scopo, bensì l’umiltà del soggetto e la sua disposizione a modificare, se necessario, i propri punti di vista e le proprie modalità di agire. In altri termini, l’attidudine allo sfidare sé stessi, ossia al mettere in crisi certezze consolidate e preconcetti divenuti credenze strutturate e, in virtù di ciò, essere pronti a fallire ripetutamente per poter giungere poi al risultato di eccellenza.

Imparare a sbagliare - Giorgio Nardone

Come numerose ricerche dimostrano, è tramite l’errore sistematico, utilizzato come strumento formativo, che si costruisce la capacità elevata di realizzare successi. Come ci insegnano grandi scienziati, artisti e atleti, è studiando come incorrere nell’errore che si previene il cadervi durante la prestazione, ma per applicarsi a tale processo formativo della performance si deve abbandonare l’impeto al voler dimostrare quanto prima le proprie eccelse virtù. Dispersione psicologica, quest’ultima, il più delle volte presente in chi si sente dotato di particolare talento, che lo rende poco disponibile all’umiltà dell’imparare dall’errore programmato. 

Purtroppo, questo atteggiamento è stato la via al fragoroso fallimento per tanti talentuosi.

Spesso la mancata umiltà è anche fomentata da coach, motivatori o formatori convinti che il pensare positivo, il caricare il soggetto di fiducia nelle sue risorse siano come una sorta di legge dell’attrazione, il principale veicolo delle prestazioni elevate. Di solito quest’ultima può funzionare per un successo episodico, ma non per quello che si ripete o si migliora costantemente, e inoltre non prepara ad assorbire gli insuccessi che si presentano inevitabilmente in un’attività performativa e a impiegarli come esperienze per migliorarsi, invece che per deprimersi.

L’umiltà nel sottoporsi alla eventualità di fallimenti, pertanto, consente anche di costruire la resilienza indispensabile per raggiungere e mantenere prestazioni elevate. Nelle antiche tradizioni marziali, non a caso, uno degli stratagemmi fondamentali per l’ottenimento di prove straordinarie, era già: «Se vuoi drizzare una cosa, impara prima come torcerla di più». Questo tipo di addestramento era orientato a far sviluppare la capacità di passare dall’insuccesso pianificato al successo come effetto secondario, facendo sì che il performer vincesse con umiltà i vari modi di essere sconfitto, per apprendere a vincere senza mai la tracotanza di dimostrare di essere invincibile.

In altre parole, se vuoi imparare a vincere, devi imparare a perdere. Lo sfidare sé stessi rappresenta, quindi, il mettersi nelle condizioni di difficoltà, esperendone la frustrazione per poi riuscire a superare tale stato e giungere al risultato anelato, non per gloria ricevuta ma per una fatica e un dolore attraversati e superati. Ancora nella tradizione zen, non a caso, si prescrive al Maestro di «punire il migliore», perché così migliorerà ancora di più, acquisendo illimitata umiltà, invece che cieco orgoglio.

Negli ultimi anni, poi, si assiste a un affidarsi sempre maggiore alle tecnologie e agli algoritmi anche nell’elevare le prestazioni personali: questo può essere un utile ausilio, ma se si delega all’apparecchiatura o al calcolo matematico la maggiore responsabilità per il raggiungimento di risultati elevati, l’esito più probabile sarà di nuovo un fragoroso fallimento: infatti, nessun algoritmo, dato che è programmato come sequenza standardizzata, può essere fornito dell’autocorrettività richiesta da sfide in seno alle quali per agguantare lo scopo è necessario un riadattamento costante della strategia e della sua applicazione. Così come nessuna tecnologia, per quanto avanzata, riesce ad attivare risposte in millesimi di secondo, come il cervello umano, e a plasmare queste sulle caratteristiche della situazione in modo talvolta completamente incoerente e incongruente; una cosa, questa, che nessuna automa può realizzare, in quanto costruito sulla base di una logica lineare.

Il fattore umano rimane quello davvero dominante per la realizzazione delle prestazioni elevate che permettono di vincere sfide impegnative. Anche questo, in fondo, è umiltà poiché ci riporta a fare i conti con i nostri limiti personali; i quali, peraltro, se vengono accettati e impiegati ad hoc divengono spesso i nostri maggiori pregi. È questa la sfida delle sfide.

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 277 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui