Liliana Dell'Osso, Riccardo Dalle Luche

Suicidio assistito nelle malattie mentali: una proposta anacronistica

Gli psichiatri spesso si trovano ad affrontare pensieri di morte e persino tentati suicidi elaborati da loro pazienti: in essi devono saper cogliere il grido più o meno soffocato di un bisogno di cura.

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Il caso della ragazza olandese Noa ha scosso l’opinione pubblica sulla questione dei limiti entro i quali un malato terminale possa decidere di morire volontariamente. Si è parlato impropriamente di eutanasia: in effetti, si è trattato solo del rifiuto delle cure, di alimentarsi e idratarsi, e quindi di un lento suicidio senza assistenza da parte di una paziente che era già stata trattata senza consenso per oltre sei mesi in un reparto psichiatrico e che si era vista respingere la richiesta di eutanasia, legale. Rispetto ai casi mediatici di Welby e di DJ Fabio, e anche di Lucio Magri, la particolarità di questo caso è che si tratta di una giovane di 17 anni, quindi ancora minorenne, affetta da un disturbo mentale grave (un disturbo post-traumatico da abusi sessuali sfociato in anoressia e depressione), che, tuttavia, non può certamente essere considerata una malata terminale. (CONTINUA...)

Per le caratteristiche, frequenti nei nostri pazienti, quali la suggestionabilità e il bisogno di ascolto, notizie come queste possono suscitare quello che a suo tempo, per l’ondata di suicidi avutasi dopo la pubblicazione del romanzo di Goethe, fu detto “effetto Werther”, cioè la spinta o la fantasia di imitazione. Una paziente ci scrive infatti, pochi giorni dopo la morte di Noa, in un messaggio telefonico: «La vita migliore è la morte sotto anestesia, vorrei tanto morire così e non ho e non mi danno modi per vivere bene. Voglio decidere di morire come Noa; voglio stare bene come sta sicuramente lei».

 I DIRITTI FRA POLITICA E PSICHIATRIA 

La vita di ogni psichiatra si confronta quotidianamente con pensieri di morte, fantasie di morte e anche tentati suicidi, che spesso rappresentano un segnale della necessità di una cura; la depressione in particolare trascina la falsa idea che la morte sia una soluzione a vite infelici, a situazioni apparentemente irrisolvibili, a eventi giudicati irrimediabili. Per fortuna, la maggior parte di queste idee è passeggera, oppure si tratta di mere fantasie che in qualche modo offrono una consolazione al dolore attuale. Per fortuna, chi le esprime generalmente non ha il coraggio di passare all’azione, perché tutti gli uomini, anche quelli più avanti con gli anni, i malati in generale e i pazienti gravemente depressi, hanno una grande paura di morire e anche di aggiungere sofferenza a sofferenza. Per fortuna, la quasi totalità di questi pensieri è riassorbita nella relazione di cura e spesso restano dei ricordi ai quali ci si rivolge con ironico distacco, o che più spesso scompaiono nel nulla, come dal nulla sono venuti.

Altre situazioni, forse ancora più critiche, con cui ci confrontiamo come psichiatri sono i gesti suicidi di taluni psicotici non trattati e alcune rare condizioni terminali di anoressie restrittive, nelle quali l’ideale della magrezza e il timore fobico del cibo o la convinzione della sua tossicità portano a condizioni psicofisiche gravissime, che sfuggono al controllo delle stesse pazienti. In questi casi gli psichiatri devono lavorare in integrazione con gli internisti e talora con i rianimatori per evitare che la paziente si lasci andare fino alla morte. Talvolta, in casi del genere, si pone il problema dell’obbligatorietà protratta della cura in una condizione che in senso stretto non rientra nei criteri del TSO quale usualmente viene inteso e applicato. Ciò nondimeno, anche nelle situazioni estreme il rapporto con tali pazienti è sempre possibile e il consenso ai trattamenti resta valido, tant’è che, quando manca, anche per le condizioni fisiche estreme, dev’essere vicariato da misure obbligatorie.

Vi è un consenso diffuso in Italia sulle disposizioni anticipate di trattamento (Legge 219 del 22.12.2017) che, applicate al fine vita, possono prevedere anche la rinuncia a trattamenti inefficaci. In un bellissimo film canadese del 2003, Le invasioni barbariche, di Denys Arcand, uno dei protagonisti, affetto da una neoplasia terminale, vi ricorre in un rituale sereno, circondato dai parenti e dagli amici di sempre: un esempio che molti italiani laici potrebbero voler seguire. Ma in Italia c’è un consenso molto forte sul fatto che le malattie mentali debbano essere escluse totalmente dalla sospensione dei trattamenti, anche senza il consenso del paziente.

Questa consapevolezza dell’opportunità dell’obbligo di cura verso un paziente affetto da una patologia psichiatrica è ubiquitariamente condivisa da tutti i professionisti della salute mentale, ma è sorprendentemente ignorata dalla politica, che non ha davanti la persona da curare e che ragiona sulla base di considerazioni generali e astratte, quali sono i “diritti”. Siamo in un’epoca in cui si riparla di cose che sembravano seppellite per sempre: tra queste la discussione, già avvenuta cent’anni fa, se anche le malattie psichiatriche (come altre malattie neurologiche in fase terminale, come la SLA, per esempio, o stati di coma vegetativo, tetraplegie o alcune condizioni neoplastiche) configurino una vita «indegna di essere vissuta» (riprendendo la triste locuzione del manifesto medico-legale a favore dell’eutanasia, di Binding e Hoche, del 1922), tale da muovere l’interessato e i suoi parenti a cercare di interromperla con il consenso della legge.

 IN ITALIA, IN EUROPA 

Tuttavia, non bisogna ignorare i segnali politici che vengono da altri Paesi. L’eutanasia, in Olanda, è stata legalizzata nel 2002 ed è applicabile ad ogni tipo di “sofferenze insostenibili” e irreversibili, tra le quali anche quelle di alcuni, rari pazienti psichiatrici. In una revisione, Kim Scott, del National Institutes of Health di Bethesda, ha analizzato i documenti relativi a 66 pazienti psichiatrici cui in Olanda è stata concessa la morte volontaria assistita tra il 2011 e il 2014: nonostante le Commissioni avessero riscontrato un solo caso in cui i criteri di accuratezza sanciti dalla legge non erano stati rispettati, un paziente su 10 non aveva ricevuto alcun appoggio esterno da parte di uno psichiatra. In quasi un quarto dei casi, inoltre, i medici avevano espresso opinioni discordanti. 

In Europa, la morte volontaria assistita è legale, secondo modalità e criteri diversi, non solo in Olanda, ma anche in Belgio, Svizzera e Lussemburgo. In Svizzera, la Corte Suprema ha aperto la strada del suicidio assistito ai malati psichiatrici con una sentenza che equipara i gravi disturbi mentali a quelli fisici. Nel nostro Paese, se si contano 60 persone affette da stati fisici terminali che nel 2017 si sono decise all’ultimo viaggio, si è a conoscenza di un solo caso di una paziente depressa che ha fatto ricorso al suicidio assistito, in Svizzera, con la mediazione di alcune associazioni e gruppi di volontari, i quali sono stati denunciati dai familiari per istigazione al suicidio.

In Italia l’associazione più nota coinvolta su tale tema è quella di Marco Cappato; il giudizio penale su quest’ultimo, imputato di favoreggiamento del suicidio nel caso di DJ Fabio, è stato sospeso in attesa dell’approvazione di una legge da parte del Parlamento, ove sono in discussione cinque diverse proposte. La proposta dell’associazione Marco Cappato, in modo piuttosto inquietante, non esclude che possano esistere casi gravi di sofferenza psichica incurabile per i quali potrebbe essere riconosciuto – a persone che si dimostrino in grado di intendere e di volere – di scegliere di terminare la propria vita, pur nella consapevolezza che «la sofferenza psichica può essere tale da rendere poco lucida la persona che affronta una scelta, e quindi è più difficile accertare come questa sia in grado di intendere e di volere».

Cappato esprime comunque una cautela, sebbene nel contesto di un ragionamento che riteniamo terribile: «Una scelta del genere può essere fatta da Paesi e sistemi sanitari che abbiano innanzitutto accumulato un’esperienza sull’eutanasia per malati terminali, quindi di natura fisica. Sulla base di quell’esperienza, si può aprire questa possibilità gradualmente e controllando in modo molto rigoroso il rischio di non prestare il fianco ad abusi o leggerezze».

 L'INACCETTABILITÀ DI QUESTA DISCUSSIONE OGGI 

Un secolo fa un importante psichiatra italiano, Enrico Morselli, entrò nel dibattito tutto tedesco, scandinavo e nordamericano sull’«uccisione pietosa» dei malati terminali, considerandone i pro e i contro ma finendo per assumere una posizione assolutamente critica verso concetti come quello di «vite indegne di essere vissute». Non solo noi psichiatri italiani di oggi non possiamo non concordare con la saggia posizione espressa da Morselli, ma dobbiamo sostenerla con la forza e la consapevolezza che grazie agli attuali trattamenti psicofarmacologici e psicosociali il decorso dei disturbi mentali e la qualità della vita di chi ne è affetto sono enormemente migliori rispetto ad allora. L’ideazione suicidaria e la volontà di morte di alcuni dei nostri pazienti, non solo esito di decorsi prolungati e di risultati terapeutici insoddisfacenti, non possono essere considerate una volontà, ma un sintomo: la morte volontaria diventa un pensiero attraente, una risoluzione per certi pazienti depressi gravi, dopo mesi o anni di malattia; ma questa soluzione, come si vede nei sopravvissuti ai tentati suicidi, è spesso una risoluzione momentanea, una fantasia di liberazione, piuttosto che una decisione consapevole; a noi psichiatri spetta con ogni mezzo di combatterla, non certo di assecondarla.

In psichiatria non esiste la condizione “terminale”, semplicemente perché la quasi totalità dei disturbi mentali è “funzionale”, cioè non è dovuta a lesioni organiche cerebrali permanenti. È noto fin dai tempi di Kraepelin e degli studi di decorso pluridecennali sulle schizofrenie degli anni Settanta, di Manfred Bleuler e Gerd Huber, che persino determinate forme croniche possono guarire dopo decenni di malattia, ed è esperienza comune degli psichiatri di una certa età aver visto guarire o comunque migliorare dopo molti anni pazienti gravi, anche in presenza di sintomi neurocognitivi apparentemente irreversibili.

I vecchi clinici, tra i quali i nostri, dicevano che la depressione guarisce sempre, in quanto per sua natura tende alla episodicità; ora possiamo dire che tutti i disturbi mentali, se non guariscono, quantomeno si attenuano, fino a diventare compatibili con una vita sociale, seppur protetta dai presìdi della riabilitazione sociale. Inoltre i nuovi psicofarmaci liberano i malati anche dal peso di importanti effetti collaterali, cosicché pure la qualità della vita dei pazienti più gravi e cronici è oggi nettamente migliorata e può addirittura comportare meno sofferenze di quante se ne abbiano in alcune esistenze difficili, ancorché “normali”.

Il discorso può essere allargato al grosso capitolo dei disturbi in età evolutiva, per i quali è presente oggi una progettualità di interventi integrati (scuola/servizi di neuropsichiatria) che porta alla valorizzazione delle risorse di questi futuri adulti fino al loro inserimento sociale; ciò per non parlare delle situazioni cosiddette “sotto-soglia” (per esempio, lo spettro autistico sotto-soglia), nelle quali i raggiungimenti cognitivi dei pazienti in aree definite possono essere anche molto al di sopra di quelli della normalità, e che comunque richiedono l’attuazione di una continuità assistenziale con i servizi di salute mentale degli adulti.

In conclusione, questo dibattito sul suicidio assistito in ambito psichiatrico ci appare anacronistico e frutto di pregiudizio, se non di ignoranza, rispetto alle pratiche cliniche e professionali nel campo della salute mentale. Esso inoltre può essere eticamente e mediaticamente pericoloso perché può rafforzare in alcuni malati atteggiamenti che vanno a svantaggio della fiducia nella possibilità di cura e di quella dimensione fondamentale dell’operare nella salute mentale che è la collaborazione medico-paziente finalizzata alla guarigione. Riteniamo pertanto che in nessun caso le proposte di legge attualmente in discussione in Parlamento debbano riguardare i disturbi psichici e che tutti gli interessati (associazioni professionali e associazioni dei pazienti) esprimano consensualmente una posizione decisa in questa direzione.


Liliana Dell’Osso è direttore dell’Unità Operativa di Psichiatria dell’Università di Pisa e direttore del Collegio nazionale dei professori universitari di Psichiatria.

Riccardo Dalle Luche è un dirigente medico ad alta specializzazione di ASL Toscana Nordovest - Zona Apuana.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui