Diego Ingrassia

Gestione delle emozioni: la felicità

Niente di più sbagliato del pensare che la felicità sia un’emozione ottusa, priva di nuance e chiaroscuri. Come ci ha dimostrato Paul Ekman.

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Nel penultimo numero della rubrica abbiamo affrontato il tema della gestione della tristezza: sarebbe facile liquidare la felicità, banalmente, come il suo contrario, in realtà studi recenti ci inducono a gettare uno sguardo molto più ampio su questa emozione. In particolare, alcuni ricercatori della Ohio State University hanno recentemente pubblicato uno studio su IEEE Transactions on Affective Computing basato sull’analisi di 7.2 milioni di immagini, nell’ambito del quale hanno scoperto che è proprio la felicità ad avere più espressioni facciali rispetto alle altre emozioni: per la precisione, 17. Questa ricerca pare smentire completamente un famoso incipit di un gigante della letteratura come Tolstoj, che in apertura di Anna Karenina scriveva: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». A noi non interessa smentire il grande scrittore, che attraverso quelle parole intendeva probabilmente raccontare altro; l’esempio tuttavia ci può essere utile per iniziare a guardare con occhi diversi un’emozione che per via dell’alone sdolcinato che la circonda viene spesso banalizzata. 

Un accenno a questo rischio lo abbiamo fatto nell’articolo dedicato alla gestione della tristezza, parlando del “manager della felicità”. Una figura professionale creata non a caso negli Stati Uniti, un Paese che ha inserito nel suo atto fondativo – la dichiarazione d’Indipendenza del 1776 – il perseguimento della felicità come un diritto inalienabile di ogni essere umano. Il rischio potenziale di tali operazioni, a un primo sguardo soltanto positive, è l’illusione di poter rendere permanente uno stato che per sua natura è transitorio, esponendoci paradossalmente, in tal modo, a una possibile infelicità.

Tutte le nostre emozioni fanno parte di una complessa rete di pensieri e sentimenti fondamentali per la nostra salute emotiva; l’equilibrio dinamico fra tutte queste componenti è l’elemento più importante per il nostro benessere. La felicità, come le altre emozioni, richiede consapevolezza, e quanto sia difficile raggiungere tale condizione ce lo confermano purtroppo i dati relativi all’assunzione di ansiolitici, alcol e sostanze psicotrope.

La felicità è un’emozione potente, un catalizzatore che alimenta e rinsalda le relazioni umane, svolgendo un ruolo importante nel determinare coesione sociale. La sua funzione adattiva è infatti intrinsecamente comunicativa, nell’essenza del suo messaggio: «Non sono una minaccia per te». Messaggio di cui oggi cogliamo, probabilmente, solo l’aspetto soft, ma che nel corso della nostra evoluzione ha assunto ben altri significati. 

Il trigger, cioè il punto attivatore, della felicità è una condizione di piacere e benessere che può derivare da percezioni soggettive assai diverse. Paul Ekman ne descrive 16 tipologie appartenenti alla “famiglia della felicità”: le prime categorie sono legate ai piaceri sensoriali, poi vi è l’Eccitazione, una tipologia di felicità che proviamo in risposta alle novità o alle sfide. Il Sollievo, quando fonti di fastidio vengono rimosse. La Meraviglia, che proviamo di fronte a qualcosa di inaspettato, e l’Estasi legata a una specie di stato di rapimento mistico. La Fierezza, che descrive l’orgoglio di sé, e Naches che si riferisce invece all’orgoglio di un genitore nei confronti di un figlio. Vi sono poi stati di felicità molto particolari, come il piacere per una disgrazia altrui (Schadenfreude) e, all’opposto, l’Elevazione, esperita a seguito di azioni umanitarie e compassionevoli. Infine, la Gratitudine, per un’azione altruistica da parte di qualcuno nei nostri confronti, e la Gioia, che è l’emozione collegata all’essere felici nel senso letterale del termine. 

Queste diverse sfumature della felicità si manifestano con il sorriso, ragion per cui è possibile migliorare il livello di consapevolezza, rispetto a questa ampia gamma espressiva, a partire dalle dinamiche di relazione che proviamo ogni giorno. Partiremo proprio da questa osservazione per fare alcune delle riflessioni più importanti sulla gestione di un’emozione, dunque, tutt’altro che banale. 

Dobbiamo agli studi di Duchenne de Boulogne l’aver capito, in termini rigorosamente anatomici, cosa si intende per «sorriso relazionale», da allora definito come «sorriso di Duchenne». Riportiamo quanto questo neurologo francese scriveva in un suo libro nel 1862: «L’emozione di felicità sincera viene espressa dal volto tramite la contrazione combinata dei muscoli “zygomaticus major” e “orbicularis oculi”: il primo obbedisce alla volontà, il secondo è attivato solo dalle emozioni dolci dell’anima». È per questo che il sorriso relazionale coinvolge soltanto l’area della bocca.

Questa descrizione potrebbe far pensare a distinzioni che interessano esclusivamente agli specialisti, ma in realtà diversi esperimenti hanno dimostrato più volte come persone prive di alcuna preparazione in materia, di fronte a fotografie che presentavano le due situazioni, sceglievano sempre come sorriso più sincero quello con l’attivazione del muscolo orbicolare. Non tutte le volte che sorridiamo siamo anche pienamente felici; si è visto che possiamo sorridere sulla spinta di motivazioni e intenzioni assai diverse. Per questa ragione non ha senso parlare di “sorriso finto” e di “sorriso vero”. Può essere invece molto interessante aggiungere alla nostra capacità intuitiva di cogliere il significato di una certa espressione, la competenza di poterlo verificare in modo più rigoroso e preciso attraverso l’analisi dei 5 diversi canali di comunicazione di cui abbiamo parlato nei precedenti articoli della presente rubrica. 

Ci resta solo un’ultima riflessione sulla gestione di tale emozione, prima di concludere. Abbiamo più volte ricordato quanto sia importante imparare a conoscere sempre meglio le proprie emozioni e come questo impegno migliori nel tempo la nostra consapevolezza emotiva. Non esiste luogo, più dell’ambiente di lavoro, nel quale siamo chiamati a sostenere relazioni cordiali che evidentemente non sempre sono accompagnate da una piena felicità. Coerenti con tale idea dobbiamo sempre avere l’attenzione e la disponibilità per chiederci: qual è il mio stato d’animo in questo momento? Qual è la mia intenzione? E quale tipo di messaggio sto inviando, tramite il mio sorriso, a chi mi sta di fronte?

Diego Ingrassia, CEO di I&G Management, si è specializzato in Executive Coaching e si occupa di Assessment e Formazione comportamentale e manageriale presso importanti realtà multinazionali.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 277 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui