Massimo Montebove

“Io razzista? No, ma…”

"Non sono razzista, ma..." oppure "Non sono intollerante, però..." o ancora "Io rispetto tutti, anche se...". Chi, quotidianamente, non legge o non ascolta queste espressioni? Magari siamo anche noi tra coloro che le pronunciano. 

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Si tratta di frasi caratterizzate da congiunzioni avversative, da un punto di vista grammaticale vengono cioè legate due parole o due proposizioni che risultano in contrasto.

Questo, a sua volta, nasconde un disagio più profondo, una vera e propria dissonanza cognitiva che sovente serve a dissimulare una realtà ben diversa. Dire "Io non sono razzista, ma per me gli africani dovrebbero stare a casa loro", ad esempio, significa né più e né meno essere razzisti. E a poco valgono le spiegazioni che in genere vengono addotte per giustificare tali contraddittorie affermazioni.

Del resto, in psicologia, questi meccanismi sono ben chiari ed esserne consapevoli può aiutare a riflettere sulle proprie convinzioni e sui propri modi di agire. Partiamo da un fenomeno che caratterizza ciascuno di noi: mi riferisco alla categorizzazione sociale, a quel processo che avviene per la necessità che abbiamo di semplificare l'ambiente sociale.

Ogni giorno entro in contatto con persone che non posso conoscere in modo approfondito, ma con le quali c'è esigenza di rapportarsi. Allora ci affidiamo a tale processo per comprendere meglio le cose, classificando tutto all'interno di categorie sociali che sono funzionali alla "schematizzazione" delle persone, in conformità a tipologie quali l’occupazione, il sesso, l’etnia, la religione o la nazionalità. Questo ci permette di fare inferenze comportamentali: in buona sostanza, ci aspettiamo determinati comportamenti da chi appartiene a una certa categoria o gruppo. Proprio così riusciamo a soddisfare l'esigenza innata in ciascuno di noi che è quella di "spiegare" l'ambiente che ci circonda, di semplificarlo, come detto, per renderlo comprensibile.

Un processo fisiologico che spesso, troppo spesso, porta a un eccesso di categorizzazione e quindi alla stereotipizzazione, a generalizzazioni non supportate da adeguate analisi fattuali che sono prodromiche ai pregiudizi. Si tratta di un (corto)circuito molto frequente, alla base dei meccanismi cognitivi del razzismo e dell'intolleranza. Sia chiaro: non tutti coloro che hanno pregiudizi sono razzisti, ma è altrettanto vero che tutti i razzisti hanno dei pregiudizi.

Oggi, nella vita reale come (soprattutto) sui social, prevale l'atteggiamento degli haters, odiatori seriali potremmo definirli, persone il cui comportamento è dettato, in primo luogo, dalla paura come risposta al "diverso", dall'estremizzazione del concetto di appartenenza visto come esclusiva e non inclusiva, dalla proiezione dei propri difetti e disagi sugli altri che sono oggetto di odio e, fondamentalmente, da una sempre più diffusa incompetenza emotiva, cioè l'incapacità di integrare pensieri e sentimenti prima di agire.

Questi aspetti psicologici, ovviamente, inquadrano una parte del problema "razzismo" che deve essere invece letto in un contesto più generale, direi olistico, dove i fattori culturali e sociologici, l'istruzione e il quoziente intellettivo incidono non poco.

Non a caso, uno studio pubblicato nel 2012 dall'autorevole rivista Psychological Science, effettuato su un database britannico di più di 15 mila soggetti, cui è stato misurato il Qi all'età di 10 o 11 anni e che sono stati analizzati una volta superati i 30, dimostra che se si ha un basso quoziente intellettivo da piccoli è più probabile sviluppare pregiudizi da adulti. Che cosa possiamo fare, dunque, concretamente? A mio avviso una cosa sola: dialogo. Non quello delle piattaforme social, ma quello reale. Partendo dai propri amici e dalla propria cerchia di conoscenze. Partendo da se stessi, se necessario. Perché in ognuno albergano stereotipi e pregiudizi. Saperci guardare dentro per poter vedere meglio fuori. Questa, forse, è l'unica strada da percorrere.