Luisa Lauretta

La dimensione trasformativa dell’arte del teatro

In scena possiamo rinascere in altre forme, sintonizzandoci sulle tante voci che si affollano dentro di noi.

dimensione-del-teatro.jpg

Per riflettere sul complesso tema del valore “terapeutico” dell’arte, che la porta ad essere messa in campo in tanti contesti di “cura”, vorrei partire da alcune considerazioni di fondo. In latino il termine “ars”, corrispondente al greco “téchne”, designava prima di tutto un’abilità acquisita con la pratica: qualunque attività che richiedesse apprendimento era ars, dallo sport alla medicina, dall’oratoria alla scultura. Chi la praticava era un artifex, colui che esercita un’arte manuale grazie a esperienza e ingegno. Un aspetto costitutivo dell’arte, rivelato dalla sua radice etimologica, la connette quindi direttamente all’atto, al fare nutrito dall’esperienza

Il fare dell’arte la lega al rito e al ritmo. Il termine “arte”, come nota Carlo Sini, ha in comune con “rito” e “ritmo” la radice sanscrita “rt”. Il contrario di “arte” è “inerte”: se l’ars è l’azione ben fatta, inerte è ciò che non danza, che non si muove ad arte, che si sottrae al rito. Il rito ha la funzione di conferire valore agli atti (come nel caso del matrimonio, celebra i passaggi di stato dell’esistenza): il suo contrario è il termine “irrito”, ciò che non ha valore (Sini, 2006). (CONTINUA...)

Si potrebbe dire, insomma, che l’arte è una pratica che richiede il fare dell’esperienza e che nella sua dimensione ritmica e rituale dà qualità all’esistenza. L’arte, infatti, tende a conferire senso alle cose, invita a guardare oltre sé stessi, promuove un contatto con la realtà più profonda (come direbbe Klee, «L’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è»), imprime all’esistenza quotidiana un carattere rituale.

 L’arte del teatro 

Una delle più antiche pratiche artistiche connesse al ritmo, alla danza, al rito, alla festa e aggiungerei al gioco, è il teatro. Il teatro, che dalla danza trae origine, è un “fare ritmico”, e in quanto tale è póiesis, dal greco “poieo”:
“faccio, creo, produco, agisco”. Questa sua qualità è trasversale a tutte le culture teatrali (si pensi al tea­tro Nō, l’antico teatro giapponese, che unisce musica, danza e rappresentazione scenica).

Nell’antica Grecia, l’arte del rappresentare per azioni sceniche aveva funzione catartica. La kátharsis, la purificazione attraverso le passioni – e non certo, come per lungo tempo ha voluto la tradizione, di purificazione delle passioni –, si verificava andando a teatro, assistendo agli spettacoli.

Nella nostra epoca, le cose sono inesorabilmente mutate ed è semmai il “fare teatro”, il praticarlo in veste di attori, ad assumere funzione catartica, mentre, com’è noto, la fruizione degli spettacoli teatrali ha subìto negli ultimi decenni un calo drastico. È diffusissimo il fenomeno, tra persone di ogni età, di fare formazione nell’arte teatrale: oltre alle varie scuole di teatro, a seminari, a stage, a workshop, vi è un’incredibile proliferazione di attività di animazione e di drammatizzazione che coinvolgono allievi di tutti gli ordini di scuola, dall’infanzia all’università della terza età… per non parlare dell’uso del teatro nei contesti aziendali, nelle carceri e negli ambiti legati alla salute mentale.

Questo fenomeno è probabilmente un indicatore interessante che potrebbe fare riflettere sulla qualità dell’offerta teatrale per il pubblico, o comunque su quanto il teatro faccia fatica a dialogare con il proprio pubblico, ma soprattutto offre utili indicazioni sul valore che assume la pratica teatrale, e in particolare il “laboratorio teatrale”.

Una strada in questo senso viene tracciata nel secondo dopoguerra, quando l’esperienza del cosiddetto “teatro dell’assurdo” mette fortemente in discussione il teatro ufficiale. Una vera sperimentazione di nuove vie espressive, in opposizione a quanto accadeva sulle scene dei teatri stabili, avviene negli anni Sessanta con le iniziative di personalità come Peter Brook, Eugenio Barba, Jerzy Grotowski, Judith Malina e Julian Beck del Living Theatre, che propongono una concezione innovativa della regia e un nuovo modo di intendere la drammaturgia, la scena, il lavoro stesso dell’attore, il suo ruolo sociale, la relazione con il pubblico. In particolare, si delinea in questa fase storica uno spostamento dell’interesse dal prodotto al processo. Il lavoro teatrale prende forma nel laboratorio, in cui regista e attori lavorano insieme sul training e sulla preparazione dello spettacolo. 

 Il teatro Nō 

Il teatro Nō è tra le più antiche arti performative al mondo. Questa forma di teatro si è sviluppata a partire dal XIV secolo e in sei secoli di pratica e tradizione è arrivata ai nostri giorni. Si tratta di un dramma lirico danzato e altamente stilizzato in cui gli attori indossano delle maschere, avvolti in costumi sfarzosi e monumentali che emergono sulla scena disadorna, e si muovono in modo ieratico modulando la voce.

A proposito dell’uso della voce, Zeami (nato a Nagoya nel 1363 ca. e morto nel 1443 ca.), che ha fissato i canoni fondamentali del teatro Nō, dice agli attori: «Dimenticando la voce, sappiate le modulazioni; dimenticando le modulazioni, sappiate il tono; dimenticando il tono, sappiate il ritmo». Dice inoltre: «Dunque, uscirete da dietro le quinte, procederete sul ponte e lì vi fermerete, guarderete in tutte le direzioni e nell’istante stesso in cui il pubblico, unanime nell’attesa, penserà: “Ecco, sta per cantare!”, intonerete il canto. Questo, [cioè] cantare quando sentite l’attesa del pubblico, è la giusta intuizione del momento propizio. […] È un istante critico che l’attore percepisce con l’intuito. […] Vi è un momento propizio per conquistare lo spirito dell’uditorio. Anticiparlo è male, lasciarlo passare sarebbe peggio. Nell’istante preciso in cui la gente dice: “Ora sta per intonare il canto!”, e in quello stato di attesa [ricettiva] impone la calma alla mente e alle orecchie, dovete cominciare a cantare» (Zeami, 1966).

 La scena per “rinascere altro” 

Il training teatrale diventa un percorso di trasformazione e di ridefinizione dell’assetto fisico degli attori, della loro identità, della dinamica delle loro relazioni, e in definitiva un’efficace via di trasformazione personale. Il laboratorio si configura come un dispositivo in grado di sollecitare un lavoro a più dimensioni su di sé, attraverso il gioco, le improvvisazioni, la sperimentazione di ruoli, di personaggi, di corpi e di identità differenti da sé. 

La scena offre la possibilità di “rinascere in altra forma”, di contattare la propria molteplicità interna rinunciando all’assetto monolitico, e di entrare in uno spazio che non si frequenta comunemente. L’esperienza performativa tende a sostituire l’assetto regolato dell’azione scenica tradizionale. Come afferma Turner (1986), «La performance trasforma sé stessa. […] Le regole possono “incorniciarla”, ma il “flusso” dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può portare a intuizioni senza precedenti e anche generare simboli e significati nuovi, incorporabili in performance successive. È possibile che le cornici tradizionali vadano sostituite: nuove bottiglie per il vino nuovo».

Si intende esprimere una nuova realtà in continuo divenire, non più rappresentabile in maniera didascalica
seguendo i consueti canoni naturalistici. Inoltre una continua reinvenzione linguistica e tecnica è finalizzata a rinnovare il “sentire”, il vissuto esperienziale, sia dell’attore che dello spettatore. «L’esercizio ci deve aiutare a eliminare le abitudini personali e rendere le nostre azioni chiare e “semplici”, non a diventare schiavi di una tecnica» (Oida, 1993). Con il laboratorio teatrale si tende a trasformare la modalità consueta di percepire e rappresentare il mondo, per poter rintracciare piani differenti, più profondi e inesplorati della realtà. Questa forma di rappresentazione intende restituire all’arte la sua funzione di esperienza condivisa da una comunità, tramite la dimensione rituale.

Il riferimento a pratiche di altre culture consente di dare nuovo alimento ai modi della cultura dominante: l’arte del teatro dà forma a mondi altri per mezzo dell’invenzione di linguaggi inediti e la creazione di nuovi contesti. L’attore è invitato a superare le proprie abitudini, a “liberare” la propria personalità andando oltre i propri confini psicofisici, per recuperare autenticità e dimensione creativa. Nei “laboratori” si vuole produrre, mediante procedimenti sperimentali, fenomeni e stati più autentici e intensi di quelli naturali: «Per esserci teatro la vita deve essere presente in modo più forte» dice al proposito Peter Brook (1980). In definitiva, i laboratori teatrali diventano i luoghi in cui l’attore è tenuto ad affrancarsi dai propri automatismi. 

A questo scopo, l’addestramento dell’attore porta a modellarne il corpo in nuovi assetti, a scavarne il vissuto emozionale, ad allenarne la percezione, a trovare nuove forme per rappresentarsi: si esplorano modi diversi di respirare, muoversi, camminare, stare in posizione verticale, saltare, incontrare i corpi degli altri. Inoltre il lavoro metodico sulla concentrazione e l’attenzione, sulla consapevolezza, il ricorso all’immaginazione e alla creatività tendono a far emergere un nuovo modo di pensare, percepire, sentire, relazionarsi agli altri. All’interno del laboratorio si applicano processi e tecniche che portano alla riscrittura di atteggiamenti e reazioni abituali (Cavallo, 1996).

In definitiva, si dà forma a un teatro come luogo di autenticità, spazio protetto dove poter “decostruire” il proprio cristallizzato assetto interno e attingere alle risorse più insondabili e misteriose della persona.

 Teatro e contesti di cura 

Se si considera l’alto valore di trasformazione personale che mette in cantiere questo tipo di lavoro, si capisce bene come in tanti contesti di cura l’uso di tale dispositivo artistico possa conferire, con le dovute mediazioni, senso e qualità all’esistenza, soprattutto quando senso e qualità sono assenti.

La pratica del laboratorio teatrale con il suo bagaglio di atti trasformativi (l’allenamento fisico, la ricerca espressiva, l’esplorazione di nuovi linguaggi con il corpo e la voce, l’attenzione al sentire, lo scambio relazionale, l’invito ad assumere altre visioni del mondo, l’attenzione al processo, al presente, ai propri automatismi, la ricerca di modi nuovi di stare al mondo, l’ascolto empatico, il rito che apre nuovi spazi, il ritmo che li scandisce) dosato in vario modo, offre la possibilità di attribuire qualità all’esistenza, dove questa manca o dove non è facile rintracciarla (con bambini, adolescenti, adulti con difficoltà varie, anziani, disabili e così via).

Perché sia un dispositivo funzionale, tuttavia, perché abiti in modo coerente i contesti a cui si applica, è prioritario che se conosca a fondo la grammatica, che non si usi il dispositivo artistico-teatrale in modo strumentale, per fare una semplice “recita” o per “far esprimere il disagio” senza possedere una pratica fondata sullo studio, sull’esperienza, sulla conoscenza dei linguaggi, proprio come vorrebbe l’etimo della parola “arte”.

Se l’arte è una danza, è bene se ne conoscano i passi, grazie ai quali si può generare un’esperienza che abbia valore estetico, e non solo etico. Anche perché, se a contare è il processo e non il prodotto, come vuole la recente normativa sulle Arti Terapie, ciò ha bisogno di essere coltivato con attenzione, cura e competenza. 

 Attenzione ai processi creativi 

Di recente, grazie alla Legge n. 4/2013, che disciplina le professioni non regolamentate, è stata normata la professione dell’arteterapeuta (norma UNI 11592:2015, «Figure professionali operanti nel campo delle Arti Terapie») che prevede «cinque discipline di vertice» (arteterapia, danzamovimentoterapia, drammaterapia, musicoterapia, teatroterapia) definendo abilità, competenze e conoscenze di chi si occupa di questa professione, che coniuga l’intervento terapeutico con l’uso del dispositivo artistico. Più precisamente non si tratta solo di “fare arte”, ma di utilizzare i processi creativi delle singole discipline tenendo in considerazione la dimensione della relazione d’aiuto. In particolare si prevede che i professionisti delle Arti Terapie:

mettano in campo pratiche attente prima di tutto ai processi creativi sia individuali sia collettivi, piuttosto che ai prodotti artistici estrapolati dal contesto relazionale che li ha generati; 

sviluppino nella loro formazione specifiche conoscenze, abilità e competenze relative alla modulazione emozionale e alla gestione dei processi collettivi

siano formati a una sola specifica disciplina artistica prevalente di vertice, con distinti
profili specialistici.

LUISA LAURETTA, psicologa, dirige una scuola di formazione in teatroterapia. Esperta in linguaggi espressivi, conduce gruppi di teatro di ricerca. È direttore della rivista Psicologia e scuola.


Riferimenti bibliografici

Barba E. (2009), Bruciare la casa. Origini di un regista, Ubulibri, Milano.

Brook P. (1980), Il teatro e il suo spazio (trad. it.), Feltrinelli, Milano.

Brook P. (1987), Il punto in movimento (trad. it.), Dino Audino Editore, Roma.

Cavallo M. (1996), «Teatro come tecnologia del sé», INformazione Psicologia, Psicoterapia, Psichiatria, 27, 9-25.

Giacchè P. (2004), L’altra visione dell’altro. Una equazione tra antropologia e teatro, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli.

Oida Y. (1993), L’attore fluttuante (trad. it.), Editori Riuniti, Roma.

Sini C. (2006), Il segreto di Alice e altri saggi, Edizioni AlboVersorio, Milano.

Turner V. (1986), Dal rito al teatro (trad. it.), Il Mulino, Bologna.

Zeami M. (1966), Il segreto del teatro Nō (trad. it.), Adelphi, Milano.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui