Eugenio Gallavotti, Mario Savino

Chi ha paura del suicidio assistito

Il Parlamento italiano ha tempo fino al 24 settembre per pronunciarsi a favore o contro chi “aiuta a far morire” malti terminali o irreversibili, come nel caso del giovane DJ Fabo. Altrimenti la parola spetterà ai giudici della Consulta.

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C'è la frase di un anonimo che dice: «Nessuno si suicida perché vuole morire», lasciando intendere che ci si toglie la vita soprattutto per rimuovere un fardello insopportabile, per sconfiggere un dolore profondo. Il suicidio tenta chi è esausto nel sentire, minuto per minuto, quel peso che opprime, l’emarginazione, la solitudine, il desiderio del nulla, di non voler vedere, dormire, parlare… Un buio che vuoi spegnere. È vero, non vuoi ucciderti, solo interrompere lo strazio. E, nella tua testa ormai persuasa, se ne hai ancora la forza, pensi che l’unica salvezza sia scomparire. 

Abbiamo rivisto i drammatici video di Fabiano Antoniani, in arte DJ Fabo, cieco e tetraplegico in seguito a un incidente stradale (alla guida, si era chinato una frazione di secondo per raccogliere il telefonino), poi suicida assistito in Svizzera. Ma il suo non è stato l’epilogo di una depressione. Non aveva disturbi mentali. Qui entriamo in un altro scenario, quello della incurabilità, dell’estrema menomazione fisica, che ti conduce all’idea di farla finita. (CONTINUA...)

La storia di questo sfortunato ragazzo ha avviato in Italia il dibattito su una materia assai controversa. Il politico radicale Marco Cappato, che lo ha accompagnato nell’ultimo viaggio verso la clinica Dignitas di Forch, nel cantone di Zurigo, ha raccontato: «Ha morso uno stantuffo per attivare l’immissione del farmaco letale: era molto in ansia perché, non vedendo il pulsante, temeva di non riuscire». 

Al suo rientro, anche per alimentare l’interesse della opinione pubblica, Cappato si è autodenunciato per aiuto al suicidio, reato che prevede da 5 a 12 anni di carcere secondo l’art. 580 del codice penale. Durante il processo, le PM di Milano Tiziana Siciliano e Sara Arduini hanno chiesto di valutare l’illegittimità costituzionale di quell’articolo. Così, la questione è finita alla Consulta, che ha invitato il Parlamento a riempire un «vuoto di tutela»: situazioni come quella di DJ Fabo coinvolgono valori istituzionalmente protetti – il diritto alla dignità, all’autodeterminazione – che meriterebbero una disciplina particolare. Il Parlamento dovrà esprimersi entro il 24 settembre 2019, «altrimenti ci pensiamo noi», hanno fatto capire i giudici.

Libertà, qualità, dignità

Le tesi pro o contro il suicidio assistito somigliano in parte a quelle sull’eutanasia attiva e volontaria, ovvero quando il medico somministra farmaci che inducono la buona morte per volontà del paziente. Come il suicidio assistito, anche l’eutanasia attiva è illegale in Italia. Tra i favorevoli, le parole chiave sono libertà, qualità, dignità. Innanzitutto che l’individuo sia libero e padrone della propria vita, che i valori della sua coscienza siano insindacabili; che la qualità dell’esistenza abbia il sopravvento sul dolore e la sofferenza psicofisica, acuiti in maniera insostenibile dalla malattia, qualcosa che nessuno dovrebbe essere costretto a sopportare; la constatazione che la vita, a quelle condizioni, non è più degna di essere vissuta, con il tormento pure dei familiari, per un tempo indefinito, anche loro incapaci di condurre la stessa vita di prima. 

«Se vedi uno che si sta impiccando, che fai, rispetti la sua libertà o intanto lo salvi?», si chiede il filosofo Paolo Flores d’Arcais. «Naturale che lo salvi. Ma i casi come quello di DJ Fabo sono sempre e soltanto riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e incrollabilmente definitive, a maggior ragione se chi vuole morire è un malato terminale o irreversibile. Scelte da rispettare se a una persona si vuole bene davvero, anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre. Troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”: pretendono di imporre la vita a chi invece la considera peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito, che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, che ho più in orrore la tortura, visto che siamo cittadini uguali in dignità e libertà?».

Sono argomentazioni che invocano il principio di autodeterminazione, ossia la scelta di porre fine alla propria esistenza, dopo avere ponderato, maturato, ribadito di non essere più in grado di tollerare la propria condizione, gravemente menomata, incontrastabile come nel caso di DJ Fabo. Perciò il suicidio assistito è un diritto? Sì, secondo i sostenitori: fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La vita umana è tale perché singolare e irripetibile, ovvero assolutamente mia. Se non è più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a oggetto. «E per “assistenza al suicidio” si intende anche quella semplicemente morale», aggiunge Flores d’Arcais. «Ricordo due casi in anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio – solo questo: la vicinanza – e deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante; una signora di 54 anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia. Che tuttavia le prenota il taxi per il trasferimento oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione della figlia: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere».

Il giuramento di Ippocrate

Chi si oppone al suicidio assistito, in primo luogo lo assimila all’omicidio. Nessuno può sopprimere la vita di un altro o favorirne la morte, anche se la “vittima” è consenziente, o lo ha pregato di farlo, o magari lo ha pagato per farlo, innestando la questione di eventuali abusi oppure danni che potrebbero essere commessi, per convenienza o altro, nei confronti dei pazienti più indifesi. Poi c’è il famoso giuramento di Ippocrate, una sorta di Vangelo per la classe medica: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio». 

E dal punto di vista pratico – si chiedono gli scettici – se il suicidio assistito fosse legalizzato, come si svolgerebbe? Vai dal medico e gli chiedi la ricetta del Pentobarbital perché sei stanco di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero? Quasi nessuna malattia, con i progressi della scienza, è di per sé incurabile. Non certo la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona, che, una volta guarita, non chiederebbe mai di “essere suicidata”. E poi ci vorrà un’esplicita richiesta scritta o basta che il paziente lo dica, magari in un momento di sconforto? E poi, a chi lo dice? Putacaso, a un parente ansioso di ereditare?

Obiezioni di carattere religioso, note e diffuse, sottolineano infine che la vita non è di nostra proprietà. E quand’anche lo fosse, concludono i contrari, esattamente per questo chi vuole sopprimere la propria vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più propria. E tutto questo dovrebbe svolgersi in cliniche private da 10 000 euro a trattamento? Il procedimento, insomma, non è limpido. E le perplessità sui possibili abusi rimangono.

Una questione di uguaglianza?

Chi scrive pensa che il suicidio assistito sia un diritto, anche se la legge dice il contrario. Capita di chiedersi chi possa aiutarci quando magari saremo lacerati dal dolore in una maniera che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare, per esempio se saremo paralizzati e avremo attorno solo persone che si accaniranno a mantenerci in vita. Sapere che ci sarà una “via di fuga”, se le cose dovessero mettersi nel peggiore dei modi, non regalerebbe a ognuno di noi una prospettiva meno inquietante? Oggi, in Italia c’è uno scudo legislativo che impedisce, a chi ci vuole bene, di soccorrerci se stiamo talmente male da non essere nemmeno nelle condizioni di commettere suicidio. Ci sono molti casi di suicidi che non sono legati a diagnosi psichiatriche e che derivano da estrema sofferenza e impotenza, di impossibilità anche minima di vivere come esseri umani. È una pratica ormai consolidata in molti Paesi civili. Da noi, si dice, l’influenza della Chiesa forse complica un po’ le cose… In realtà, anche il mondo religioso si sta interrogando su questo tema, chiedendosi se non sia appunto amore anche quello di chi ti aiuta a oltrepassare il supplizio quando, dopo anni e anni, la terapia non ha prodotto risultati o quando una terapia non esiste affatto. È famosa, e ascoltata, l’opinione del teologo Hans Küng, malato di Parkinson: «Nessuno è obbligato a soffrire l’insopportabile come qualcosa di mandato da Dio. La gente deve poter decidere da sé e nessun prete, medico o giudice può fermare questa libertà di scelta».

Altro aspetto, a margine. Non è il caso di pazienti paralizzati o ridotti a vegetali, ma ci sono esempi di persone che decidono di andare in Svizzera per farla finita e che all’ultimo momento cambiano idea. Tanto che in quelle cliniche ti fanno pagare in anticipo e specificano non esser dovuto alcun rimborso se poi si vuole tornare a casa, sulle proprie gambe o in carrozzina. Cos’è che a queste persone fa cambiare idea? Lo shock, il fatto stesso di stare per togliersi la vita, di stare premendo quel pulsante: uno shock che le fa sentire ancora in grado di provare qualcosa. E perciò di vivere.

Stabilita la necessità di individuare un sistema giuridico che permetta il suicidio assistito senza determinare eventuali abusi nei confronti delle persone più fragili, non in grado di prendere una decisione del genere, un punto fondamentale sembrerebbe già accennato dai giudici della Consulta che, fino all’inizio del prossimo autunno, hanno dato tempo al Parlamento di esprimersi: semplicemente, il principio di uguaglianza regolato dalla Costituzione all’art. 3. Se nel nostro ordinamento il suicidio e il tentato suicidio non rappresentano un illecito, ecco che la stessa “accondiscendenza” viene negata a chi non può togliersi la vita, come nel caso di DJ Fabo. Perché tollerare X, ma non Y? Non tolleri Y perché è infermo e non può fare da solo? Ma se l’art. 3 non basta, ecco il 2 e il 13. Il 2 riguardante i diritti umani, qual è quello all’autodeterminazione; il 13 attestante che la libertà personale è inviolabile, e in questo ambito è compresa anche la libertà di uccidersi. Altrimenti, il tentato suicidio sarebbe un reato. E, ripetiamo, non lo è.

Così nel mondo

In Belgio, Lussemburgo, Olanda, Svizzera, Spagna, Svezia, Colombia e negli Stati dell’Oregon, Washington, Montana, New Mexico, Vermont e California, il suicidio assistito è permesso o tollerato, con varianti da un ordinamento all’altro. Per esempio, in Svizzera la persona che sceglie questo tipo di fine vita dev’essere adeguatamente informata sulle alternative ed è vietata l’assistenza fornita per motivi di lucro o di convenienza (per esempio, in caso di presenza di avidi eredi). Ovunque la persona dev’essere giudicata capace di intendere e volere da parte di un’équipe medica. 

Una pronuncia della Corte europea dei Diritti dell’uomo ha riconosciuto che il Suicide Act, varato dal Parlamento inglese nel 1961 per sanzionare penalmente il suicidio assistito, interferiva con il diritto al rispetto della vita privata, «che comprende anche il diritto a come porre termine alla propria esistenza». La Corte europea, tuttavia, ha aggiunto di affidare al margine di apprezzamento dei singoli Stati la valutazione di eventuali abusi e danni nei confronti soprattutto dei pazienti più anziani o vulnerabili.

 

Eugenio Gallavotti, giornalista, è docente a contratto alla Facoltà di Comunicazione dell’Università IULM di Milano. Vive a Bergamo.

Mario Savino, laureato in Medicina, si è specializzato in Psichiatria. Ha collaborato con numerose università in Europa e negli Stati Uniti. È stato consulente psichiatra all’Istituto Oncologico Europeo.

Photo by Rakicevic Nenad from Pexels


Riferimenti bibliografici

Aramini M. (2019), Papa Francesco e le scelte di fine vita, Edizoni Paoline, Roma.

Corte Costituzionale (2018), ordinanza n. 207.

Imbrogno V., Voglino Levy S. (2018), Prometto di perderti. Io, Dj Fabo e la vita più bella del mondo, Baldini+Castoldi, Milano.

Parodi C. (2013), «Una cauta pronuncia della Corte europea in tema di eutanasia attiva», Diritto Penale Contemporaneo, 19 febbraio, www.penalecontemporaneo.it

Tondo L. (2000), Prima del tempo. Capire e prevenire il suicidio, Carocci, Roma.

Veronesi U. (2017), Il diritto di non soffrire. Cure palliative, testamento biologico, eutanasia, Mondadori, Milano.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui