di: Paola A. Sacchetti
Ognuno su una barricata. Posizioni opposte e impossibilità di capirsi e comunicare
In queste settimane stiamo assistendo a una variante degli scontri verbali, e non solo, tra chi è “pro” e chi è “contro”: dopo le bagarre tra pro-vax e no-vax, pro-green pass e no-green pass, ora a occupare i palinsesti televisivi e gli articoli di cronaca c’è la guerra in Ucraina e le posizioni di chi è favorevole a fornire gli aiuti militari e chi no, di chi è filo-americano e chi filo-putiniano, chi è per la pace tout court, in termini gandhiani, e chi per la pace in termini di resistenza anche armata, se necessaria.
Senz’altro rimanere equidistanti, non avere o prendere posizione non è possibile, e pur chi è contro qualsiasi guerra ammette che esistono guerre più legittime di altre. In questa sede non è opportuno, né abbiamo le giuste competenze, entrare nel merito delle specifiche posizioni morali, etiche, giuridiche o politiche, ma è innegabile che le posizioni che si esprimono sono inconciliabili e lo scontro a cui stiamo assistendo non riguarda solo il conflitto in Ucraina, ma anche i vari opinionisti ed esperti chiamati a parlarne.
Ognuno è sulla propria barricata, sordo a qualsiasi altra opinione o punto di vista. Come tra no-vax e pro-vax, sembra che sia più l’ideologia e la presunzione di possedere la “verità” e l’unica posizione giusta a guidarci, impedendo di fatto ogni confronto e qualsiasi dialogo. Oggi stiamo assistendo anche al rifiuto di ogni possibile critica o dubbio: chi si espone ponendo una critica lecita viene tacciato per filo putiniano e messo alla gogna.
Dott. Di Pirro, quali sono le motivazioni psicologiche che spingono le persone ad aderire all’una o all’altra posizione in modo così netto? Dipende dal fatto che stiamo affrontando un conflitto “vicino” e più “sentito” rispetto alle altre guerre nel mondo?
Una volta prendere una posizione era un privilegio per pochi, non era facile poter esprimere liberamente il proprio punto di vista, si era più condizionati dalle differenze di cultura, di classe sociale e anche dagli stili educativi più rigidi e repressivi; motti del tipo “usi obbedir tacendo...” hanno fatto la loro storia e oggi sarebbero difficilmente riproponibili.
Prendere una posizione presuppone la capacità di pensare e di riflettere, di elaborare un pensiero, di saperlo esprimere e manifestare, ed è questo un presupposto importante per contribuire a risolvere i problemi e a non subirli, perché spesso le difficoltà sorgono e si cronicizzano proprio perché vengono subite, non identificate, senza proporre soluzioni. Aderire a una posizione è, dunque, un fatto decisamente positivo, un atto di libertà ma anche di responsabilità, che richiede di saper esternare il proprio punto di vista senza imporlo, favorendo un confronto aperto e dinamico con altri pareri e opinioni, consapevoli che ogni contributo è utile se propositivo.
Gli eventi più recenti e attuali che hanno catalizzato l’attenzione mediatica sono di rilevanza tale che se ne parla molto, a volte troppo, mettendo in evidenza le varie posizioni assunte al riguardo, da quelle più moderate a quelle più nette ed estreme. Anzi, è emerso come, sempre più spesso, si è portati ad assumere posizioni estreme, anche in modo acritico, senza un’adeguata attenzione alle dinamiche che caratterizzano un evento e con un’intransigenza che va ben oltre le caratteristiche, positive, della tenacia e della perseveranza. Si arriva a chiudersi nella propria posizione, come in una roccaforte di sicurezza, a non cedere, nemmeno parzialmente, per raggiungere un compromesso, per cercare un terreno comune in cui confrontarsi e guardare oltre le differenze di idee, di appartenenza. In effetti assumere posizione nette, intransigenti, rasenta spesso la testardaggine. Ritengo che ciò può essere indicativo più di incertezza interiore, di chiusura più che di “profonda convinzione”, e aderire a una scelta in modo indiscutibile, imponendo la propria verità come assoluta, mina i ponti della comprensione.
Certamente il conflitto in Ucraina, così vicino e diretto, con le forti ripercussioni socio-politiche ed economiche e i timori legati ai possibili sviluppi che ne possono derivare, induce un clima di grande indeterminatezza e instabilità. L’essere umano ha invece bisogno di certezze e di stabilità e, quando vengono a mancare, si avverte un senso di minaccia e di destabilizzazione: questo può portare anche a diventare rigidi e intransigenti, ad assumere una posizione e affermarla persino a fronte di prove che confutano le convinzioni che la sostengono. È difficile comprendere e accettare l’incertezza, specie nella nostra società occidentale, ove si è promossa l’idea che è possibile tenere tutto sotto controllo, che bisogna sempre cercare o pretendere risposte e soluzioni immediate, dimostrando una vera e propria intolleranza all’incertezza.
Ci stiamo muovendo all’interno delle dinamiche in-group e out-group delineate dalla psicologia sociale, nella categorizzazione sociale del “noi” contro “loro”, che trova svariate esemplificazioni nell’attualità, dai vaccini agli immigrati, alla guerra? Basta la teoria dell’identità sociale a spiegare queste contrapposizioni sempre più rigide e inconciliabili?
Ritengo opportuno fare una breve premessa. Kurt Zadek Lewin, considerato “il padre della psicologia sociale”, definiva il gruppo come una totalità dinamica basata sull’interdipendenza. Ognuno di noi ha “bisogno di appartenere”. Lo stesso Maslow sosteneva che l’appartenenza rappresenta uno dei maggiori bisogni che motiva il comportamento umano e la colloca al centro della sua famosa piramide come parte dei bisogni sociali. Secondo Maslow, bisogni e motivazioni hanno lo stesso significato e si strutturano in una sorta di progressione per gradi, per cui il passaggio a uno stadio superiore può avvenire solo dopo la soddisfazione dei bisogni di livello inferiore.
All’interno dei gruppi, l’individuo funziona allo stesso modo e sceglie di diventarne membro per soddisfare dei bisogni che vanno da quelli più basilari, di sicurezza, a quelli più elaborati, di stima e di realizzazione personale. Il senso di appartenenza porta l’individuo a percepirsi come membro di quel gruppo e di partecipare con gli altri nel condividere le scelte e le modalità comportamentali nella sua totalità. All’interno di un gruppo, l’uso del “Noi”, per esempio, è un segnale linguistico di questo senso di appartenenza e caratterizza il passaggio dall’essere “un insieme di individui” all’essere “gruppo”, come pure, dall’esterno, l’identificare un gruppo (politico, religioso, sportivo, ludico) fa riferimento a un’entità riconosciuta, identificabile. Appartenere a un gruppo offre la possibilità di sentirsi parte di un qualcosa di più grande e più importante di sé stessi.
Oggi stiamo assistendo, grazie anche al potere “amplificante” dei media, a dinamiche intergruppo estremamente risonanti sul piano sociale ed emotivo, in riferimento alle correnti di pensiero che si muovono attorno agli argomenti di attualità. Queste dinamiche rimandano certamente ai concetti di in-group e out-group, terminologia proposta da Henri Tajfel e colleghi a partire dagli anni ’70 durante il loro lavoro di formulazione della Teoria dell'identità sociale. Questa teoria rappresenta, in effetti, uno dei principali modelli esplicativi della psicologia sociale. Partendo dalle modalità di costituzione dei processi di discriminazione e autosegregazione funzionale nei gruppi umani (il paradigma dei gruppi minimali), Tajfel osservò che, suddividendo in maniera completamente casuale e arbitraria dei soggetti sperimentali in due gruppi, differenziati da variabili minime e superficiali (come la preferenza per un artista), i soggetti assegnati ai due gruppi iniziavano spontaneamente ad autopercepirsi come gruppo diverso, migliore e contrapposto all’altro, e i membri del proprio gruppo venivano subito genericamente “preferiti” rispetto a quelli dell’altro gruppo (fenomeno del favoritismo). Ciò a conferma che vi è una spiccata tendenza degli esseri umani a creare distinzioni “noi/loro”, anche basando la distinzione su motivazioni semplici.
Ma questo non credo che basti a spiegare il senso di contrapposizioni sempre più rigide e inconciliabili. Stiamo assistendo a un dilagarsi della “cultura del nemico”, a un bisogno di categorizzare il mondo in buoni e cattivi. Mi viene da pensare al meccanismo di difesa della scissione, che caratterizza le prime fasi dell’età evolutiva, ma che oggi appare piuttosto diffuso pure tra gli adulti, specie quando ci riferiamo ai fenomeni di massa complessi e percepiti come minaccia al bisogno di sicurezza, al bisogno di verità, a quello di giustizia. Allora si scatena subito un’attivazione collettiva con schieramenti contrapposti di pro e di contro, che cercano motivazioni e responsabilità, perché la mente umana ha bisogno, giustamente, di sapere, ma a volte si cercano risposte certe e immediate piuttosto che aspettare i tempi necessari a valutazioni più obiettive e ponderate. Questo meccanismo di scissione psicologica porta gli schieramenti a identificare un nemico esterno e ad assumere posizioni nette, che non ammettono equidistanze, mediazioni, aperture verso chi la pensa in modo diverso.
Peraltro, un altro problema che oggi è tangibile è che non si sa/vuole ascoltare e lo si fa sempre meno e così ci si arrocca sulle proprie posizioni, in attesa che l’altro esprima il proprio parere solo per ribattere e giudicare. La mancanza di ascolto è una vera prepotenza psicologica, perché viene percepita dall’interlocutore come una forma di svalorizzazione, di non riconoscimento, di attacco, e ciò induce risentimento, fa sentire l’altro ancora più “out”: noi contro loro, ma anche loro contro noi.
Ritengo che alla base di questo ci sia, come detto, anche una dilagante paura dell’incerto. È percepibile un profondo senso di instabilità sociale ed economica, ma anche di impotenza, frustrazione e rabbia, perché nessuno, a tutt’oggi, è in grado di definire gli scenari futuri connessi alla guerra in Ucraina, o se in autunno avremo un’altra impennata di Covid. L’eccessiva quantità di opinioni e informazioni, specie quando ostentate come verità assolute, non bastano a sedare la paura dell’incerto. Su questo sfondo si sviluppano idee, congetture e quindi posizioni, di pro e di contro, anche ricorrendo ad argomentazioni articolate da parte dell’esperto di turno: ciò genera grande confusione e aumenta il bisogno di capire qual è la posizione giusta in questo mondo che non appare più così sicuro.
A cosa è dovuto questo graduale e inarrestabile processo di estremizzazioni delle posizioni?
Si estremizza una posizione quando si segue la logica del “con me o contro di me”, attraverso una narrazione degli eventi che segue un pensiero dicotomico che non prevede sfumature o mezze misure, per cui i punti di vista discordi, anziché essere motivo di arricchimento, sono motivo di conflitto. Allora tutto ciò che appare diverso induce apprensione e repulsione, con la conseguenza che non si è disposti ad accogliere, senza necessariamente condividerle, opzioni alternative alla propria e si rimane quindi fermi sui propri principi. Il clima di indeterminatezza che caratterizza questo periodo sta mettendo in discussione molte delle nostre certezze che si erano strutturate negli anni e rende difficile ogni previsione, generando dubbi e perplessità. Un problema, una situazione vanno analizzati basandosi su dati in più possibile certi e documentabili, con competenza, piuttosto che su libere opinioni/sensazioni e, spesso, senza la preparazione necessaria. È importante poter contare su una propria idea/interpretazione, ma che magari tenga conto dei diversi punti di vista, nella consapevolezza che, di fronte a un dubbio e a un’incertezza non sempre è possibile una risposta esaustiva e tempestiva e che il contributo dell’altro allarga la conoscenza di un problema/situazione. Ma è proprio nell’“indefinito” che possono invece diffondersi valutazioni semplicistiche, limitate all’apparenza, tese a fornire risposte immediate, condizionate dall’emotività piuttosto che dalla ragionevolezza, ostentate con caparbietà e tracotanza fino a estremizzare la propria posizione.
A questo si aggiunge anche il fatto che spesso assistiamo a dibattiti in cui anche persone non proprio competenti tendono a imporre le proprie idee anziché limitarsi a fornire un parere, ritenendole verità inconfutabili (il cosiddetto effetto Dunning-Kruger), e considerando gli altri, anche se più competenti, meno preparati. Naturalmente questo genera ulteriore confusione. In tale contesto, ogni tentativo di fornire spiegazioni basate su presupposti diversi viene percepito con diffidenza, come un modo di non dire la verità, scatenando senso di frustrazione e rabbia che portano a ulteriori irrigidimenti delle posizioni. Così nei dibattiti, quando non si condividono punti di vista differenti, le emozioni e le esperienze, c’è sempre il bisogno di prevaricare, avere l’ultima parola, e la propria posizione è sentita come l’unica e “sicura” lente attraverso la quale guardare e giudicare il mondo. Questa condizione di dissonanza cognitiva porterà a una maggiore chiusura e a una scarsa propensione a valutare delle alternative, perché ogni opzione verrebbe percepita come fonte di sofferenza, dal momento che entrerebbe in conflitto con la propria posizione, e ciò limita la comprensione di quello che succede e la considerazione delle varie possibilità.
Tale situazione rimanda al concetto di chiusura collettiva, sviluppato da Kruglanski, che corrisponde al desiderio di dare una risposta rapida a fronte di situazioni dal contenuto confuso o ambiguo. Coloro che hanno un forte bisogno di chiusura cognitiva fronteggiano l’incertezza avvalendosi delle informazioni disponibili e, attraverso queste informazioni, traggono le conclusioni che diverranno immutabili; se le informazioni sono errate, possono arrivare a difendere posizioni sbagliate. Più ridotto è il repertorio prospettico del soggetto, maggiore è l’ansia provocata dalle minacce e dall’incertezza e allora si è portati a cercare una risposta rapida, unica e univoca, che viene difesa a oltranza, dando origine a modi sconnessi di pensare, a vere e proprie distorsioni cognitive che si manifestano poi con il sostenere e diffondere congetture connotate da speculazione, generalizzazione, massimizzazione, fino al catastrofismo. A queste condizioni come ci può essere empatia? Nessuno è disposto a fare i piccoli passi necessari per affacciarsi oltre la propria zona di comfort, si tende a mantenere, e anzi anche allargare, il divario. La principale conseguenza di questo atteggiamento la si ritrova poi nei confronti diretti, in cui finisce sempre per emergere un vincitore e uno sconfitto.
Si stanno leggendo vari commenti di persone apertamente no-vax che, abbandonata la “battaglia” contro la “dittatura sanitaria” dei vaccini, ora appoggiano il presidente russo: un filo-putiniano ha un “profilo psicologico” simile a quello di un no-vax? Quali sono i tratti psicologici in comune?
Premetto che non ho nulla contro questa o quella posizione e, come ho detto, le divergenze di idee vanno accolte sempre favorevolmente quando incoraggiano il dialogo e sono necessarie in quanto solo dai confronti nascono nuove idee. Un soggetto predisposto all’apertura mentale sarà meglio disponibile ad accogliere prospettive differenti e, di conseguenza, a tollerare anche quelle nuove che gli si presentano.
Ho dei dubbi, invece, sull’utilità di quelle posizioni rigide che sono “contro o pro a prescindere”, dove predominano le motivazioni e le valutazioni vaghe, sostenute più da spinte emotive o impulsive e scarsa cognizione.
Effettivamente diverse testate giornalistiche hanno posto l’attenzione su questo fenomeno di transizione dai no-vax ai filo-putiniani. Dal Covid all’Ucraina, dal Green Pass a Putin, specie sui social, si sta evidenziando questo “salto” da parte sia di singoli utenti che di gruppi, accomunati da uno spiccato disaccordo con le Istituzioni (Europa, NATO, Governo) e da estrinsecazioni apertamente anti-americane.
Un altro aspetto affine a questi due gruppi può essere un misto di paura di essere sotto controllo o di non essere adeguatamente rappresentati dai propri referenti politici, di sfiducia verso la scienza, verso la politica o la società.
Abbiamo visto che queste situazioni incerte, critiche, portano ad assume posizioni il più delle volte senza un’adeguata cognizione e consapevolezza delle dinamiche socio-politiche che stanno dietro a complesse questioni, quali la pandemia e il conflitto in Ucraina. Aderire a una posizione netta, assoluta, disimpegna dal riflettere e dal pensare e anche dal confrontarsi, dal dedicarsi a considerare chi non la pensa allo stesso modo.
Si condividono posizioni nette anche dove è carente l’autostima e certi fenomeni di affiliazione si verificano laddove il gruppo, come un buon contenitore, accoglie e “protegge” gli individui più dubbiosi e insicuri, li valida, li accetta e li aiuta a brillare di una sorta di “luce riflessa”, dal momento che, se il gruppo brilla anche i suoi membri brillano. Nei casi più intransigenti, si gioca tutto all’esterno, c’è bisogno di un nemico su cui convogliare le paure, le insicurezze, ma anche la frustrazione e la rabbia. Infatti, nel caso del Covid, hanno preso piede diverse teorie complottiste che vedevano certi poteri colpevoli di aver creato e diffuso il virus e cercato di sottomettere il mondo con il vaccino.
Adesso che il Covid è stato “superato” in quanto a impatto mediatico, ha preso il sopravvento la guerra in Ucraina, perché le teorie sul Covid sono state in parte diluite e hanno perso di interesse e i loro sostenitori hanno bisogno di spostarsi su altri fronti sempre caratterizzati da sì o no, pro e contro: in questo caso, contro l’occidente e i suoi poteri e pro Putin, un potente a cui affidarsi, confidando in un suo provvidenziale potere difensivo. L’invasione dell’Ucraina, in certi casi estremi, è vissuta come una specie di “crociata” in cui l’Ucraina rappresenta l’espressione del male voluto dal nuovo ordine mondiale e non interessa tanto chi “vincerà” questa guerra, quanto, piuttosto, che la perdano tutti gli esponenti di questo nuovo ordine, che dal loro punto di vista sono poi gli stessi che hanno cercato di sottomettere il mondo attraverso la gestione della pandemia, le restrizioni, i vaccini.
Ad accomunare i no-vax e i filo-putiniani si riscontrano interpretazioni e congetture spesso semplicistiche, dal sapore persecutorio, che contemplano manipolazioni, manovre occulte, complotti. Del resto le teorie del complotto offrono risposte e pseudocertezze (sostenute da meccanismi quali la scissione, la proiezione dell’aggressività e l’identificazione proiettiva) a cui ancorarsi in una situazione complessa su cui non è possibile avere il pieno controllo e che attiva fantasie negative e paure profonde.
Chi, pur condannando la guerra e appoggiando l’Ucraina, propone delle critiche o dei dubbi su alcuni aspetti di gestione del conflitto o sui tentativi di trovare un accordo di pace, viene immediatamente vissuto come filo-putiniano e ostracizzato. Come mai accade?
Non mi è facile rispondere a questa domanda, perché presume competenze relative a una questione di grande complessità e che non può essere certamente spiegata solo in termini psicologici, che è l’ambito in cui desidero mantenermi. Allora mi riallaccio a quanto affermato prima, ovvero che a fronte di una situazione molto critica, che mette in discussione gli equilibri politici e la tenuta socio-economica globale, in cui è in gioco l’interesse di tutti, c’è un forte e comprensibile bisogno di risposte che possano aiutarci a capire, a orientarci e ritengo che sia giusto riflettere su un problema di così grande portata, ma con la consapevolezza che non è semplice trovare una risposta assoluta e che si può conoscere e comprendere meglio solo se si favorisce un confronto anche tra chi non la pensa allo stesso modo.
Nella questione che riguarda la guerra in Ucraina, l’Italia, con tutta l’Europa e il mondo occidentale, ha assunto una posizione di ferma condanna all’invasione russa e di aperto sostegno al popolo ucraino, attraverso aiuti economici, militari e umanitari. In tutto questo, anche tra chi appoggia detta posizione, non mancano critiche al modo di gestire questa crisi, ma credo anche che non tutto ciò che si discosta da questa scelta politica debba essere necessariamente ricondotto al “filo-putinismo”. Tuttavia, quando una posizione è assunta e mantenuta in modo troppo netto e intransigente, tanto più una convinzione è solidificata e si tende a confermarla acriticamente, etichettando negativamente chi dissente, perché non si ammette la convivenza di cognizioni differenti. In questi casi, chi manifesta posizioni divergenti viene collocato apertamente nella posizione opposta, senza mezze misure, perciò chi non sta con l’Ucraina è per forza filo-putiniano.
Non so se si può parlare di vero e proprio ostracismo, certamente, nei confronti di chi esprime posizioni discordanti, la rigidità porta ad assumere atteggiamenti che possono andare anche oltre la semplice emarginazione ed esclusione.
Credo che questo possa ricollegarsi anche a quel bisogno di difendere strenuamente e sentire forte la propria posizione, al bisogno di certezze dettato dalla grande delicatezza e complessità della situazione, che porta a non tollerare posizioni che divergano dalle proprie convinzioni/ideologie e quindi, a differenziare e allontanare, senza approfondire le motivazioni, anche di chi solo manifesti dubbi su alcuni aspetti inerenti alla gestione del conflitto, entrando in gioco, anche in questo caso meccanismi di scissione, proiezione e di identificazione proiettiva.
Filippo Di Pirro, psichiatra, psicoterapeuta, ha lavorato all’interno delle Forze Armate occupandosi delle problematiche psichiatriche correlate allo stress operazionale in contesti critici, di condotte a rischio, di disadattamento giovanile e di dipendenze. Attualmente svolge attività libero-professionale sia in ambito clinico che formativo.
Paola A. Sacchetti, psicologa, formatrice, editor senior e consulente scientifico, da anni collabora con Psicologia Contemporanea, dove cura una parte della rubrica “Libri per la mente” e le “Interviste all’esperto".