Primo Gelati

Il lutto nascosto

Nelle sue prime fasi, la pandemia ci ha isolati persino nella morte. Alla solitudine del morente, confinato in ospedale o in rsa per non favorire il contagio, si è aggiunta la solitudine dei sopravvissuti, privati del rito del commiato indispensabile per avviare una sana elaborazione del lutto.

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Siamo stati abituati a pensare al lutto come a un percorso tutto sommato lineare, dolorosamente scandito dal succedersi di fasi, di durata variabile, che accompagnano verso un nuovo equilibrio in cui la perdita viene inserita dentro un’autonarrazione che restitui­sce significato al desiderio di vivere. Il più recente irrompere sulla scena teorica di altri modelli esplicativi ha ridefinito il concetto di elaborazione del lutto restituendo al dolente la possibilità di intervenire, almeno in parte, sul proprio individuale processo elaborativo. Non va però ignorato o dimenticato che in genere il processo di elaborazione del lutto avviene all’interno del grande contenitore della ritualità, collettiva, parentale e famigliare: un sofisticato insieme di riti, costruito nel corso dei millenni, che accompagnano i dolenti, li sostengono e li indirizzano, a volte “sostituendoli” nel cordoglio, quando lo shock della perdita è troppo forte. È l’assenza di questa ritualità (sostituita dal caos, dalla confusione organizzativa e dall’assoluta impossibilità, per i superstiti e per la loro collettività, di esercitare qualsivoglia attività in tale processo), sommata alle modalità traumatiche della separazione e della morte, ad aver reso nei primi mesi dell’anno il lutto da Covid-19 diverso dai lutti con i quali abitualmente ci confrontiamo e a renderlo molto più complicato e suscettibile di un viraggio verso la patologia.

MORIRE DURANTE LA QUARANTENA

Vediamo più nel dettaglio i modi e i tempi della morte (che, come si sa, influenzano moltissimo il successivo processo di elaborazione) da Covid-19, soprattutto appunto quelli avvenuti nel periodo della massima emergenza – tra febbraio e aprile 2020 –, caratterizzato dall’improvviso e contemporaneo emergere di migliaia di persone gravemente malate, bisognose di terapia intensiva e/o di rianimazione: un periodo contraddistinto da massima urgenza, scarsità di risorse e ardue scelte etiche, più o meno condivisibili.

In una situazione caratterizzata da ansia e incertezza in cui tutti vivevamo praticamente segregati in casa già da qualche settimana, continuamente bombardati da dati angoscianti e di difficile decifrazione sull’andamento dei contagi e dei decessi, con telefonate che annunciavano la morte di qualche amico o parente, con uno o due membri della famiglia che erano però costretti a uscire ogni giorno per andare a lavorare… in questo clima uno dei familiari manifesta sintomi tipici del Covid-19. Si chiama il medico di famiglia, che dice di stare tranquilli: sarà un semplice raffreddamento. Ma la febbre non passa, dopo qualche giorno inizia anche la tosse… con le prime difficoltà respiratorie, aggravate dall’ansia. Stavolta si preoccupa anche il medico di famiglia, che allerta il 112. Arriva l’ambulanza, gli operatori indossano tute a contenimento biologico. Il saturimetro ci dice che il paziente sta desaturando gravemente: è necessario il ricovero. C’è poco tempo per saluti e raccomandazioni. Sotto gli sguardi sgomenti dei familiari il paziente viene adagiato su una barella a contenimento biologico. Un ultimo sguardo spaventato e disperato, e via. L’ambulanza parte a sirene spiegate. Tutti, a cominciare dal paziente, sanno che quella può essere l’ultima volta che si sono visti. Se il paziente è anziano e ha già qualche altra patologia, ne sono praticamente certi: non ci saranno più sguardi, abbracci, carezze. Ai familiari affranti non resta altro che adattarsi al rispetto della quarantena, in attesa di notizie dall’ospedale (spesso molto lontano dalla residenza); senza avere contatti de visu con nessun altro.

Dall’ospedale chiamano quotidianamente, a volte una videochiamata. Speranza e disperazione si alternano per giorni o settimane, in una tempesta emotiva estenuante. In questa condizione il senso di impotenza è devastante. Se poi si erano implorati invano per giorni tampone e diagnosi, al senso di impotenza si aggiunge la rabbia: forse un intervento più precoce avrebbe fornito una speranza diversa. Purtroppo, invece, arriva dall’ospedale la tanto temuta telefonata che annuncia la morte. Una telefonata. Nessuno sguardo, nessun contatto.

Quello che si temeva si è avverato. Senza nemmeno l’ultimo saluto o il conforto di una carezza. Indipendentemente da come ci si attendeva il probabile o possibile evento, le reazioni sono drammatiche.

Nel momento della vita in cui più sono necessari il corpo dell’altro, il suo tocco e la sua carezza, il suo sguardo e la sua parola qui e ora, essi non ci sono, per chi sta morendo. E per chi sopravvive rimane soltanto l’eco straziante del pensiero. Dopo non ci sarà nemmeno il conforto della vestizione: il corpo nudo verrà infilato in un sacco di plastica e subito chiuso in una bara – il corpo è diventato un oggetto pericoloso e sgradevole, una sorta di rifiuto ospedaliero di cui liberarsi al più presto.

I DECESSI NELLE RSA

Fin qui ho descritto uno scenario tutt’altro che raro nei mesi scorsi, e nemmeno dei peggiori: ci sono stati anche centinaia e centinaia di decessi nelle RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali). In questo caso il trauma è stato, se possibile, ancora peggiore: di colpo ai parenti è stato vietato di far visita ai pazienti ricoverati in RSA. Le notizie filtravano con il contagocce. Moltissime persone non hanno mai più rivisto i parenti né da vivi né da morti e non hanno mai saputo come sono morti. Sino alla fine dello scorso aprile non si potevano neppure celebrare i funerali. Al loro posto si sono improvvisati rituali, per come si poteva. «I familiari dei defunti mi chiamano, io metto il cellulare sulle salme dei loro cari e preghiamo insieme», mi raccontava padre Aquilino Apassiti, un prete bergamasco. E don Davide Santus, 40 anni, parroco a Caprino Bergamasco: «Vado al cimitero per accogliere le salme di persone che sono morte totalmente sole e vengono portate al camposanto per la sepoltura quasi furtivamente».

Molti pazienti morivano a casa perché nelle rianimazioni non c’era posto. Il trattamento di ossigenoterapia era garantito, ma a domicilio non si possono effettuare i complessi monitoraggi che si svolgono in un reparto: probabilmente queste persone sarebbero morte anche in ospedale, ma a casa propria hanno avuto almeno il conforto di una vicinanza, seppur “controllata”, dei propri cari.

Ci sono stati paesi, in Lombardia e in Piemonte, che in poche settimane hanno perduto una generazione intera. E famiglie che in pochi giorni hanno subito significativi lutti plurimi. Da quanto si è detto, risulta chiaro che vi sono tutte le caratteristiche per sviluppare nei superstiti una patologia del lutto per molti aspetti sovrapponibile alla sintomatologia del disturbo da stress post-traumatico.

In ogni caso, che il decesso avvenisse a casa oppure in una RSA o in un ospedale, i consueti riti che da millenni accompagnano la perdita e il lutto sono stati totalmente cancellati. È stato cancellato il conforto che proviene dalla vicinanza fisica di parenti, amici, vicini. Dalla condivisione del dolore. Tutto è avvenuto al di fuori del nostro controllo: non diciamo la morte – che è di per sé quasi sempre incontrollabile – ma la stessa possibilità di guardarla e di prenderne concretamente atto.

È mancato il corpo della persona amata. Al posto del corpo ci sono state le sconvolgenti immagini dei camion militari stipati di bare, che portavano i corpi chissà dove.

PATOLOGIA DEL LUTTO

Ho insistito su questi elementi “estremi” – ma consueti a inizio pandemia in Italia – perché sono stati alla base di molte patologie del lutto: sono venuti infatti a mancare alcuni degli ingredienti irrinunciabili per considerare “dignitosa” una morte: l’accompagnamento durante gli ultimi giorni e la presenza dei cari nel momento del decesso. L’assenza di questo accompagnamento è stato ulteriormente aggravato dalle modalità della separazione per il ricovero e dalle operazioni immediatamente post-decesso.

Come abbiamo visto, infatti, i familiari e gli amici sono stati letteralmente espropriati della possibilità non solo di salutare il congiunto quando era ancora in vita, ma perfino di accomiatarsi dignitosamente da lui dopo la sua morte. Ricapitoliamo allora i fattori di rischio per lo sviluppo di una complicazione e/o patologia del lutto:

  • rapido decadimento del quadro clinico, a casa;
  • separazione traumatica per ricovero;
  • nessun contatto visivo, spesso nemmeno verbale, per alcuni giorni;
  • comunicazione telefonica necessariamente impersonale;
  • perdite plurime;
  • assenza di qualunque tipo di ritualità sociale;
  • completo isolamento sociale per alcune settimane, dato che i superstiti sono in quarantena.

A tali fattori bisogna poi aggiungere la rabbia, che è una componente usuale del lutto, di norma indirizzata verso il defunto, oppure verso i curanti, oppure contro sé stessi, e che è un modo irrazionale per dare un significato alla morte, per eccellenza un evento senza senso. In questi casi, invece, la rabbia è stata indirizzata verso il sistema (sanitario, politico), incapace di prevedere, prevenire e curare; un sistema che ha agito in ritardo o non ha agito del tutto.

A questi già rilevanti fattori di rischio di ordine generale si sommano quelli personali, per esempio sensi di colpa di varia natura, magari per essere stati la fonte involontaria del contagio famigliare. Il dolore, spesso insopportabile, per non essere potuti stare vicini allo scomparso. L’angosciosa rappresentazione, necessariamente fantasticata, delle ultime ore del congiunto.

Gli psicologi hanno già cominciato nella prima fase di ripresa, e dovranno continuare, a fare i conti con i vissuti e le rappresentazioni di chi non ha potuto dare e ricevere conforto nell’immediatezza della morte; con lo strazio di chi non ha potuto salutare chi stava morendo, e di non aver potuto esprimere, magari con una sola parola o uno sguardo, l’amore, l’affetto di una vita: ecco il terribile rimpianto di coloro i cui familiari sono morti lontani e in solitudine.

LA NECESSITÀ DI RITI DI CONGEDO

Va poi fatta una considerazione assai importante sul piano psicologico: e cioè che in assenza del rito vi è una grande difficoltà a iniziare il processo elaborativo del lutto. È infatti il rito – costituito da numerosi elementi individuali, famigliari, sociali che si snodano nel tempo, anche tanti anni dopo la morte – a sancire che il trapasso ha avuto luogo; è il rito a imprimere il ritmo temporale dell’elaborazione. Senza riti, tutto resta sospeso in una dimensione di incredula e devastante paralisi emotiva. Solamente quando il rito sarà compiuto, e le sue fasi, che si prolungano nel tempo, saranno in atto, potrà iniziare il classico percorso autoterapeutico del lutto, che è un percorso di consapevolezza, di senso e di ricostruzione: quello che è stato e non potrà più essere; quello che avrebbe potuto essere; quello che potrà comunque essere.

Con il Coronavirus – e speriamo di poter parlare definitivamente al passato – non siamo stati di fronte a lutti “normali”, in cui il percorso, pur tra progressi e regressi, è abbastanza lineare, ma ci siamo dovuti confrontare con situazioni che sono state aggravate da tutti gli elementi passati in rassegna. L’intervento psicoterapeutico o psichiatrico sul paziente che oggi chiede consulenza deve tener conto di queste complicazioni, assimilabili appunto a quelle del disturbo da stress post-traumatico, e impostare il trattamento di conseguenza.

Poi, ma in realtà prima di tutti, ci sono i bambini. Per loro, sballottati dentro una realtà che non capivano; che hanno visto scomparire persone con le quali fino al giorno prima ridevano e giocavano, e che spesso erano magari le principali figure di accudimento (pensiamo ai nonni), per loro oggi è ancora più importante ritrovare subito una dimensione riconoscibile. Anche per il bambino la partecipazione ai rituali del lutto è un’esperienza estremamente positiva, poiché gli consente di sentirsi parte attiva nel commiato, sostenuto dagli altri familiari. La narrazione, verbale, grafica o iconica, può diventare per il bambino un’importante forma di ritualità.

Chi muore si porta via una parte essenziale di noi: l’immagine, la rappresentazione, la narrazione che si è fatto di noi. Una narrazione unica, esclusiva e insostituibile, che è il risultato costruito in anni di relazione dialettica. Quando per esempio è uno dei partner a morire, quella conversazione anche intimamente unica ed esclusiva si interrompe e non possiamo più rispecchiarci in essa: di qui l’angosciante sensazione di perdita di significato che sperimentano quasi tutte le persone in lutto. La cosiddetta “elaborazione del lutto” consiste proprio nella necessità di completare quella narrazione dentro di sé. Se la separazione è stata però repentina e traumatica, come quasi sempre nelle prime morti per Coronavirus, il processo di elaborazione ne risulta molto complicato e potrà trarre grande giovamento da un accompagnamento di tipo professionale.

Anche se, almeno per ora, infinitamente minore per numero di vittime rispetto ad altre pandemie che hanno flagellato l’umanità nel corso della sua storia, il Covid-19, a causa della rilevanza planetaria, ha radicalmente cambiato la nostra vita e le nostre abitudini, rivelandoci quanto siamo vulnerabili e destabilizzabili, e lasciando nella collettività un senso di sospesa incertezza nella quale ancora versiamo in questi mesi, assai simile a un lutto collettivo. Credo che per poter chiudere questo cerchio sarà necessaria una rituale manifestazione collettiva di consapevolezza… non saprei come né in quale forma – la sociologia potrà molto aiutare –, ma mi viene in mente il lento passaggio del treno del Milite Ignoto, che quasi cent’anni fa (ottobre 1921) da Aquileia raggiunse Roma in cinque giorni, sempre circondato da ali di folla che silenziosa e commossa assisteva al suo passaggio. La cerimonia, che era un rituale completamente inventato per l’occasione (dalla designazione della salma fino alla sua tumulazione), servì a far identificare in quella bara anonima tutti gli italiani, trasformando il dolore per le immense perdite subite in un senso di appartenenza.

 

Ho condiviso, in modo del tutto indipendente, la suggestione del treno del Milite Ignoto con la Dott.ssa Marina Sozzi, curatrice del bel blog "Si può dire morte".

Primo Gelati, psicologo, specializzato in psico-oncologia e in terapia familiare, è docente allo EIST (European Institute of Systemic-relational Therapies) e alla SIMPA (Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui