Alessandra Salerno, Marzia Movarelli

La comunicazione emotiva tra genitore e bambino

Uno degli indicatori principali del benessere di una famiglia è la qualità della comunicazione tra i suoi componenti. Quando nel nucleo familiare ci sono i bambini, naturalmente, bisogna considerare anche le loro esigenze verbali e non verbali

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Gli studiosi che negli anni si sono interrogati su cosa potesse considerarsi caratteristica peculiare delle famiglie con un “buon funzionamento” concordano sul fatto che, tra le dimensioni fondamentali, quella della comunicazione sembra rivestire un posto di grande rilevanza; insieme alla flessibilità e alla coesione viene ritenuta, per esempio, fondamentale affinché la famiglia affronti le varie fasi del suo ciclo di vita in maniera fluida e armonica.

La comunicazione familiare assume naturalmente valenza diversa in base a quale sottosistema coinvolga, se quello degli adulti, come coppia o come genitori, se quello dei più piccoli, nel loro rapporto fraterno, o se invece, in maniera trasversale, riguardi genitori e figli. Di certo, una buona comunicazione, fondata sull’ascolto, il rispetto e l’apertura, sembra garantire il passaggio non solo di contenuti importanti, ma anche, e soprattutto, di elementi relazionali ed emotivi fondanti le relazioni stesse. Nella famiglia con bambini la comunicazione efficace ha anche una funzione protettiva rispetto a situazioni di rischio: lo scambio aperto di messaggi chiari e diretti, empatici e di sostegno rappresenta non solo una fonte di incoraggiamento per le relazioni familiari e sociali, ma pure una base sicura per esplorare anche il mondo emotivo riguardo al quale il bambino necessita di supporto e di chiavi di lettura congrue.

LA COMPETENZA EMOTIVA

Se nello specifico ci focalizziamo sulla comunicazione relativa alla sfera delle emozioni, dobbiamo innanzitutto concentrarci sui punti chiave dello sviluppo emotivo: in un fitto intreccio di complessi aspetti (neurofisiologici, espressivo-motori, cognitivi, psicologici e sociali) strettamente correlati tra loro, il mondo delle emozioni ha catturato l’interesse di molteplici filoni disciplinari, che ne hanno ampliato il campo di studio e osservazione in maniera molto articolata. La sempre più diffusa attenzione al linguaggio delle emozioni, alla natura espressiva degli stati emotivi, alle manifestazioni corporee e comportamentali legate ai vissuti emozionali soggettivi, ha portato il mondo della psicologia a interessarsi della nascita e dello sviluppo delle emozioni nell’uomo, assistendo a un avvicendamento di teorie differenti, a volte in contrapposizione tra loro, che hanno guardato agli aspetti innati e universali vs. aspetti acquisiti e culturalmente determinati, con lo scopo di approfondire maggiormente un argomento che accende parimenti l’interesse scientifico-sperimentale e quello umanistico.

Già nei primi anni Ottanta molti studiosi hanno focalizzato la loro attenzione sulle modalità, più o meno intenzionali, utilizzate dagli adulti per promuovere la competenza emotiva nei bambini, individuando modalità dirette e indirette: nel primo caso, si parla di vere e proprie strategie che l’adulto mette in atto al fine di insegnare ai bambini non solo a riconoscere le emozioni, ma anche quale sia la modalità più giusta per esprimerle e regolarle; tra le modalità indirette troviamo invece quei comportamenti naturali e a volte inconsapevoli dei genitori, utili ai bambini per riconoscere le proprie e altrui emozioni, e dar loro nome e significato; tra i meccanismi alla base di tale apprendimento, per esempio, grande importanza ha il modeling, basato sulla capacità osservativa dei bambini che vengono naturalmente influenzati da ciò che osservano attorno a loro e che tendono a prendere come modello, innanzitutto i comportamenti degli adulti per loro più significativi, cioè in primis i genitori: osservare mamma e papà esprimere le proprie emozioni in termini di intensità, di modalità espressive verbali e non verbali e di contesto più opportuno rappresenta per i bambini una palestra nella quale effettuare i propri stessi allenamenti emotivi.

Differente è invece la situazione nella quale volontariamente e consapevolmente il genitore insegna al bambino le strategie per riconoscere, affrontare e regolare il suo mondo emotivo. Come affermano Caravita et al. (2018) si tratta di una vera e propria attività di coaching che vede il genitore insegnare intenzionalmente al bambino il significato di alcuni stati emotivi nel momento stesso in cui costui li sperimenta, dando loro un nome, indicando al bambino l’espressione più corretta per esprimere quella determinata emozione, incrementando dunque la sua competenza socio-emotiva attraverso strumenti comunicativi e linguistici. La cosiddetta contingency riguarda, infine, l’apprendimento da parte del bambino attraverso la comunicazione del genitore su un livello non verbale; la reazione dell’adulto all’espressione dell’emozione del bambino aiuta il bambino stesso ad attribuire il corretto significato allo stato emotivo sperimentato: un genitore che consola il figlio triste, o che lo rassicura se è spaventato riempie di significato e senso l’esperienza del piccolo aiutandolo nell’apprendimento mediante una comunicazione e una sintonizzazione efficaci.

SINTONIZZAZIONE EMOTIVA E REGOLAZIONE DELLE EMOZIONI NELLA FAMIGLIA CON BAMBINI

Le emozioni, presenti in ogni momento della vita quotidiana, hanno il compito di mediare il rapporto che ognuno di noi ha con sé stesso e il proprio ambiente circostante, fisico e sociale, seguendo un principio omeostatico di autoregolazione e, contemporaneamente, uno più finalistico e intenzionale di recupero di stati di vicinanza interpersonali, principio utile alla sopravvivenza psicofisica individuale. Relativamente alla sfera relazionale e alla funzione comunicativa delle emozioni, sappiamo che l’essere umano, fragile dal punto di vista neotenico per una sopravvivenza in stato di solitudine o abbandono, è programmato biologicamente per entrare in connessione con gli altri, e i segnali di cui dispone per poter esprimere il bisogno di vicinanza utile alla sopravvivenza passano primariamente dal corpo, tramite un’attivazione costante che ingaggia l’altro socialmente, al fine della cura e della protezione. Il metodo della “infant observation” (Bick, 1964), in combinazione con altri modelli teorici di riferimento, ha consentito una puntualizzazione degli stati emozionali infantili, che vedono già alla nascita il neonato predisposto a una interazione comunicativa costante con chi si prende cura di lui, a partire dalla comunicazione di stati fisici di bisogni primari, eccitazione motoria, disgusto o allerta, fino ad arrivare, nel corso dello sviluppo, a momenti più evoluti e “raffinati” di sperimentazione di emozioni complesse, interiorizzate, personali e di rappresentazione degli stati emotivi dell’altro.

Affinché la comunicazione sul piano emotivo sia adeguata, il genitore deve innanzitutto essere in grado di sintonizzarsi con lo stato mentale del bambino e comprenderne tutte le componenti; allo stesso tempo, il bambino imparerà a leggere la risposta genitoriale e a collegarla con la propria esperienza affettiva; si parla dunque di “sintonizzazione emotiva” come di un aspetto indispensabile per entrare in relazione a livello intersoggettivo e per il corretto sviluppo delle competenze affettive e sociali del bambino in ambito familiare e sociale.

Il concetto di sintonizzazione affettiva si collega anche a quello di regolazione emotiva, che rappresenta un tema che ha visto, negli ultimi vent’anni, un forte incremento nell’ambito della ricerca e degli studi clinici, considerata come una componente essenziale della competenza emotiva e un aspetto fondante del benessere psicologico durante l’infanzia. È noto infatti che, durante il corso della sua crescita, il bambino impara non soltanto a esprimere le proprie emozioni, o a sperimentarle tramite il gioco simbolico e di ruolo per poterle sempre più gestire in funzione della propria regolazione interna, ma anche a inibirle, a controllarle, a veicolarle in virtù di quello che percepisce essere più o meno accettabile all’interno del suo contesto di appartenenza, sia esso familiare, sociale e/o culturale. A sostegno di queste considerazioni, l’osservazione – già verso i 2 anni di età – dell’emergere di uno stato di imbarazzo sociale, che evolverà in un vissuto emotivo più complesso, quello della vergogna, il quale presuppone nel bambino lo sviluppo di uno stato di consapevolezza del Sé in relazione alla esposizione sociale e alla presenza dello sguardo dell’altro. L’espressione, la comprensione e la regolazione delle emozioni in sé e negli altri diventano, quindi, i presupposti per lo sviluppo del costrutto di competenza emotiva (Saarni, 1999), vista come l’insieme delle abilità utili a mantenere o cambiare le transazioni con l’ambiente in modo efficace e socialmente appropriato. Il passaggio dalla iniziale, spontanea, attivazione corporea (pianto, sorriso, ricerca di vicinanza, sguardo, tonalità e prosodia vocali) all’acquisizione delle competenze linguistiche permetterà successivamente al bambino di esplicitare in maniera più specifica il proprio status emozionale, consentendo la creazione di un linguaggio condiviso di natura relazionale, affinando le proprie competenze affettive e sociali. Prevedere le reazioni emotive dell’altro, avvicinandosi in maniera progressiva al riconoscimento di un potere soggettivo nel provocare e nell’indurre in chi ci sta vicino stati emotivi e reazioni affettive significative, amplifica lo strutturarsi di una funzione riflessiva circa i propri e altrui stati mentali che conferma la presenza, nel bambino, di una teoria emotiva della mente emergente, atta a consentirgli di creare successivi passaggi di intenzionalità nella relazione.

RAGGIUNGIMENTO DELL’EMPATIA

Per esempio, non è raro vedere già nelle prime fasi dello sviluppo bambini avvicinarsi ai propri pari per consolarli perché smettano di piangere: sono inizialmente comportamenti spontanei che nascono nel bambino per contenere il proprio stato di angoscia, determinato dalla contaminazione dello stato emotivo dell’altro, ancora non ben differenziato dall’esperienza di un proprio Sé separato. In seguito, invece, si assisterà alla consolazione reale, al riconoscimento dello stato d’animo dei propri pari, all’interesse per il loro benessere e per il mantenimento di una buona relazione di reciprocità affettiva: è questo il momento dello sviluppo dell’empatia, precursore necessario per una sana vita relazionale che non sia più autocentrata, ma orientata al riconoscimento della prospettiva dell’altro. Già dopo i 2 anni i bambini sono infatti in grado di attivare comportamenti di supporto affettivo, abbracciando e accarezzando gli amici in difficoltà, porgendo loro gli strumenti oggettivi, come i giochi affettivi più significativi, che possono essere di supporto all’altro.

Ma affinché tutto ciò possa avvenire nella fluidità di un’esperienza costruttiva, appare necessario l’intervento di una presenza co-
regolante
, in grado di approcciarsi al bambino leggendone i bisogni emotivi primari, restituendo un senso ai suoi vissuti, psichici e corporei, incoraggiandone la sperimentazione di nuove esperienze, ponendosi in una posizione non giudicante o critica che rischierebbe di minacciare il sistema di rappresentazione di un Sé identitario e di intaccare il senso di autostima e di autoefficacia percepito. La consapevolezza nel bambino di un adulto presente, responsivo, disponibile emotivamente e con il quale è possibile comunicare su più livelli contribuisce alla costruzione della capacità del piccolo di gestire autonomamente il mondo emotivo e di affinare la propria abilità nella regolazione delle emozioni durante le sue interazioni familiari e sociali.

COMUNICARE LE EMOZIONI IN TERAPIA FAMILIARE: IL BAMBINO COME “ESPERTO”

Per molto tempo il bambino che manifestava un disagio psicologico più o meno importante è stato preso in carico da solo, con i professionisti concentrati sulla sua patologia e tendenti a escludere dall’intervento clinico i genitori: si lasciavano, così, spesso madri e padri in sala d’attesa, estraniati da quanto accadeva nella stanza di terapia. Come afferma Andolfi (2015), la presa in carico dell’intero nucleo familiare consente al bambino “problematico” non solo di venire de-patologizzato, ma addirittura di diventare un valido “co-terapeuta”, riconoscendo e utilizzando in terapia la sua competenza relativa al mondo relazionale e affettivo della sua famiglia: »I bambini sono testimoni delle relazioni adulte dal momento in cui nascono e ancor prima, se pensiamo che la formazione della triade primaria ha inizio durante il periodo della gravidanza. I bambini hanno imparato a conoscere bene i propri genitori e sono in grado di comunicare al terapeuta il loro punto di vista sulle vicende familiari, nella misura in cui riusciamo a dar loro voce in seduta«.

La possibilità di ascoltare il bambino riconoscendo la sua competenza soprattutto riguardo alle emozioni degli adulti rende il rapporto terapeutico ricco e proficuo; mostrare interesse e rispettare le opinioni dei bambini sulle relazioni e sulla qualità della comunicazione presente tra i familiari consente di ricevere in cambio informazioni preziose e indispensabili per entrare in contatto emotivo con la famiglia stessa.

Sono i bambini che attraverso l’espressione del loro malessere danno spesso modo a genitori in difficoltà di ricevere l’aiuto del terapeuta; e quest’ultimo, cogliendo il messaggio implicito nel comportamento problematico del bambino, ha l’occasione di rileggere i ruoli e le funzioni familiari secondo una posizione privilegiata, che è proprio quella del suo piccolo “co-terapeuta”.

Il bambino in seduta è dunque una risorsa irrinunciabile ed è proprio lui che apre le porte della famiglia, esprime desideri nascosti, decifra la mente degli adulti e porta all’esterno il disagio dell’intera famiglia tramite la sua capacità di leggere e riconoscere nell’altro emozioni profonde al di là delle parole: »Lo vedo dagli occhi« afferma una piccola paziente descrivendo lo stato d’animo degli adulti, mostrando come la comunicazione tra bambini e genitori in uno stato di sofferenza passi attraverso lo sguardo e l’espressione del volto, in quel mondo di comunicazione non verbale del quale i bambini sono dei veri esperti (Pratelli, 2012).

Alessandra Salerno, psicologa e psicoterapeuta, è professore associato in Psicologia dinamica all’Università di Palermo. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Gli scenari della paternità nella psicologia contemporanea (con M. Tosto, F. Angeli, 2019).

Marzia Movarelli, psicologa e psicoterapeuta individuale e di gruppo, è socio fondatore dell’associazione culturale Libero Gioco di Palermo.


Bibliografia

Andolfi M. (2015), La terapia familiare multigenerazionale. Strumenti e risorse del terapeuta, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Bick E. (1964), «Notes on infant observation in psychoanalytic training», International Journal of Psychoanalysis, 45, 558-566.
Caravita S., Milano L., Traficante D. (a cura di, 2018), Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, Il Mulino, Bologna.
Pratelli M. (2012), “Lo vedo dagli occhi”. I bambini e la terapia familiare, Franco Angeli, Milano.
Saarni C. (1999), The development of emotional competence, Guilford Press, New York.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 285 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui