Giuseppe Riva

Le nuove tecnologie per l’auto-miglioramento personale

Sono sempre di più le app che sfruttano la realtà virtuale per simulare situazioni nelle quali uno si esponga a una propria fobia per cercare di superarla.

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L'espressione “self-help”, traducibile in italiano con “auto-aiuto”, indica libri, corsi e video che propongono una serie di idee e metodi, sperimentati da altri, con i quali risolvere i propri problemi personali e relazionali. La logica che sta dietro a questo filone è molto semplice: cambiare è facile se sai come farlo. Per questo, i libri, i video e i corsi presentano un plesso di strategie da seguire per risolvere i problemi più vari: come l’aumentare la propria autostima o l’efficacia quale venditore. E grazie al web la disponibilità di contenuti self-help è aumentata drasticamente. In particolare, grazie a YouTube è possibile trovare centinaia di video che propongono “pillole” di qualche minuto in grado di aiutarci ad affrontare qualsiasi tipo di problema.

Solo che non basta sapere qual è il problema e come superarlo, per riuscire a farlo. Moltissimi di noi sanno benissimo che dovrebbero perdere qualche chilo. E in molti casi sanno anche che per riuscirvi dovrebbero fare più attività fisica e mangiare di meno. Tuttavia, continuano a non farlo. Perché? (CONTINUA...)

Le persone cambiano solo se vedono nel cambiamento un’opportunità significativa o se sono costrette. Ma anche questo non basta. Infatti, il soggetto cambia solo se riesce concretamente a trasformare l’opportunità in un vantaggio concreto. Se non vi riesce, o più semplicemente pensa di non riuscirvi perché è troppo difficile, il cambiamento si interrompe o addirittura non parte. Come racconta il nostro direttore Luca Mazzucchelli nel suo recente volume Fattore 1%. Piccole abitudini per grandi risultati (Giunti, 2019), a bloccare questo processo sono spesso le nostre abitudini. Solamente sviluppandone di nuove, più funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi, è possibile riuscire a cambiare davvero.

Qui l’uso della tecnologia può fare la differenza. In particolare, attraverso il passaggio dalla conoscenza all’esperienza. Grazie alla dimensione esperienziale della tecnologia, non solo capisco qual è il problema e come fare ad affrontarlo (conoscenza), ma posso anche provarci e vedere che riesco a superarlo (esperienza). Per questo negli ultimi anni sono state sviluppate molte app e simulazioni con cui mettere immediatamente in pratica le conoscenze apprese con l’aiuto di esperienze digitali.

 LE APP PER LA REGOLAZIONE EMOTIVA 

Uno dei problemi più comuni che caratterizzano la nostra vita quotidiana è lo stress. I problemi sul lavoro, la gestione delle relazioni familiari e/o di coppia e le incertezze della vita quotidiana possono renderci stressati e stanchi. In questo caso i libri di self-help possono aiutarci a capire come organizzare meglio la nostra giornata e costruire relazioni produttive. Ma per riuscire a controllare direttamente le nostre emozioni, la tecnologia può fare la differenza.

Come? Una delle tecniche di regolazione emotiva più semplice è il controllo del respiro. Anche se normalmente respiriamo in maniera automatica, è molto semplice modificare la frequenza e l’intensità del respiro. Diversi studi hanno dimostrato che riuscire a mantenere un ritmo costante e profondo di respirazione nel tempo, aiuta a ritrovare concentrazione ed equilibrio. Tuttavia, farlo da soli non è facile. Per questo esistono numerose applicazioni in grado di guidarci nel processo. La più famosa è l’app Respirazione, installata di serie in tutti gli Apple Watch. Dopo aver deciso quanto tempo dedicare alla respirazione, l’app fa partire l’animazione di un fiore che si apre e chiude, il quale, insieme ai lievi tocchi sul polso, facilita la concentrazione sul respiro. Un’applicazione analoga, disponibile su dispositivi sia Apple che Android, è Breathe2Relax. Realizzata dal National Center for Telehealth & Technology statunitense per aiutare i soldati americani a rilassarsi mediante la respirazione diaframmatica, questa app può essere scaricata gratuitamente pure da noi, anche se è disponibile solo in lingua inglese (versione iOS: https://apple.co/2XgYCex e versione Android: https://t2m.io/qONOpsN3). Il funzionamento è simile a quello dell’app Respirazione: l’utente vede l’animazione di una barra che sale e scende guidando il ritmo del respiro. Sono peraltro disponibili alcune funzioni ulteriori che la rendono più versatile. In particolare, Breathe2Relax consente pure di misurare le variazioni dello stato emotivo per verificare l’efficacia della respirazione. Se usata insieme a un Apple Watch, vengono rilevate e registrate automaticamente le variazioni nel battito cardiaco. Senza Apple Watch, l’app chiede direttamente agli utilizzatori di valutare come si sentono alla fine della sessione utilizzando una scala di valutazione a intervalli equivalenti.

Un’altra strategia suggerita spesso dai testi di self-help per combattere lo stress è quella di ascoltare musica rilassante. Solo che un conto è saperlo, un conto è farlo. La principale difficoltà sta nel fatto che il concetto di “musica rilassante” è soggettivo. La musica che rilassa noi non è detto che sia altrettanto efficace con un altro ascoltatore. Per cui la strada migliore è mettersi ad ascoltare brani diversi, cercando di trovare il più adatto per ciascuno di noi.

Anche in questo caso ci sono diverse app in grado di aiutarci. La prima, disponibile solo per iPhone, è Ambi Pro (http://x.co/6nmfJ). Definita dai creatori come un «generatore di rumore ambientale», aiuta il rilassamento e la concentrazione coprendo il rumore esterno. A differenza di molte app simili, che utilizzano suoni predefiniti, Ambi Pro usa una serie di algoritmi per generare suoni sempre differenti, la cui durata può essere scelta dall’utente. Per chi invece preferisce scegliere tra suoni già registrati, una scelta efficace è Atmoshphere (versione iOS: http://x.co/6nmfM e versione Android: http://x.co/6nmfL). Di base sono disponibili 70 diversi suoni sia artificiali che naturali, raccolti in base alla tipologia di ambiente. Per esempio, si possono scegliere suoni generati su una spiaggia, in una foresta e così via. È possibile anche mixare e salvare i suoni disponibili per generarne di nuovi.

Per gli utenti che conoscono la lingua inglese c’è anche una serie di applicazioni che possono aiutare a rilassarci tramite veri e propri corsi di meditazione. La più famosa è sicuramente Calm (versione iOS: http://x.co/6nmfX e versione Android: http://x.co/6nmfY), che nel 2017 ha ricevuto il premio come miglior app dell’anno. Al suo interno vi sono corsi di durata differente – da una settimana a un mese – che integrano suoni e narrative rilassanti per insegnarci a meditare attraverso sessioni che partono da un paio di minuti al giorno.

Molto simile è Headspace (versione iOS: http://x.co/6nmfb e versione Android: http://x.co/6nmfe), che si caratterizza per un’interfaccia più colorata e per una serie di meditazioni pensate per ridurre l’insonnia notturna.

Un’ultima tipologia di app utilizzata per ridurre lo stress è quella che consente di colorare complessi disegni predefiniti – fiori, animali, mandala ecc. – in bianco e nero. Per mezzo della scelta o della creazione di tavolozze di colori, è poi possibile dar vita ai diversi disegni semplicemente premendo sull’area da colorare. A differenza dei mandala, che venivano poi cancellati, le opere realizzate possono essere salvate e perfino condivise sui social. Anche in tal caso le app a disposizione sono moltissime. Tra le più apprezzate annoveriamo Colorfy (versione iOS: http://x.co/6nmfT e versione Android: http://x.co/6nmfS) e Pigment (versione iOS: http://x.co/6nmfU e versione Android: http://x.co/6nmfV).

 LA REALTÀ VIRTUALE PER COMBATTERE LE FOBIE 

Una tecnologia emergente nel mondo del self-help è la realtà virtuale. La realtà virtuale viene usata da quasi vent’anni all’interno della cyberterapia come strumento clinico con crescente successo. Obiettivo della cyberterapia è infatti quello di far sperimentare al paziente delle esperienze simulate che richiamano situazioni della vita reale da lui percepite come particolarmente critiche o minacciose, con l’obiettivo di aiutarlo a gestire le emozioni negative generate da queste situazioni. A tale scopo, una delle tecniche più utilizzate è l’esposizione graduale e controllata alla situazione-stimolo problematica per il soggetto. In pratica, posso desensibilizzare un soggetto con la paura di volare abituandolo progressivamente alle emozioni che prova salendo sull’aereo e durante la fase di decollo. Normalmente l’esperienza virtuale si svolge nell’ambiente protetto e sicuro dello studio dello psicoterapeuta, il cui ruolo è di guidare il paziente nel percorso virtuale aiutandolo a gestire ed elaborare i vissuti emotivi che emergono durante la simulazione. Tuttavia, da qualche mese sono disponibili delle esperienze di realtà virtuale in grado di aiutare il soggetto a superare una serie di fobie specifiche senza richiedere l’intervento diretto del terapeuta.

La più famosa è Zerophobia (https://www.zerophobia.app), realizzata dall’Università di Twente per combattere l’acrofobia, cioè la paura dell’altezza. L’app, acquistabile anche in Italia al costo di 15 euro (versione iOS: http://x.co/6nmfU e versione Android: http://x.co/6nmfw), consente a tutti i possessori di uno smartphone e di un casco virtuale compatibile Cardboard, anch’esso acquistabile online al costo di 20 euro (per esempio, il visore VR Teppoin – http://x.co/6nmfz – o il visore VR Hamswan – http://
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), di iniziare un vero e proprio programma di self-help in grado di aiutare a superare la paura dell’altezza. Organizzata intorno a 6 diverse sezioni, che ricordano un classico volume di auto-aiuto, l’app fornisce una serie di informazioni sulla natura della paura, su come affrontarla, sul percorso da seguire, su come superare momenti difficili e affrontare pensieri negativi, facendo sperimentare direttamente, grazie alla realtà virtuale, quanto appreso. Zerophobia è stata validata con uno studio clinico controllato recentemente pubblicato dalla rivista JAMA Psychiatry (http://x.co/6nmfx). Lo studio ha infatti dimostrato l’efficacia dell’app, dopo tre settimane di utilizzo, nel ridurre significativamente i sintomi dell’acrofobia anche a distanza di tre mesi dalla fine dell’intervento.

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La principale differenza di Zerophobia rispetto a un classico manuale di self-help è proprio questa: non solo spiega al soggetto come fare, ma gli offre la possibilità di sperimentarlo in un contesto controllato e personalizzato, dimostrandogli che può riuscirci. Come racconto nel volume Realtà virtuali. Gli aspetti psicologici delle tecnologie simulative e il loro impatto sull’esperienza umana, recentemente pubblicato da Giunti, la realtà virtuale consente di superare il passaggio tra il “sapere/conoscenza” e il “saper fare/esperienza”, che, come abbiamo visto, è il limite principale del self-help tradizionale. Il libro o il corso possono spiegarci chiaramente perché cambiare e come farlo. Ma poi è solo sperimentando quanto appreso, che le parole diventano fatti.

Con lo stesso approccio funziona una serie di altre app VR che, sebbene meno “professionali” di Zerophobia, possono aiutarci a superare talune paure. Per esempio, per chi ha paura di parlare in pubblico, ottime applicazioni sono VirtualSpeech (versione iOS: http://x.co/6nmgB e versione Android: http://x.co/6nmgA) e Beyond VR (versione iOS: http://x.co/6nmgE e versione Android: http://x.co/6nmgC), che richiedono lo stesso casco virtuale Cardboard utilizzato da Zerophobia (si torni al box a fianco). Mentre per chi ha paura dei ragni un’applicazione efficace per aiutarci a gestire le emozioni negative è Spider Phobia (versione iOS: http://x.co/6nmgF e versione Android: http://x.co/6nmgC).

 LA REALTÀ VIRTUALE PER RICONOSCERE LE MALATTIE DEGENERATIVE 

Anche se le applicazioni di self-help basate sulla realtà virtuale sono soltanto all’inizio – in Italia società che stanno lavorando in questo ambito sono Become (https://become-hub.com), Idego (https://www.idego.it) e Softcare Studios (https://www.tommigame.com) – ha generato di recente un grande interesse un’altra app, Sea Hero Quest (http://www.seaheroquest.com/), caratterizzata da un obiettivo molto ambizioso: riconoscere i sintomi precoci della demenza.
Creata con il supporto dei ricercatori della University College London e della University of East Anglia, e fruibile con il casco Oculus Go, del costo di circa 200 euro (http://x.co/6nmgP), l’app raccoglie le scelte e i dati di navigazione dei giocatori per identificare comportamenti anomali utili a riconoscere i primi sintomi della malattia. Come raccontato di recente dalla prestigiosa rivista PNAS (http://x.co/6nmgX), l’approccio funziona: i dati di navigazione raccolti hanno mostrato la stessa capacità di discriminare i soggetti a rischio di Alzheimer di uno dei più complessi sistemi di analisi genetica (la rilevazione dell’allele e4 del gene polimorfico apolipoproteina E, ApoE4).

Un risultato simile è stato ottenuto dai ricercatori nostrani dell’Istituto Auxologico Italiano e dell’Istituto Don Gnocchi, i quali tramite un’altra App gratuita di VR – Picture Interpretation Test (PIT) 360 (versione iOS: http://x.co/6nmgZ e versione Android: http://x.co/6nmga) – hanno dimostrato, con due articoli pubblicati sulla rivista Scientific Report (http://x.co/6nmgce http://x.co/6nmgd), l’efficacia della realtà virtuale nel discriminare i soggetti con disturbo di Parkinson e sclerosi multipla semplicemente analizzando il comportamento degli utenti durante l’uso.

Ma come funzionano queste app? Gli studi più recenti delle neuroscienze, e in particolare il lavoro dei due ricercatori inglesi Andy Clark e Karl Friston, descrivono la nostra mente come una macchina predittiva che impara ad anticipare gli stimoli sensoriali prima che siano effettivamente percepiti, in modo da rispondere rapidamente e apparentemente senza sforzo a minacce e opportunità quando queste si presentano (e talvolta anche prima). Tuttavia, come spiego in un recente articolo sulla rivista Cortex (http://x.co/6nmkc), tali meccanismi predittivi smettono di funzionare correttamente in diversi disturbi mentali e degenerativi. E qui interviene la realtà virtuale, che ha molti punti di contatto con il funzionamento della nostra mente. Infatti, se la realtà virtuale è uno strumento tecnologico che simula la realtà, la nostra mente è un sistema biologico con lo stesso obiettivo: simulare la realtà per riuscire a prevedere in anticipo opportunità e minacce. In quest’ottica, attraverso la realtà virtuale è possibile stimolare la nostra mente in modo da attivare gli stessi meccanismi predittivi utilizzati quotidianamente e verificarne il corretto funzionamento.

Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Selfie. Narcisismo e identità (Il Mulino, 2016). www.giusepperiva.com

Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui