Luca Mazzucchelli

Luca Mazzucchelli intervista Paolo Moderato

Scopriamo insieme quali sono i tratti più  caratteristici di una fobia, un’avversione – spesso paralizzante – per animali, oggetti, situazioni della vita quotidiana, che oltre una certa soglia  si può risolvere solo consultando un professionista della salute.

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 Cos’è una fobia, professor Moderato? 

La fobia è una paura intensa, incontrollata, persistente e irrazionale verso un evento-stimolo che non rappresenta un pericolo reale, ma che è percepito come tale. Questa paura si traduce in comportamenti di fuga, di evitamento e protettivi: se l’evento o lo stimolo temuto compare all’improvviso, la reazione è di terrore e fuga; se si pensa che si possa verificare l’evento temuto, la reazione è di evitamento totale (rimanere chiusi in casa), oppure parziale, mettendo in atto comportamenti protettivi (sedersi vicino alle uscite, ai bagni, controllare la chiusura delle finestre). I comportamenti di evitamento mantengono la fobia e ne impediscono la remissione spontanea. La fobia è diversa dal disgusto e dalla repulsione: molti provano repulsione per ragni, scarafaggi e insetti vari, e se ne tengono lontano, chi invece soffre per esempio di fobia delle farfalle esce a precipizio dalla macchina, senza considerare i pericoli di questa azione, se per caso una farfalla entra dai finestrini, abita possibilmente ai piani alti e controlla che le finestre in primavera-estate siano ben chiuse. Le fobie, quindi, possono essere piuttosto invalidanti, come nel caso dell’agorafobia o delle fobie sociali, che impediscono di vivere una vita “normale”. La persona che soffre di fobie è perfettamente consapevole dell’irrazionalità della sua paura, ma è altrettanto perfettamente incapace di controllarla razionalmente. Perciò è del tutto inutile, anzi spesso peggiora le cose, dirle: «Sforzati, ce la puoi fare» e frasi simili di incitamento. Le fobie possono essere classificate come fobie generalizzate, quali l’agorafobia – la paura di stare in mezzo alla gente, di uscire, di viaggiare –, fobie sociali – per esempio, la paura di esporsi in pubblico – e fobie specifiche – insetti, cani e gatti, luoghi chiusi o stretti, sangue e aghi, aerei ecc. C’è un’altra particolare forma di fobia, la dismorfofobia, diretta verso il proprio corpo, o parti di esso, percepite come brutte, sproporzionate, inguardabili, mentre non lo sono nella realtà.

Luca Mazzucchelli intervista Paolo Moderato

 Quale relazione intercorre tra fobia e paura? 

La paura è un’emozione primaria di difesa in risposta a una situazione di pericolo; possiamo dire che la fobia ne è un sottoinsieme particolare. La paura nei confronti di un pericolo reale ha assicurato, fin dai tempi della vita nella savana e nelle caverne, e continua ad assicurare ancora oggi, la sopravvivenza di molte specie, compresa quella umana. La paura, oltre che dalla situazione presente, può essere evocata dal ricordo di una situazione passata, oppure può essere anticipatoria, paura di qualcosa che non si è ancora verificato e che appartiene al futuro, come interrogazioni ed esami. La paura ha dei correlati fisiologici, di cui è responsabile il sistema nervoso autonomo, che preparano l’organismo a fronteggiare la situazione minacciosa d’emergenza. Nei contesti adeguati, pertanto, la paura è un evento necessario e fisiologico; diventa problematica quando si attiva in contesti inadeguati, nei confronti di stimoli o eventi che non sono di per sé minacciosi, o si attiva in continuazione, anche se con minore intensità. In tal caso si può parlare di una situazione di ansietà.

 In base a quale meccanismo psicologico si sviluppa e si mantiene in vita una fobia? 

Uno dei punti deboli che vengono giustamente rimproverati alla psicologia è di essere una scienza non unificata o non paradigmatica, cioè di non avere sviluppato – come è accaduto ad altre scienze, per esempio la fisica e la biologia – un metodo di ricerca e una prospettiva comune e condivisa da cui elaborare teorie, principi e interventi terapeutici di efficacia verificabile. Detto questo, da oltre cinquant’anni si è affermata una prospettiva, basata su robuste evidenze, che ha messo in discussione le teorie interpretative e simboliche dell’inizio del XX secolo, ricorrendo a principi più solidi sperimentalmente. Parliamo della psicologia cognitivo-comportamentale che vede le fobie come prodotto involontario e sgradito del processo di apprendimento, e che può agire in vari modi: per qualche esperienza negativa diretta, con la situazione che diventerà l’oggetto della fobia, o per esperienza indiretta, vicaria, come nel caso dei processi di imitazione alla base del modelling, o verbale, compresi gli aspetti cognitivi e di autoverbalizzazione (doverizzazione, fusione cognitiva, evitamento esperienziale ecc.). Senza entrare in tecnicismi, si può dire che noi esseri umani possiamo apprendere contenuti non solo cognitivi, ma anche emotivi, possiamo imparare a superare il dolore fisico e a non avere paura sotto il fuoco del nemico in guerra, o ad avere paura di un essere innocuo e delicato come una farfalla. Non dimentichiamoci che molti dei nostri incontri e delle nostre interazioni sono dovute al caso. Non c’è sempre bisogno di aver avuto un’esperienza traumatica specifica per aver appreso e sviluppato una fobia, l’ansia e la paura possono nascere dalle interazioni quotidiane di vita in un contesto famigliare ansiogeno, nevrotizzante, con modelli patologici. Allo stesso modo, tante persone che hanno subito esperienze traumatiche certe non hanno sviluppato forme fobiche. Resilienza e vulnerabilità sono termini e processi che ancora richiedono molte ricerche.

 Ci sono particolari tipi di fobie diffuse in questi ultimi anni che caratterizzano la nostra epoca rispetto al passato? 

A partire dal secondo dopoguerra, e particolarmente negli anni del boom economico, sono cambiati diversi disturbi psicologici, alcuni sono pressoché scomparsi, come l’isteria da conversione da cui è partita la psicoterapia freudiana, altri si sono intensificati, come i disturbi d’ansia e da stress, tra cui i più noti sono gli attacchi di panico e il disturbo da stress post-traumatico. Molti di questi disturbi sono legati ai cambiamenti socioculturali avvenuti nella società, nei ritmi e modi di vita. Anche negli ultimi anni si sono verificati diversi cambiamenti. Per esempio, nei bambini, accanto alle paure naturali tipiche delle varie età, sono aumentati i disturbi d’ansia da separazione, che poi sfociano in fobie scolastiche e forme agorafobiche piuttosto invalidanti. Poi ci sono forme fobiche dovute a quella che definirei l’“adultizzazione” dei bambini, volontaria o per carenza di attenzione. Mi riferisco al fatto che c’è una tendenza a trattare i bambini come adulti, a farli diventare adulti troppo presto, dimenticando le loro caratteristiche infantili, e a non prestare adeguata attenzione alle loro interazioni con i media. Per esempio, parecchi bambini sviluppano forme acute e persistenti di paura dopo aver visto, in molti casi insieme ai genitori, film inadatti alla loro età (horror, thriller). Questi genitori non si rendono conto del processo di apprendimento della paura, giustificandosi con espressioni del tipo «Ma io gli ho spiegato che la mummia era finta, che era solo un film!», cioè dimenticando che noi adulti quando guardiamo un film proviamo le stesse emozioni di paura (altrimenti il regista dovrebbe cambiare mestiere), ma abbiamo una maturità emotiva e un principio di realtà che ci consentono di tollerare lo stress momentaneo. In altri casi i bambini fruiscono in modo indipendente di alcuni media (tablet, smartphone, TV) approfittando della disattenzione dei genitori. Un altro disturbo in crescita è la neofobia alimentare, ossia la reazione di rifiuto – a volte anche estremo – di fronte a nuovi cibi, che produce una iperselettività alimentare nei bambini (ma pure negli adulti). Anche qui la componente culturale è evidente: nei bambini la pratica di svezzamento e di educazione dei nuovi gusti richiede tempi e modi che l’organizzazione e le necessità della giornata lavorativa spesso rendono difficili; negli adulti i nuovi modelli culturali che potremmo definire “non onnivori” (vegetariani, vegani, crudisti ecc.) costituiscono un contesto che favorisce forme di inflessibilità.

 È sempre necessario l’intervento di un profes­sionista per superare le proprie fobie? E ci sono casi di fobie che ritornano dopo un’apparente guarigione? 

Viviamo in un’epoca di contestazione della professionalità, in cui le persone si fanno autodiagnosi e autoterapie informandosi su Internet. Direi che se si ha un raffreddore ci si può curare stando a casa riguardati un paio di giorni, ma se si ha una polmonite è meglio andare dal medico. Si può convivere con qualche forma fobica leggera, ricordando però che è molto facile che questa si aggravi e si estenda. Se una persona soffre di una fobia che progressivamente riduce i suoi gradi di libertà di movimento, di vivere una vita di valore, come un’agorafobia o una fobia sociale, è consigliabile un intervento professionale per risolvere il problema. Può tornare? Le ricadute sono nell’ordine delle cose in ogni terapia, anche medica, e alcuni disturbi sono più soggetti di altri a ricadute, per esempio gli attacchi di panico. Un buon professionista conosce questo rischio e sa come affrontarlo, per esempio non terminando la terapia appena il paziente si sente meglio, ma facendo dei controlli (follow-up) dilazionati nel tempo. Naturalmente se una fobia è curata male, cioè in maniera frettolosa, senza comprenderne il processo e il contesto di insorgenza, allora la ricaduta è più probabile.

 Quale suggerimento si può dare a chi ci sta leggendo? 

Attenzione alle parole: c’è la tendenza a patologizzare anche l’espressione fisiologica di un’emozione. Se si prova una certa dose di attivazione/ansia prima di sedersi davanti a un esaminatore, è normale, non è un attacco di panico. Non attribuiamo patologia a ciò che patologico non è. D’altra parte, dobbiamo fare attenzione, soprattutto con bambini e adolescenti, ai segnali non verbali che possono indicare stati di disagio, come bullismo, ritiro sociale o anoressia, e lì agire tempestivamente. Come dicono gli americani, «One stitch in time saves seven», cioè «Un piccolo intervento di supporto previene lacerazioni successive». Nessun fai-da-te. La valutazione clinica non si impara al Google College. «Ce la voglio fare da solo» è un motto d’orgoglio che inizialmente gratifica il proprio Sé, ma che alle lunghe non funziona e talvolta lo distrugge.

Paolo Moderato è ordinario di Psicologia all’Università IULM. Past president di EABCT e presidente di CBT-Italia, di recente ha pubblicato Pensieri, parole, emozioni (con G. Presti, Franco Angeli, 2019).

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 278 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui