Anna Oliverio Ferraris

Gruppo che salva e gruppo che uccide

L’importanza del gruppo, per un adolescente, vale sia nel caso di aggregazioni positive e formative sia, purtroppo, nel caso di affiliazioni a collettivi bulli e criminali.

Gruppo-che-salva.jpg

Sappiamo, perché tutti quanti siamo stati adolescenti, quanta importanza abbia il gruppo dei pari per i ragazzi. Lo ha spiegato bene lo psicologo Erik Erikson, che a lungo si è occupato di adolescenza. In quell’età intermedia tra l’infanzia e la prima giovinezza, l’immagine di sé va incontro a una profonda trasformazione dovuta ai cambiamenti fisici, psicologici e sociali che corpo e psiche si trovano a fronteggiare. Bisogna accettare un nuovo aspetto, imparare a gestire gli impulsi sessuali, rendersi autonomi dai genitori, trovare una collocazione nel mondo che sia più adeguata di quella infantile. In questa fase il “Noi” di gruppo rappresenta un sostegno all’Io individuale, il che spiega perché, in quegli anni, il gruppo dei pari acquisti un’importanza crescente, spesso superiore a quella che ha la famiglia, nella vita dei ragazzi. 

Nella sua evoluzione positiva ed emancipante, il gruppo dei pari aiuta a crescere, a maturare, a diventare grandi. L’appartenenza a un gruppo non soltanto fornisce amicizia e opportunità per divertirsi, ma anche status sociale. Il gruppo crea coesione, alleanze, condivisione, partecipazione, garantisce protezione e riconoscimenti. Al suo interno circolano emozioni e sentimenti. Ci si conosce e riconosce, ci si comprende e ci si sostiene. Con l’appoggio degli amici si prendono iniziative che da soli non si prenderebbero. In un mio recente romanzo (Tutti per uno), ispiratosi a fatti realmente accaduti, racconto come il gruppo possa anche avere, in determinante circostanze, un valore salvifico e un risvolto terapeutico. (CONTINUA...)

Gruppo che salva e gruppo che uccide - Anna Oliverio Ferraris

Ma a fronte di gruppi emancipanti e costruttivi, che aiutano i giovani a crescere e a umanizzarsi, ci sono gruppi distruttivi i quali invece di favorire l’evoluzione dei loro membri ne favoriscono l’involuzione psicologica ed etica. È quanto si è verificato, per esempio, in una cittadina pugliese, dove un gruppo formato da quattordici minorenni e due maggiorenni ha perseguitato e terrorizzato per molti mesi un sessantenne con problemi psichici, fino a costringerlo a non uscire più dalla sua abitazione, dove l’uomo è morto di paura e di stenti. Quel gruppo scorrazzava nella cittadina divertendosi a inseguire, picchiare e terrorizzare un uomo abbandonato dalla comunità e dai servizi sociali. In linea con i tempi, c’era poi sempre qualcuno che filmava le scene di violenza e le inviava agli amici per gloriarsi delle “prodezze” che era riuscito a compiere.

Com’è possibile questo tipo di degenerazione in ragazzi che hanno una famiglia e frequentano la scuola? La risposta non è né semplice né immediata perché i fattori in gioco sono vari. Un primo aspetto da tenere presente è che esseri umani non si nasce ma si diventa. Al di là delle caratteristiche individuali, che pure hanno un peso rilevante nel regolare le relazioni umane, l’ambiente in cui si cresce, i modelli di riferimento, gli insegnamenti e i valori che la famiglia, la scuola e la comunità trasmettono incidono fortemente nel creare attitudini, promuovere opinioni e comportamenti. Ce lo insegna la storia continuamente, ma ce lo insegna anche la psicologia. 

Illuminante fu, nel 1961, perché primo nel suo genere, l’esperimento dello psicologo sociale Muzafer Sherif che, trasformando il contesto di vita, riuscì a far collaborare due gruppi di teenager che in un campeggio si detestavano e si facevano continuamente la guerra con una serie di provocazioni e di ostilità senza fine. Sherif creò ad arte situazioni in cui, per raggiungere un obiettivo che interessasse tutti quanti, i ragazzi erano costretti a unire le forze. Obbligati a coordinarsi e a cooperare in un lavoro di squadra, man mano smisero di insultarsi e di provocarsi a vicenda come avevano fatto siano ad allora. Dopo Sharif altri psicologi riuscirono, modificando il contesto sociale e gli obiettivi, a ottenere comportamenti opposti. D’altro canto, quando in una scuola ai bulli vengono attribuiti dei compiti di responsabilità o addirittura si affidano loro dei compiti di tutoraggio nei confronti dei compagni presi di mira, si riesce spesso, in una sorta di psicodramma, a capovolgere il tipo di relazioni.

Un punto importante della questione è dunque quello di creare un contesto di vita in cui i ragazzi possano trovare dei riferimenti e delle risorse per impegnarsi in attività e relazioni costruttive. Il deserto culturale e la jungla sociale non consentono questo tipo di coinvolgimento, favoriscono bensì l’emergere disordinato e pericoloso degli impulsi che, non incanalati in linguaggio, sentimenti, valori e obiettivi concreti, finiscono per sfociare in violenza. Una violenza pronta a riversarsi su qualsiasi obiettivo. È quello a cui spesso si assiste negli stadi, dove però la forza pubblica interviene a porre un limite.

Nel caso del gruppo che ha torturato l’anziano fino a provocarne la morte, invece, nessuno è intervenuto né a proteggere il malcapitato né a porre un limite alle violenze del gruppo che, pure, avvenivano non solo in casa dell’anziano, ma anche in strada. Per quel branco la violenza era diventata il passatempo preferito, un modo per socializzare, per eccitarsi a vicenda e anche per mostrare ai propri compari che si era pronti a infierire nei modi più diversi e abominevoli, in un meccanismo perverso secondo cui maggiore è la crudeltà che si riesce a perpetrare, maggiore è il merito che si acquisisce tra gli amici. 

L’intervento rieducativo, in un caso come questo, non può riguardare soltanto i singoli individui, ossia i quattordici minorenni presi uno per uno e in gruppo, ma anche la comunità nelle sue diverse componenti. Genitori, insegnanti, amministratori locali, servizi sociali e cittadini, tutti devono in primo luogo interrogarsi sui motivi all’origine dell’inselvatichimento di un gruppo di adolescenti che pure hanno una famiglia e vanno a scuola, e successivamente pensare ai modi per ricostruire un tessuto sociale dotato degli anticorpi necessari per contrastare questa grave forma di degenerazione sociale.

Anna Oliverio Ferraris, docente universitario, scrittrice, psicoterapeuta, collabora con questa rivista dal 1975. Scrive sulle riviste Mind, UPPA, Conflitti e tiene la rubrica «Gli anni della crescita» sulle sue pagine Facebook. Pubblicazioni recenti: Chi manipola la tua mente? (Giunti); Più forti delle avversità (B&B); Sopravvivere con un adolescente in casa (BUR); Tutti per uno (Salani), un romanzo che descrive la formazione di un gruppo di adolescenti costruttivo e resiliente. 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui