Umberto Galimberti

Il mondo della relazione

In occidente, è con il cristianesimo che il singolo si separa dalla comunità, infrangendo quella coappartenenza che valeva nella cultura e nella società dei greci. Un processo che oggi culmina nelle pseudo-relazioni online.

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All’alba della sua storia, nella culla della civiltà greca, l’Occidente ha concepito l’uomo come l’animale che ha il linguaggio («zôon lógon échon»), e siccome nessuno parla da solo, l’uomo è un animale sociale («zôon politikón»), al punto che Aristotele giunge a dire che si è uomini solo se si è membri di una comunità («pólis»). E a questo proposito scrive: «Per tale ragione è evidente che la comunità esiste per natura, e che è anteriore a ciascun individuo. Infatti, chi non è in grado di entrare nella comunità, o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, è: o bestia o dio» (Politica, 1295b).

Per questo, nonostante l’insistenza dei suoi discepoli, Socrate rifiuta di fuggire dopo la condanna inflittagli dalla città. A suo parere, non si dia vita morale al di fuori delle leggi della convivenza. Questa è la ragione per cui il pensiero greco non separa la morale dalla politica, persuaso com’è che non si dà autorealizzazione se non nella relazione comune.

Per questo gli eroi greci periscono tragicamente: perché l’eroe, come espressione di una soggettività senza legge, esprime in nuce l’antagonismo fra l’individuo e la comunità. E da questo conflitto l’individuo non esce mai vincitore. L’unico eroe vincente è Ulisse, dato che il suo eroismo consiste nel ribadire, con il ritorno a Itaca, le leggi della città, la sua ritrovata armonia. 

La divaricazione dell’individuo dalla comunità avviene con il cristianesimo, il quale, a partire da Agostino, fissa nell’anima (che, tra l’altro, non è un concetto né giudaico né cristiano) il sigillo della propria individualità. E siccome ci si salva individualmente e non comunitariamente, va da sé che le sorti dell’individuo si separino dalle sorti della comunità, a cui non si affida più il compito di realizzare il bene comune, ma unicamente quello di togliere gli impedimenti che si frappongono alla salvezza dell’anima individuale. 

Questa è la ragione per cui Jean-Jacques Rousseau scrive che «Il cristiano è un cattivo cittadino»; può essere, infatti, buono di fatto ma non di principio, perché, prosegue Rousseau: «Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale del cristianesimo che, lungi dall’affezionare i cuori dei cittadini allo Stato, li distacca come da tutte le altre cose terrene. Il cristianesimo è infatti una religione tutta spirituale, occupata unicamente dalle cose del cielo; la patria del cristiano non è di questo mondo. Il cristiano fa il suo dovere, è vero; ma lo fa con una profonda indifferenza riguardo al buono o cattivo esito dei suoi sforzi. Purché non abbia nulla a rimproverarsi, poco gli importa che tutto vada bene o male quaggiù. Per lui l’essenziale è andare in paradiso, e la rassegnazione non è che un mezzo in più per raggiungere questo scopo» (Del contratto sociale, libro IV, cap. VII).

Quando si parla di qualcosa, nel nostro caso delle relazioni, bisogna sempre specificare in quale contesto culturale avviene l’indagine. Nel nostro caso, il contesto culturale è il cristianesimo, che non è solo una religione, ma un fattore culturale o, se si preferisce, un inconscio collettivo comune sia ai credenti che ai non credenti. Entrambi pongono infatti i diritti dell’individuo davanti alle esigenze della società; in caso diverso, tutti pagherebbero le tasse e rispetterebbero le leggi dello Stato. Se ciò non avviene, dipende dalla cultura del primato dell’individuo, anche se poi ci si lamenta dell’esasperato individualismo ed egoismo che caratterizza il nostro modo di vivere e di comportarci.

Questo stato deficitario del mondo relazionale in Occidente ha subito un ulteriore peggioramento con l’avvento dell’informatica, dove ciascuno va alla ricerca della propria identità attraverso il riconoscimento misurato dal numero dei follower. L’identità, lo sappiamo, è sempre un fatto sociale. Nessuno nasce con un’identità. L’identità è data dal riconoscimento che ci proviene prima dai nostri genitori, poi dai nostri insegnanti e infine dal mondo sociale che frequentiamo, non ultimo dal mondo lavorativo, che esprime il suo riconoscimento o misconoscimento con avanzamenti in carriera oppure con il mobbing. Chi siamo ce lo dicono gli altri. La nostra identità è un dono degli altri. Dagli altri non possiamo prescindere. I greci l’avevano detto a chiare lettere, i cristiani l’hanno dimenticato. 

E ora senza sosta tutti cercano gli altri attraverso quei mezzi informatici dove, nonostante l’immensa quantità di voci diffuse, o forse proprio per questo, ciascuno parla solo con sé stesso. Infatti, alla base di chi parla e di chi ascolta non c’è, come nell’epoca pre-informatica, una diversa esperienza del mondo, giacché sempre più identico è il mondo a tutti fornito dai media, così come sempre più identiche sono le parole messe a disposizione per descriverlo.

Il risultato è una sorta di comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce con l’ascoltare le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque. In un certo senso, si può avanzare l’ipotesi che la diffusione dei mezzi di comunicazione, resa esponenziale dall’informatica, tenda ad abolire la necessità della comunicazione, poiché non si dà esigenza di comunicazione là dove è soppressa la differenza specifica tra le esperienze del mondo che sono alla base di ogni bisogno comunicativo.

Con il loro rincorrersi, infatti, le mille voci che riempiono l’etere aboliscono progressivamente le differenze che ancora sussistono fra gli uomini e, perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo, se non impossibile, parlare in prima persona. In questo modo i mezzi di comunicazione cessano invero di essere dei mezzi, perché nel loro insieme compongono quel mondo fuori del quale non è dato avere altra e diversa esperienza. E qui si torna a quel radicale solipsismo, tipico della nostra cultura, per cui, malgrado l’impressione di potersi relazionare con chiunque nel mondo, in realtà ci si relaziona solo con sé stessi, e per giunta a livelli impressionanti di superficialità.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 268 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui