Filippo Di Pirro

Esperienza della solitudine

La quarantena ha costretto molte categorie di persone a rimanere a lungo da sole in casa. Facendo venire a galla la differenza tra essere oggettivamente soli e sentirsi soli.

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La solitudine è solo all’apparenza un concetto semplice, che possiamo definire come una condizione indotta dalla mancanza di compagnia o, più in generale, dalla privazione della socialità. Senz’altro è un sentimento che nel corso dell’esistenza ciascuno di noi può sperimentare. Quando si pensa alla solitudine ci si riferisce istintivamente alla sua dimensione oggettiva, all’essere soli, cioè alla reale assenza di legami significativi. Così, per esempio, definiamo sola una persona che non ha compagnie, che non frequenta nessuno. È questa una solitudine oggettiva. Esiste però anche una solitudine soggettiva, che è il sentirsi soli. Si è soggettivamente soli quando, pur stando in mezzo agli altri (familiari, partner, amici, colleghi di lavoro), si avverte un sentimento pervasivo di distacco e disagio a livello relazionale.

IL DISTANZIAMENTO

Le misure restrittive e di distanziamento sociale adottate per contenere il contagio da Coronavirus possono portare ad essere soli, perché viene meno un adeguato rapporto col mondo esterno, ma anche a sentirsi soli, ossia a provare uno stato d’animo che trae origine dal proprio mondo interno, dal rapporto con sé stessi. L’esperienza della solitudine non è né definitiva né essenziale e, specie quando è imposta e correlata a fattori contingenti esterni, come nel caso della quarantena, può essere vissuta con sofferenza. Ed è proprio la solitudine una delle condizioni che più hanno caratterizzato la prima fase dell’emergenza e che è destinata a caratterizzare anche le fasi di graduale ritorno alla “normalità” (la quale comunque sarà una “nuova normalità”), giacché ancora si insisterà sulle misure di distanziamento sociale.

Sembra paradossale come, in un momento di difficoltà, in cui normalmente si cerca rifugio nella vicinanza (anche fisica) con le persone più care, ci venga chiesto di starne distanti; ciò fa avvertire di più la solitudine. Emerge allora il bisogno di cercare un contatto con gli altri più significativi, di sentirli vicini anche se non li possiamo incontrare. Quale possibile risposta a questo bisogno negli scorsi mesi abbiamo assistito a un massiccio ricorso ai social media, i quali, ancorché in maniera virtuale, consentono un certo livello di socializzazione, pure attraverso iniziative a più ampio coinvolgimento, tese ad affermare il senso di appartenenza e di solidarietà. Ma non sempre ciò basta a sopportare la solitudine. Sebbene si siano spesso evidenziati gli aspetti negativi dei social media rispetto a quello che è il valore della vita sociale reale, è vero che al mutare della situazione contingente il loro impiego non rappresenta necessariamente un rifiuto dell’incontro reale, ma una sua utile sostituzione provvisoria, purché se ne faccia un uso consapevole, altrimenti si corre il rischio di subordinare il reale al virtuale e di condizionare l’autenticità della persona e dei suoi legami.

Di solito associamo alla solitudine una sensazione di sofferenza, ma in essa coesiste una dimensione evolutiva, quella che non si subisce, quella che si accoglie, quella di chi accetta e rivela le proprie identità e integrità, e coglie l’opportunità di vivere un certo periodo della propria vita concentrato su sé stesso, familiarizzando con le proprie contraddizioni interiori, sfidando la paura di restare da solo e il tabù dell’isolamento sociale. È questa l’occasione di imparare a riconoscere e valorizzare la propria individualità e unicità senza condizionamenti o conformismi.

Tale dimensione della solitudine può rappresentare un momento catartico di crescita e trasformazione che permette di raggiungere un’autoconsapevolezza in grado di attivare nuovi meccanismi relazionali e di realizzare, selettivamente, una vita personale e sociale finalmente appagante.

SOLITUDINE E PANDEMIA

Pertanto, la solitudine è un sentimento che ci appartiene, che può trovare la sua manifestazione in ogni aspetto della nostra vita. La storia ci insegna che proprio le grandi crisi, come le epidemie, si associano a un aumento del disagio individuale caratterizzato anche dalla solitudine. Sebbene la parola “pandemia” richiami grandi numeri che ci fanno perdere di vista la dimensione del singolo, esiste pur sempre l’individuo nella sua unicità, pure nel vivere e nel fronteggiare una grande emergenza.

Ancora oggi per prima cosa si pensa (giustamente) alla salute fisica, a gestire i contagi, a non sovraccaricare la sanità pubblica, ma i tempi sono maturi per considerare anche gli effetti psicologici, che cominciano a manifestarsi perfino nelle loro modalità più estreme. Manzoni nei Promessi sposi, a proposito delle peste di Milano del 1630, scriveva: «Ma la peste non fu solo un male di per sé, non seminò solo sofferenza e morte: scompigliò la vita mentale della gente». Difatti, il sentimento più immediato in questa pandemia è stato – e continua ad essere – la paura di venire contagiati, di ammalarsi, di morire. Tale paura la si avverte maggiormente nella solitudine, quando è vissuta come un sentimento cupo e desolato che fa da cornice a pensieri, ragionamenti e incertezze spesso senza risposte.

Pensiamo così alla solitudine nelle trincee di questa “guerra”. Sono stati, sono soli i medici, gli infermieri, con i loro dispositivi di protezione che a malapena lasciano intravedere lo sguardo, ma sono soli soprattutto i pazienti, poiché intubati o con una maschera che li aiuta a respirare ma non consente loro di parlare, di condividere la sofferenza, lo smarrimento, le angosce e appunto la solitudine. Si sono sentiti, si sentono soli i familiari che non possono partecipare al dolore del proprio caro ammalato, soprattutto quando si tratta di persone anziane o fragili che maggiormente dipendono dagli altri. Gli operatori sanitari vivono una continua fase di allarme e mobilitazione, lottano contro il virus e la sua incontrollabile evoluzione. All’onere delle responsabilità professionali e del sovraccarico di lavoro (importanti fattori di stress), decisamente aumentati in condizioni di emergenza, si è aggiunto un serio rischio di contagio (come purtroppo testimonia il pesante numero di personale ammalato o deceduto). Spesso questo personale ha esperito la solitudine, da intendersi non come luogo di introspezione, perché non c’è tempo per fermarsi e pensare, ma come sofferenza, perdita, smarrimento di sé, paura. E la solitudine, in tali casi, espone maggiormente al rischio di burnout.

Questa pandemia ha messo in evidenza anche la realtà delle case di riposo e delle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), ove il contagio ha provocato un numero considerevole di vittime tra gli anziani, mettendo in evidenza la loro fragilità, ma appunto anche la loro solitudine. Per contenere il contagio si è scelto di limitare al massimo le occasioni di contatto con l’esterno, impedendo l’accesso dei familiari e dei volontari. E ciò ha creato per gli ospiti e le loro famiglie una situazione di grave carenza relazionale e affettiva.

Abbiamo tutti potuto constatare, non senza commozione, che c’è poi anche la solitudine di chi muore. Ora, è vero che un evento conclusivo della vita di un uomo è quasi sempre un qualcosa che si realizza in solitudine; né a ciò può ovviare la presenza di altre persone, siano esse parenti, amici o sanitari, giacché nessuno può essere veramente partecipe di quei momenti che costituiscono l’ultima battuta nella vita di una persona. Tuttavia, nella situazione contingente dettata dal Covid-19, è stato difficile (in alcuni frangenti, addirittura non consentito dalle norme in vigore) partecipare e vivere questo momento con il raccoglimento che i familiari avrebbero desiderato e la situazione richiesto.

Chi moriva è stato tenuto distante dai propri cari, avvolto in un lenzuolo intriso di disinfettante, deposto in una doppia bara e portato lontano per essere cremato. L’immagine dell’impressionante corteo di camion militari che per settimane, nei mesi scorsi, trasportavano le bare nelle zone “calde” della penisola italiana ha sconvolto tutti suscitando un senso di sconcerto e solitudine. Un rito asettico, nel pieno senso della parola, che, seppur motivato dal contenimento dei rischi di contagio, ha lasciato un amaro sapore di solitudine che complicava i processi di elaborazione del lutto.

Un rito di passaggio ha anche una forte valenza emotiva, aiuta a prepararsi al commiato e a iniziare lentamente l’elaborazione del lutto. Senza riti di alcun tipo, questa elaborazione è molto più dolorosa e difficile. Il virus, oltre ad aver già causato decine di migliaia di vittime nel nostro Paese, ha cambiato molti aspetti della morte, oltre che della vita.

ANCHE UN’ALTRA SOLITUDINE

Poi c’è una solitudine che riguarda tutti noi, indistintamente, in questo momento più o meno limitati nella nostra vita sociale e relazionale. Il non poter vivere del tutto liberamente e serenamente la relazione con gli altri significativi, nonché la discrepanza tra le relazioni umane che un soggetto desidera avere e quelle che effettivamente ha, inducono un sentimento di solitudine. Ci si può sentire soli pure in famiglia, rinchiusi nello stesso spazio, talvolta esiguo, da condividere per tanti giorni, e che è il terreno su cui si giocano dinamiche emotivamente intense, specie là dove è già presente una condizione di fragilità carica di conflitti e dove più facili sono gli episodi di violenza.

La solitudine può condizionare fortemente le persone che già vivono in uno stato di sofferenza fisica e psichica, che avvertono di più gli effetti dell’isolamento, delle difficoltà a poter contare su un sostegno e a gestire in autonomia tutte le conseguenze dei provvedimenti restrittivi. C’è la solitudine di chi, fino a prima dell’emergenza, ha vissuto bene, ha lavorato, poteva contare su un’attività che gli consentiva una buona qualità di vita, e che nel periodo della quarantena si è dovuto fermare obbligatoriamente e si sente solo e perso di fronte a un futuro che fino a poco tempo fa nessuno era in grado di delineare. Quando la solitudine non è una scelta e nemmeno un bisogno è foriera di sofferenza, specie quando, come in questa emergenza, aleggia una grande incertezza dettata dalla imprevedibilità degli eventi, da un diffuso atteggiamento di ritiro forzato che riduce le possibilità di una condivisione delle emozioni e dei sentimenti in un’atmosfera intima ed empatica. Questa solitudine va considerata con molta attenzione perché difficilmente svanirà con la fine dell’emergenza, dato che dipenderà molto dagli inevitabili strascichi sociali ed economici.

Come professionisti della psiche dobbiamo riflettere sulla solitudine, soffermandoci sul suo significato evolutivo. Nella psicoanalisi si evidenzia come la solitudine abbia essenzialmente due valenze: quella negativa, legata alla pulsione di morte, e quella positiva, che se elaborata armonicamente conduce alla crescita e alla maturazione individuali. Gli aspetti della solitudine sono controversi: da una parte, frequentemente, è vissuta con dolore, fino a poter rappresentare un rischio per il benessere e la salute dell’individuo; dall’altra, è “elogiata”, da alcuni, per la sua carica di creatività, positività e forza maturativa. La solitudine contiene sia la depressione che la reazione, sia la fuga che la ricerca. E la solitudine, non essendo solo disperazione, è anche speranza e forza.

Nel corso della vita ogni persona può trovarsi a dover fare i conti con la propria solitudine e a entrare così in contatto con ciò che di più intimo serba in sé stessa, entrare in relazione con tutte le parti di sé, anche quelle che sente estranee e nemiche e a cui tenta di sfuggire attraverso quella che noi chiamiamo “rimozione”. Diceva Freud che nessuno è “padrone in casa propria”. Per conoscere la “propria casa” è fondamentale passare per una certa esperienza della solitudine e dell’introspezione: ciò ci consente infatti di entrare in rapporto con noi stessi, di acquisire una sana autoconsapevolezza. Allora sperimentare la solitudine permette di ri-scoprirsi, ri-crearsi, di darsi una forma in grado di rapportarsi in maniera nuova al mondo degli altri, con più sicurezza e consapevolezza. Un processo non facile che richiede una disposizione della persona e può chiamare in causa la figura del professionista della salute mentale, quale promotore e catalizzatore di questo momento introspettivo.

Ogni strategia per aiutare ad alleviare il disagio creato dal sentimento di solitudine, quando riconosciuto, deve tener presenti le caratteristiche di quel soggetto, la maturità della persona e le risorse psicologiche più sane e funzionali per superare momenti di sofferenza. La solitudine, non essendo di per sé una malattia, ha bisogno di riflessione, di vicinanza e di empatia da parte di chi aiuta. Nonostante si sappia che difficilmente quel che si consiglia a un soggetto solitario viene poi messo in atto, dobbiamo evitare che la persona si chiuda ulteriormente in sé stessa, rinserrandosi in una visione del mondo monotona e grigia, perché ciò può avere gravi ripercussioni sulla sua vita di relazione e sul suo benessere. La solitudine, infatti, si affianca alla noia, entrambi sentimenti che favoriscono la comparsa di vere e proprie forme patologiche e/o condotte a rischio. Anche se non sono ancora i tempi in cui è pienamente opportuno uscire liberamente da questo forzato “guscio protettivo”, incontrarsi, darsi la mano, abbracciarsi e baciarsi, tutti dobbiamo prendere consapevolezza che gli affetti sono immutati, e forse in questi mesi persino intensificati; ciò aiuta ad affrontare efficacemente la solitudine e a riconoscerne la valenza evolutiva.

Filippo Di Pirro è psichiatra e psicoterapeuta con formazione in psicodiagnostica. Ha lavorato come Ufficiale medico psichiatra e attualmente è curatore della collana “Psichiatria” di Giunti Psychometrics.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui