Zauberei

L'amico selettivo

Quali sono i rischi per chi fa terapia di passare, con un paziente, dal rapporto regolato del setting alla complicità di ritrovarsi sul web, senza filtri e codici relazionali?

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In questi giorni vacanzieri sto leggendo il bellissimo Violazioni del setting di Glen O. Gabbard, un testo che ogni collega dovrebbe tenere sempre sulla sua scrivania mentale, per quante indicazioni preziose offre sul lavoro con i pazienti. In esso, oltre a un’ampia riflessione sulle violazioni classiche e cinematografiche del setting – gli analisti che si fanno le storie di sesso con i pazienti o che ci escono a cena; con preziosi ricami interpretativi del perché o per come accadono tali violazioni –, si dedica un capitolo alle violazioni derivanti dal fatto che oggi, accanto alle forme di comunicazione tradizionali con gli assistiti, c’è Internet

Com’è nel suo stile, la nuova potenziale intrusione nelle logiche classiche della comunicazione fra terapeuta e paziente non è tout court demonizzata, e si spiega come in realtà, per esempio, delle e-mail fra una seduta e un’altra possano diventare strumento e materiale utilizzabili in seduta. Infatti, se “setting”, nel gergo de noantri, è il termine che usiamo per riferirci all’insieme di regole materiali e di comportamento che caratterizzano la terapia, una moderata flessibilità in tutte le direzioni, almeno secondo Gabbard (e invero pure secondo me), garantisce un migliore funzionamento della cura.

Addirittura, le incrinature alla cornice di lavoro, alle regole del dialogo tra analista e paziente che possono essere costituite da una foto su Whats­App, possono diventare oggetti a pieno titolo entro una cornice che rimane invece sana, se vengono tirate dentro dal terapeuta con destrezza (ossia: Gino Pino manda una foto dopo la seduta, il dottor Nando risponde “Signor Gino, interessante davvero, ne parliamo in seduta”). 

Tuttavia, per quanto Gabbard sia un professionista davvero gagliardo e al passo coi tempi, io penso che se si fosse soffermato sulle difficoltà che oggi hanno gli psicoterapeuti nel gestire i social avrebbe perso il consueto mirabile aplomb e forse si sarebbe messo un pochetto le mani nei capelli. Il mutamento del costume è inarrestabile, e l’avvento dei social ha definitivamente impresso una rotazione sociologica ai rapporti tra soggetti, in una direzione livellante e avvicinante: sui social le gerarchie si annullano, le geografie si avvicinano, non ci metti niente a sapere vita morte e miracoli del tuo scrittore preferito e poco di più a sapere come reagisce quando si arrabbia o quando non se lo filano, e tutte queste lampanti informazioni i pazienti e i potenziali pazienti e gli ex pazienti le possono avere osservando i terapeuti su Facebook, il più seducente trappolone degli ultimi decenni – soprattutto, bisogna dire, per alcune strutture psicologiche, di orientamento narcisistico e con una incontrovertibile propensione all’estroversione, specie se consideriamo la centralità che ha la rappresentazione del Sé privato nell’uso del mezzo: per gli estroversi e narcisisti, il mostrare certe proprie cose belle tramite racconti e foto della propria vita privata e il cercarla nell’altro sono una forma di seduzione molto più potente che per gli introversi, con una personalità tarata su altri funzionamenti.

Ma questi dati privati che si vogliono mostrare non sono sempre un beneficio per le psicoterapie, poiché le inquinano, sporcano il campo, portano il lavoro dove non deve andare. È infatti assodato che un paziente paghi un servizio dove si migliorano e si discutono la sua vita e il suo stare al mondo, mica il carattere e le preferenze a tavola del suo terapeuta. D’altra parte, però, siccome le nevrosi sono furbe e volentieri compiacenti, alto è il numero di pazienti disposti a pagare qualcuno per poter dire a sé stessi di starsi curando, per poi cercare di parlare del parrucchiere dell’analista onde evitare di curarsi davvero.

Personalmente, giacché i social mi piacciono, ho messo a punto una serie di dispositivi di protezione, alcuni dei quali anche agili e banali.
In primo luogo, relego tutte le informazioni più private, foto e commenti, a un ristretto gruppo di persone, che sono quelle della mia vita intima. Facebook mi dà infatti la possibilità di selezionare un gruppo di destinatari fra i miei contatti.

In secondo luogo, mi capita di bannare (cioè non di escluderli dagli amici o potenziali amici, ma di far uscire dal loro Facebook il mio profilo, che per loro sarà dunque inesistente) pazienti, qualche volta familiari di pazienti, in qualche caso amici cari di pazienti. I congiunti dei pazienti sono la prima minaccia alla qualità della terapia: mentre i pazienti spesso e volentieri a fronte di un’analista che mostra confini molto chiari possono facilmente toccare il desiderio di rispettarli, gli amici e i parenti (per gelosia, per invidia, ma anche per desiderio di stabilire una comunanza, o anche per urgenza di controllare chi sei – soprattutto i genitori) vengono, ti osservano, poi riportano le informazioni con zelo al tuo paziente, il quale ora avrà una specie di oggetto nella terapia portato da altri, che si potrà sempre utilizzare ma che è un’utilizzazione imposta da terzi, e pertanto non proprio ottimale: perché nelle psicoterapie, quando si tratta dell’introduzione di temi che vengono dal terapeuta, è importante controllare il timing e non far irrompere quei temi in momenti del processo che non sono i più adatti.

Proprio in relazione a questo problema del controllo delle nozioni, io metto in campo dei contenuti privati controllati (hobby, per esempio, ma anche preferenze politiche) che so di avere messo in campo e so quando e perché potrebbero arrivare agli occhi di un paziente corrente, o anche di un paziente futuro, come se sapessi da subito di esporre un oggetto narrativo che in un secondo momento potrà comparire nella terapia, ma riguardo al quale io potrò ricordare da dove proviene e come ne ho parlato.

Infine, siccome la comunicazione su Facebook è orizzontale e tende a iscrivere tutti i contatti in un lemma che nella sua vastità ha pur sempre un significato preciso, cioè “amicizia”, per cui i contatti che si hanno si chiamano “amici”, io a terapia finita, ancorché ne provi una fortissima tentazione, non aggiungo mai i miei ex pazienti ai miei contatti, non li faccio mai diventare miei amici anche solo in Rete, perché – pure questo me lo ha insegnato Gabbard e penso che abbia ragione – un analista è per sempre, dev’essere qualcuno a cui poter sempre tornare in un momento di difficoltà, anche se si spera che non se ne presenti mai più il bisogno. Un analista che accetta l’amicizia di un ex paziente su Facebook è come un chirurgo che ti dica: “No, non posso operarti un’altra volta, mi sono cascati i bisturi nel fango”.

 

Zauberei, psicoanalista, tiene da anni il blog Bei Zauberei, molto seguito. Ha pubblicato Guida portatile alla psicopatologia della vita quotidiana (Minimum Fax, 2015) e Dentro e fuori la stanza. Cosa accade a chi fa psicoterapia oggi (Minimum Fax, 2017). beizauberei.wordpress.com

Questo articolo è di ed è presente nel numero 270 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui