Giuseppe Riva

Trasgressione e innovazione

La trasgressione, per essere davvero innovativa, deve recepire esigenze del rispettivo contesto sociale, altrimenti resta isolata. Certe volte non è l'inventore stesso, ma un terso, a vedere la rottura delle regole con occhi diversi. 

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Che cos’è un’innovazione? La parola “innovazione” deriva da due parole latine: “novus” (nuovo) e “innovatio” (l’equivalente di “qualcosa di nuovo”). E in effetti, secondo la Treccani, un’innovazione è «ogni novità, mutamento, trasformazione che modifichi radicalmente o provochi comunque un efficace svecchiamento in un ordinamento politico o sociale, in un metodo di produzione, in una tecnica, ecc.».

Per questo nella mente di molti lettori il concetto di innovazione è legato a quello di trasgressione. Nella vita e nelle opere di un pittore maledetto come Van Gogh, morto suicida, o di un fotografo controverso come Oliviero Toscani, è evidente il legame esistente tra le due dimensioni. 

L’INNOVAZIONE E GLI ALTRI

Tuttavia, le caratteristiche di questo legame sono più complesse di quanto possa sembrare a prima vista. Infatti, l’innovazione è qualcosa in più dell’atto
creativo presente nella trasgressione
. Ciò che rende la rottura di una regola una innovazione è la capacità di darle forma trasformandola in qualcosa di più: in un effettivo strumento di cambiamento sociale

Da una parte, non tutte le trasgressioni producono innovazione. Molti atti creativi, infatti, precedono i tempi e non riescono a trovare il contesto che consente loro di imporsi, almeno subito. Allo stesso tempo, molte innovazioni non nascono da atti creativi, ma si basano su conoscenze già esistenti o addirittura sono il risultato di errori creativi. Per esempio, una grande innovazione come il post-it è il risultato di uno di questi errori: la creazione di un adesivo “sbagliato” che non riusciva a incollare in maniera permanente due pezzi di carta.

Ma allora qual è il legame tra innovazione e trasgressione? Una delle risposte più interessanti viene da uno studio pubblicato dalla rivista Science («Rice, psychology, and innovation», di Joseph Henrich, 2014; scaricabile qui: https://goo.gl/AfRwAt). Il punto di partenza da cui muovono gli autori dello studio è molto semplice.

Se si confrontano i livelli di innovazione tra cultura occidentale e cultura orientale, emerge una chiara differenza a favore della prima. Perché? Perché gli esponenti della cultura occidentale si caratterizzano per una duplice caratteristica: sono contemporaneamente individualisti e analitici. 

Avere alti livelli di individualismo spinge gli occidentali a considerarsi indipendenti dagli altri e dotati di una serie di caratteristiche ampiamente positive. Questo li spinge a contatti e relazioni anche al di fuori della rete sociale in cui sono nati e in cui vivono. Al contrario, in tante culture orientali le persone sono invischiate in reti sociali stabili molto chiuse, da cui dipendono in termini sia di identità che di sopravvivenza. 

Psicologicamente, crescere all’interno di un mondo in cui prevale l’individualismo porta i soggetti a potenziare il ragionamento analitico, che facilita la scomposizione e la ricomposizione di fenomeni e processi.

Al contrario, vivere in culture collettiviste spinge l’individuo a preferire la sintesi e la visione d’insieme. Le differenze sono evidenti. Pensare analiticamente significa analizzare le cose nelle loro parti costitutive e assegnare specifiche proprietà a ciascuna di esse. Le somiglianze sono giudicate in base a categorie precise, definite da proprietà e funzioni, che tendono a rimanere costanti nel tempo. Il pensiero olistico, al contrario, si concentra sulle relazioni tra oggetti o persone all’interno di contesti specifici. La somiglianza è quindi giudicata nel complesso, e non sulla base di proprietà specifiche, e può cambiare in base alle situazioni.

INDIVIDUALISMO, COLLETTIVISMO E INNOVAZIONE

Qual è il rapporto tra individualismo, collettivismo e innovazione? Secondo i ricercatori americani Gorodnichenko e Roland (per approfondimenti si veda il loro articolo «Individualism, innovation, and long-run growth», 2011, scaricabile qui: https://goo.gl/j8VMoR), la visione individualistica identifica come valori fondanti la libertà personale e l’autorealizzazione personale. In tale ottica, una cultura individualista tende ad attribuire uno status superiore a chi è in grado di generare innovazioni rilevanti, quali importanti scoperte, nuovi prodotti o grandi risultati artistici.

Tuttavia, l’individualismo può rendere più difficile l’azione collettiva, poiché gli individui perseguono il proprio interesse senza considerare come rilevanti i bisogni collettivi. Il collettivismo, al contrario, rende più facile l’azione collettiva, nel senso che la cultura attribuisce uno status superiore a chi è in grado di garantire e sostenere gli obiettivi del gruppo, e però ciò incoraggia anche il conformismo e scoraggia le persone dal distinguersi. Questo quadro implica che l’individualismo incoraggi maggiormente l’innovazione; ma senza una visione collettiva che sia in grado di integrare l’innovazione all’interno della visione e dei bisogni della cultura, questa difficilmente riesce a imporsi e a diventare dominante.

Secondo Henrich, la base di questa differenza nasce all’interno dei diversi tipi di agricoltura presenti nei due emisferi. Se nel mondo occidentale prevale la coltivazione del grano, che può essere effettuata da gruppi familiari indipendenti, nel mondo orientale prevale la coltivazione del riso, che richiede una intensa collaborazione tra i nuclei familiari, favorendo e rafforzando le norme sociali di stampo collettivista. 

Tuttavia, se l’individualismo favorisce la nascita dell’innovazione, non è sufficiente per trasformarla in un fenomeno sociale. Infatti, l’impatto dell’innovazione dipende da quanto l’innovatore è in grado di collocarla all’interno dei bisogni e delle necessità della cultura in cui è inserito . È questo il principale problema dell’innovatore trasgressivo: riuscire a capire e ad adattare la trasgressione al contesto in cui vive.

Per questo, l’innovatore di successo deve integrare contemporaneamente due macrodimensioni psicologiche. Nella prima, abbiamo la trasgressione e l’individualismo che gli permettono di proporre una nuova visione, rompendo le regole preesistenti, e di imporla anche davanti allo scetticismo degli altri. Nella seconda, abbiamo l’empatia e la comprensione, che gli permettono di collocare l’innovazione all’interno dei processi e dei bisogni della rete sociale di cui egli è parte.

 

BOX 1 - IL POST-IT

Un esempio sul nesso innovazione-società proviene sempre dalla storia del post-it. Come abbiamo visto, la scoperta che ha permesso la realizzazione del post-it – una colla che non incolla del tutto – è il risultato di un errore commesso nel 1968 da uno dei ricercator di 3M, Spencer Silver, che stava cercando di creare un nuovo adesivo. Tuttavia, per molti anni, Silver non riuscì a capire come utilizzare la propria invenzione. Solo a metà degli anni Settanta un collega di Silver, Arthur Fry, si accorse che quella colla sarebbe stata perfetta per realizzare dei segnalibri che non sarebbero mai caduti da un libro, senza tuttavia incollarvisi troppo. E se ne accorse nel modo più coerente possibile con quanto abbiamo visto: cercando di risolvere un bisogno della propria comunità di riferimento. 

Fry, infatti, era membro del coro della North Presbiterian Church di North St. Paul e si confrontava ogni domenica con un problema ben concreto: riuscire a trovare velocemente nel libro dei canti le diverse canzoni proposte durante la funzione. Il coro utilizzava da tempo dei segnalibri, ma spesso essi cadevano dal libro, obbligando i membri del coro a ricerche dell’ultimo minuto per trovare la canzone giusta. L’intuizione di Arthur Fry è stata quella di pensare che la colla del collega sarebbe stata perfetta per mantenere attaccati i segnalibri alle pagine, pur potendo spostarli all’occorrenza. In quell’ottica è stata l’unione di diversi mondi – individualismo ed empatia, trasgressione e tenacia – a rendere il post-it un successo da cinquanta miliardi di pezzi all’anno.

 

GENI E MENTORI

Una delle descrizioni più interessanti del legame tra queste diverse dimensioni è stata recentemente proposta da Mark Zuckerberg nel discorso di accettazione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Harvard, che egli aveva lasciato molti anni prima di laurearsi per fondare Facebook (il testo completo del discorso è visibile qui: https://goo.gl/1qbTKj). Ci dice Zuckerberg: «Oggi vi voglio parlare di scopi. La sfida, per la nostra generazione, è di creare un mondo in cui ognuno abbia un proprio scopo. Avere uno scopo significa far parte di qualcosa di più grande di noi stessi, di essere necessari, di avere qualcosa di meglio per cui lavorare. Lo scopo è ciò che crea la vera felicità. Per far progredire la nostra società, abbiamo una sfida generazionale: non solo creare nuovi posti di lavoro, ma ridare la possibilità di lottare per uno scopo. Non basta avere un proprio scopo. Bisogna anche aiutare gli altri a trovarlo». 

In queste parole ritroviamo le due dimensioni che permettono l’innovazione: la capacità di lottare per un obiettivo e la capacità di sceglierlo in modo che sia più grande di noi stessi.

Poi Zuckerberg continua raccontando la genesi dell’innovazione: «Ma lasciate che vi racconti un segreto: nessuno ha le idee chiare quando inizia. Le idee non escono completamente formate. Diventano chiare solo quando ci lavori sopra. Devi solo iniziare… I film e la cultura pop si sbagliano completamente. L’idea che ci sia un “Eureka!”, una singola intuizione, è una bugia pericolosa. Ci fa sentire inadeguati poiché non abbiamo avuto la nostra. Impedisce alle persone con i semi di una buona idea di iniziare». Come raccontava già molti anni prima Thomas Edison, l’innovazione è 1% ispirazione e 99% traspirazione, cioè sudore, fatica. 

La parte finale del discorso si sofferma invece sul principale problema dell’innovatore: in quanto portatore di una nuova visione e quindi “trasgressore” delle regole precedenti, rischia di essere solo: «È bello avere una visione. Ma siate pronti ad essere fraintesi. Chiunque stia lavorando su una grande visione verrà chiamato pazzo, anche se raggiunge il suo obiettivo. Chiunque lavori su un problema complesso verrà accusato di non aver capito completamente il problema, anche se è impossibile conoscere tutto in anticipo. Chiunque prenda l’iniziativa verrà criticato perché si muove troppo velocemente, perché c’è sempre qualcuno che vuole rallentarti… La realtà è che tutto ciò che facciamo avrà dei problemi in futuro. Ma questo non può impedirci di iniziare».

Non è un caso che molti grandi innovatori siano arrivati al successo dopo aver trovato sulla loro strada qualcuno che ha capito il loro potenziale e li ha aiutati a sfidare le critiche del tempo. Per esempio, nel mondo dell’arte numerosi artisti hanno trovato il successo soltanto con l’aiuto di uno o più mentori in grado di collocare le loro opere all’interno dello spirito del tempo. E in alcuni casi, come per Van Gogh, il successo è arrivato solo dopo la loro morte.

Come racconta Walter Isaacson nella sua biografia di Steve Jobs, anche un personaggio così innovativo e trasgressivo deve il proprio successo al supporto di diversi mentori. Il primo fu Robert Noyce, coinventore del circuito integrato e fondatore di Intel, che aiutò Jobs a trasformare la Apple da una piccola società con sede in un garage a una grande real­­tà della Silicon Valley. Il secondo fu Kobun Chino Otogawa, un monaco zen che oltre a celebrarne il matrimonio, lo aiutò a superare la fase più difficile della sua vita professionale. Nonostante Steve Jobs sia stato uno dei fondatori di Apple e fino a poche settimane prima della sua morte – nel 2011 – ne sia stato l’amministratore delegato, nel 1985 lasciò infatti la società dopo un ridimensionamento significativo del suo ruolo in azienda. Grazie all’aiuto di Kobun Chino Otogawa, Jobs riuscì a rimettersi in gioco. Prima creando una nuova società informatica – la Next –, poi comprando la Pixar, casa di produzione cinematografica dietro a un successo come il film d’animazione Toy Story.

In conclusione, la psicologia ci conferma che l’innovatore è un trasgressore, un individualista capace di superare le regole preesistenti e di analizzare con occhi nuovi un prodotto o un processo. Tuttavia, la trasgressione da sola non basta, se non è accompagnata dalla capacità di usarla per risolvere i problemi e/o i bisogni della rete sociale di cui si è parte. E se l’inventore non ci riesce da solo, un mentore in grado di vedere la rottura delle regole con occhi diversi può fare la differenza.

BOX 2 - Caravaggio, genio e trasgressione

Nato a Milano nel 1571, Caravaggio è uno degli esponenti più rilevanti della pittura barocca. Trasgredendo i canoni del suo tempo, egli rappresenta per la prima volta delle figure sacre sottolineandone non la perfezione, quanto piuttosto l’umanità. A caratterizzare i personaggi sacri della pittura di Caravaggio è infatti la loro dimensione emotiva, resa evidente da un sapiente gioco di luci e ombre. A ciò si associa la descrizione cruda della scena, caratterizzata da corpi tesi, muscoli contratti e veraci scene di vita quotidiana che sottolineano le difficoltà e l’imperfezione della società del tempo.

In Caravaggio la trasgressione nella pittura era accompagnata dalla trasgressione delle regole della vita sociale. Denunciato più volte per ubriachezza e risse, ferisce un notaio per una faccenda di donne e deve scappare a Genova. L’anno dopo arriva a Roma, dove, sfidato a duello, uccide l’avversario. Riconosciuto colpevole, viene condannato alla decapitazione e costretto a diventare un fuggitivo.

A trasformare il trasgressore Caravaggio nel genio della pittura che conosciamo è stata la visione del cardinale Francesco Maria del Monte. Fu del Monte a capire che la pittura caravaggesca sarebbe stata perfetta per incarnare la svolta pauperista all’interno della Chiesa cattolica, riducendo la distanza che la separava dal popolo. Ed è proprio grazie ai due dipinti commissionati dal cardinale – La vocazione e Il martirio di San Matteo – che Caravaggio raggiungerà la fama.

 

Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media (Il Mulino, 2014).

www.giusepperiva.com

Questo articolo è di ed è presente nel numero 271 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui