Intervista a: Silvia Bonino
di: Paola A. Sacchetti

Uomini che uccidono le donne. Una riflessione sui femminicidi

Intervista_converted_violenza.jpg

Paola Sacchetti intervista Silvia Bonino.

Uomini che uccidono le donne. L’ultima, in ordine di tempo, è stata Juana Cecilia Hazana Loayza, 34enne di Reggio Emilia strangolata e poi sgozzata dall’ex compagno. 3 femminicidi solo nell’ultima settimana e purtroppo è un elenco in continuo aggiornamento. Al momento della messa online di questa intervista sono 93 le donne uccise in ambito familiare-affettivo dall’inizio dell’anno, di cui 63 dai propri partner o ex partner, come emerge dal report “Omicidi volontari” del Dipartimento della Pubblica sicurezza, Direzione centrale della Polizia criminale, Servizio analisi criminale, pubblicato dal Ministero dell’Interno.
Un elenco di vittime che aumenta ogni giorno: nello stesso periodo dello scorso anno, tra il 1° gennaio e il 21 novembre del 2020, sono state “solo” 59 le donne vittime dei propri compagni o mariti. Troppe. Soprattutto se consideriamo che non tengono conto delle violenze contro le donne che non hanno esito fatale.

Perché gli uomini continuano a uccidere le loro compagne, mogli, amanti? Che cosa possono fare le donne vittime di violenza per proteggersi?
 

Prof.ssa Bonino, può commentarci gli ultimi casi di femminicidi?

Purtroppo non c’è niente di nuovo in questi ultimi casi, né per il tipo di relazione tra l’uccisore e la vittima, né per il numero, che dai dati ufficiali ISTAT risulta essere stabile negli ultimi trent’anni, mentre, al contrario, il numero dei maschi volontariamente uccisi è in costante diminuzione.

Perché gli uomini continuano a uccidere le loro compagne, mogli, amanti?

Per rispondere a questa domanda occorre considerare la complessità dell’interazione tra biologia e cultura nelle relazioni affettive e sessuali. Dobbiamo essere consapevoli che continuano a esistere nel nostro cervello tendenze primitive – sottolineo: tendenze, non determinazioni al comportamento – che nei maschi connettono la sessualità alla sopraffazione e alla dominanza, e nelle femmine la connettono alla paura e alla sottomissione. Come ho mostrato nel libro Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019), riconoscere che nella parte più primitiva del nostro cervello esistono queste disposizioni non significa affatto giustificare la violenza degli uomini sulle donne, perché si tratta di disposizioni preumane, che ci derivano dal nostro passato filogenetico. Gli uomini violenti si comportano non da esseri umani, ma da esseri preumani, e causano di conseguenza solo sofferenza. Al contrario, negli esseri umani la sessualità si è evoluta connettendosi al sentimento amoroso e alle relazioni positive, caratterizzate da condivisione, aiuto, cooperazione. È la capacità di amore paritario, e non la sopraffazione, a essere caratteristica della nostra specie; a essa siamo biologicamente predisposti ed è compito della cultura e dei singoli individui coltivarla. Purtroppo sovente la cultura è complice della sopraffazione e del dominio maschili in vari modi, e non solo quando li giustifica attraverso le ideologie, le leggi e la religione, asservendo così il pensiero alle disposizioni primitive. La cultura occidentale, che teoricamente riconosce la parità tra uomini e donne, in realtà molto spesso non favorisce le tendenze positive più evolute ma quelle più arcaiche, per esempio attraverso la sessualizzazione, la pornografia, la prostituzione, le pratiche educative che legittimano la violenza, l’impulsività e il consumismo.

Spesso leggiamo che le vittime avevano denunciato i loro persecutori e le violenze subite. Denunciare non basta, le donne pensano che non serva. Sappiamo che il 90% delle violenze non viene denunciata. Che cosa davvero possono fare le donne vittime di violenza per proteggersi?
E che cosa possiamo fare, noi tutti, per proteggere tutte le donne?

Queste violenze nascono nella complessità di una relazione sentimentale che ha una storia.
Decidere di denunciare è molto difficile, perché comporta una frattura netta nella relazione, con tutti i vissuti emotivi, le ricadute pratiche e i riflessi sociali che questo implica. Per aiutare queste donne a proteggersi occorre renderle maggiormente consapevoli di tutti i segnali di prevaricazione, ben prima che questa diventi fisica: per esempio, non scambiare la gelosia, la pretesa di isolamento sociale o l’imposizione sessuale per amore. Le donne vanno aiutate, fin da adolescenti, a essere maggiormente consapevoli della possibilità che i partner attuino comportamenti dominanti e aggressivi, e che loro stesse siano condiscendenti e passive; va chiarito che queste tendenze esistono ma che possono e devono essere contrastate e superate. A livello sociale e giuridico, per aiutare le donne si dovrebbe andare oltre gli interventi attuali. Occorre pensare e mettere in atto altri provvedimenti più incisivi, come la terapia, anche obbligata, per gli uomini violenti.

Se dal rapporto Censis emerge una maggiore consapevolezza del problema della violenza contro le donne, il 23% delle persone pensa ancora che sia un problema che riguarda solo una piccola minoranza e il 4% pensa che siano casi isolati “gonfiati” dai media. È “solo” la cultura maschilista ancora dominante a determinare questi dati? Cosa possiamo fare per avviare un cambiamento che sia decisivo?

Non è solo la cultura maschilista. È il risultato paradossale del pensare, illusoriamente, che tutto sia solo culturale, e che basti fare appello al pensiero evoluto e ai valori di uguaglianza per superare la violenza contro le donne. Senza consapevolezza dei lati oscuri della nostra sessualità e delle nostre relazioni non si possono costruire rapporti di parità e affetto, quelli cui siamo predisposti dalla biologia. Questi ultimi devono essere favoriti dalla cultura, contrastando le tendenze più primitive non specificamente umane, che non vanno negate ma di cui occorre essere consapevoli.

Qualche tempo fa il commento di una nota giornalista in un programma pomeridiano aveva scatenato molte polemiche e dure prese di posizione, partite dai social e approdate ai giornali, che avevano poi portato alle scuse da parte dell’interessata. Questa la frase: “Negli ultimi giorni ci sono stati 7 delitti, 7 donne uccise presumibilmente da 7 uomini […] a volte però è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati, oppure c’è stato anche un comportamento esasperante, aggressivo anche dall’altra parte?”.
Cosa ne pensa? È davvero lecito porsi questa domanda oppure, come pensiamo, è figlia della cultura maschilista e patriarcale che respiriamo e che determina una vittimizzazione secondaria di queste donne che hanno subito violenze?

È figlia della subordinazione alle giustificazioni maschili, ma non solo. Entra in gioco anche un meccanismo di difesa contro la prospettiva che la medesima violenza possa accadere a se stesse. Di fatto ogni donna, nessuna esclusa, può esserne vittima.

Come alcuni hanno affermato, almeno è “consolante” che affermazioni del genere oggi portino a sollevare forti obiezioni, cosa che solo qualche anno fa non sarebbe accaduto. È un segnale positivo?

È un segnale debolmente positivo, perché indica che la colpevolizzazione della vittima non è più accettata da tutti. Ma è davvero troppo poco.

 

Silvia Bonino è Professore onorario di Psicologia dello sviluppo all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019).