Pino De Sario

Il capo facilitatore

L’importanza di una figura di riferimento, all’insegna della semplificazione dei processi organizzativi e del problem-solving.

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In materia di leadership, non si sentiva di certo il bisogno di un altro modello, visti i tanti che in questi ultimi anni si sono affacciati sul palcoscenico delle aziende. Il presente articolo, quindi, non ha finalità modellistiche, bensì di mero aggiornamento su un’ipotesi in cui il capo unisce e facilita. Gli studi sul cervello ci dicono che facilmente le nostre capacità di adulti – capacità complesse e riflessive – crollano perché insidiate da funzioni innate grevi, terra terra, primitive. E sempre il cervello ci permette di dialogare solo se aiutato da alcune capacità nuove specifiche che qui vediamo. Altrimenti deborda nella fretta, nel possesso vorace, in varie forme di scorciatoie. Il capo facilitatore chi è allora? Forse voi direte un missionario, un monaco votato alla comprensione? E ancora, è pensabile che le organizzazioni, che nei decenni, a fatica, hanno potuto assorbire la variabile della persona, dandole volto e speranza, affiancandola al ruolo produttivo, possano tener conto di un terzo fattore dirimente? Non bastano il ruolo e la persona! Cosa occorre aggiungere ancora?

Ruolo, persona e specie: l’esordio della natura 

Le figure di comando in azienda sono state chiamate in tutti i modi: “leadership situazionale”, “trasformativa”, “visionaria”, “per il cambiamento”, “condivisa” e “sistemica”. Ecco, possiamo immaginare un filo che corre orizzontale (Fig. 1) a questi approcci, un enzima – la facilitazione – che mette questi stessi modelli in grado di passare dal loro disegno ideale al piano della realtà. Il punto che qui ci interessa di più.  Un esempio: pensare che la continua spinta a nuovi obiettivi non crei anche agitazione e quindi scontri più frequenti tra colleghi e uffici è un pensiero idea­le e poco reale. Come è ideale il costante richiamo a fare squadra, tra la produzione e il commerciale, non tenendo conto delle reciproche resistenze. Per non parlare di attaccamenti e possessi che si materializzano su sedie, computer, stanze, funzioni, come manifestazione quotidiana di chiusure, infantilismi, regressioni. Gestire davvero le persone è il compito più difficile, ancora di più al tramonto delle autorità e dei paternalismi del secolo passato. 

fig 1.png Il capo facilitatore questi aspetti li vede, li subodora da tempo, comprende che tra un piano ideale e quello reale c’è uno scarto vastissimo, che le persone, gli umani, per primo lui (o lei), sono strani, ondivaghi, ambivalenti e che occorre imparare a prenderli per il verso giusto. E per fortuna non ci sono più le salvifiche formule novecentesche, tra cui la minaccia, il dividere, lo stigma sul malcapitato, la persuasione fondata sull’ignoranza, e più in generale il granitico, l’incrollabile, il fedele e via di quel passo. I nuovi avventi degli ultimi lustri ci devono spingere a nuove culture, a nuovi strumenti e atteggiamenti su come prendere le persone. Da alcuni autori questa è denominata la «spinta gentile».
“Funzionalmente” è un termine che richiama il grande apparato innato presente in noi persone; tutte, davvero tutte, attraversate da medesimi funzionamenti naturali, che abbiamo dalla nascita, per il gioco del camminare, del pensare e del parlare. Oltre a “ruolo” e “persona”, quindi, nel linguaggio del capo facilitatore fa esordio la parola “specie”. Al tavolo di riunione e in ufficio sono parimenti importanti i riflessi che derivano funzionalmente dal cablaggio neurocerebrale (la specie), come quelli assegnati da obiettivi produttivi (il ruolo), oltre ai filtri temperamentali di introversione ed estroversione, pessimismo e ottimismo (la persona). Siamo esseri natural-culturali.

La razionalità limitata

Ma allora il capo facilitatore, oltre ad essere un po’ “monaco”, deve anche improvvisarsi “neuro-qualcosa”? Per primo ci è arrivato il sociologo Herbert Simon a chiamarla «razionalità limitata», idea secondo cui, durante il processo decisionale, la razionalità di un individuo è limitata dalle informazioni che possiede, dai limiti della sua mente, dalla quantità limitata di tempo di cui dispone. Poi sono arrivati gli studi di Daniel Kahneman (2012) e Amos Tversky, secondo cui una decisione deve caracollare nelle sabbie dell’avversione alle perdite, per cui, per quasi tutti noi, la motivazione a evitare una perdita è superiore alla motivazione a realizzare un guadagno. Infine, ecco gli studi recenti dell’economia comportamentale e della «spinta gentile» di Richard Thaler (2018), che nello studio dell’economia riconosce le limitazioni evidenti nella razionalità degli individui, ai soliti strumenti matematici di massimizzazione dell’utilità preferendo la ricerca volta a scoprire gli aspetti delle preferenze e delle influenze sulle scelte delle persone. 
Se partiamo dunque da questo piano, che vede il comportamento (umano, sociale e organizzativo) quale luogo di latenti flop, di incongruenza e ambivalenza, occorrono nuove mappe, che le stesse psicologia sociale e psicologia del lavoro a mio avviso non riescono a dare. Su questo versante, con un piglio empirico fondato sull’osservazione, da anni con colleghi (Liss, 1992; De Sario, 2017) stiamo cercando di allestire i metodi della “facilitazione esperta”, un compendio di strumenti semplici, sintetici e realistici, ad uso di adulti – capi appunto –, gruppi, organizzazioni. Per passare dalle prediche, fondate su idealizzazioni e teorie, alle pratiche, imperniate su realismo funzionale e applicazioni; dal come si dovrebbe essere al come concretamente si è.
 

Gestione delle persone con metodo
Vediamo quali sono i punti di indirizzo qualificante di un capo facilitatore.
1. Aumento delle risorse in gioco: il suo obiettivo è l’azione, ma anche la manutenzione delle persone, tramite forme alternate di cura dei compiti, come pure dei vissuti.
2. Trasformazione di interessi particolari in interessi di insieme: operare il passaggio dalla “sindrome dell’orticello” alla “cultura del campo”, un cambio che comporta barriere e resistenze.
3. Fare e parlare, il nesso di produzione e partecipazione: sviluppare metodi e culture del lavoro che possano rinforzare l’incontro moderato tra i due piani, provando a contenere i reciproci eccessi.
4. Saper unire: essere ben consci delle tante forze che dividono. Forze interne alla persona (bio), forze interne ai gruppi (psico), forze tipiche degli ambienti organizzativi e delle culture (socio).

Il capo facilitatore sa bene che le aggregazioni di persone, se poste sotto pressione, possono regredire a credenze o bisogni inconsci più primitivi, che continuano a esistere come relitti di modelli di comportamento molto più antichi, in quanto forme di risposte di gruppo automatiche in presenza di pericolo.

Emozioni e matericità sono più forti della ragione
Se fossimo a razionalità illimitata avremmo un cervello delle stesse dimensioni, piuttosto grande, ma composto da una sola tipologia di circuiti. Cosa che invece non abbiamo: anzi, ne presentiamo addirittura 3 tipi. Contiamo su 3 cervelli distinti, che nella nostra lunga storia evolutiva si sono andati conformando in 3 distinte epoche: l’epoca rettiliana (materico-corporea, nell’accezione di “materico” come incontro tra materialità, fisicità e corporeità; la convergenza di varie necessità e pulsioni, tra cui concretezza, tornaconto, evidenza fisica dei fenomeni, bisogno inconscio di sopravvivenza); l’epoca paleomammifera (emotiva); l’epoca mammifera (razionale). Nella sua evoluzione il nostro cervello si è esteso in maniera notevole, mantenendo tuttavia le caratteristiche di 3 formazioni, che riflettono la dinamica conflittuale tra riflessi assai primitivi centrati sul mangiare, il bere e basta, con automatismi umorali che hanno effetti enfatici e divisivi, con infine capacità immani di visione, immaginazione, convivenza, tutte a sfondo ragionatore.
Il nostro comportamento, così, è il prodotto di livelli molto bassi e gretti, comunque nobili perché centrati sui bisogni essenziali materiali; di atmosfere emotive, di umore, di avvertenze aeree percepite, spesso annusate, proiettate. Ma è frutto anche del governo della ragione, della riflessione, del calcolo, della moralità, sebbene basti pochissimo all’interno di vari episodi quotidiani, in cui le traversie lavorative divengano precarie e insicure, perché, come dei “clic” di un termostato, scattino il cervello rettiliano, materico e regressivo, e quello emotivo, enfatizzante e fuorviante. Per questo nei gruppi di lavoro talora assistiamo a comportamenti stravaganti, imprevisti, ambivalenti, a forme di legnosità e lagna, a rigidità, timore eccessivo, rabbia inconsulta, resistenza dura a cambiamenti e novità.

Si conferma, quindi, il concetto già sopra illustrato: non è vero che siamo solo soggetti razionali, composti, conseguenziali tra ciò che diciamo e ciò che facciamo, sempre congruenti tra ciò che predichiamo e ciò che davvero riusciamo a fare. Non è così. Un capo facilitatore, come prima cosa, abbraccia questo concetto integrato natural-culturale nel quale i fenomeni quotidiani in ufficio o in officina vengono letti sotto questa lente binoculare.
Ma perché richiami materiali ed emozioni sono più forti della ragione? Sono aspetti che la ricerca ancora non ha definito nella loro interezza. Per gli studi di questi anni e anche per la personale osservazione nelle aziende possiamo azzardare alcuni elementi: a) i due cervelli più antichi hanno più storia, rispetto al cervello più moderno (la corteccia) e quindi un maggiore automatismo inconsapevole; b) i due cervelli sono più incorporati e quindi godono di aree fisiche e nervose più ampie e per questo più amplificate; c) i cervelli “bassi” sono veloci e la corteccia lenta e pigra, proprio per sue caratteristiche costitutive; d) la corteccia è, per così dire, “democratica” rispetto agli altri nostri ospiti cerebrali, i quali se la cavano con schemi ruvidi di “bene/male” e “sì/no” (come quando uno vuole articolare un pensiero e l’altro, strafottente, gli risponde a monosillabi).

Il grappolo delle capacità
fig 2.png Il grappolo (Fig. 2) illustra le capacità nuove dell’unisci e facilita, al tramonto di quelle usanze retrive e non più sostenibili del divide et impera. Vediamole in sintesi.

Il capo per prima. Nella gestione post-novecentesca di gruppi e uffici, ci sembra importante affermare che sono i capi, i direttori, a dover fare il primo passo, sulla strada di un nuovo “stile di convivenza lavorativa”. Sia perché sono essi stessi fonti di insorgenza di negatività sia perché sono da esempio per i loro team.

Direttivo e partecipativo. F1-guidare (“F” sta per “Facilitazione”): leadership “integrata”, che sia al tempo stesso direttiva e partecipativa. Entrambi gli stili presentano vantaggi e svantaggi. Occorre muoversi sul continuum, alternando ora uno e ora l’altro, in base a: a) le condizioni personali di quel momento; b) colui che si ha di fronte; c) quali sono le necessità produttive del momento. 

Aiutare, attivare, coinvolgere. F2-coinvolgere: nei piani comunicativi agiscono barriere che riducono i messaggi in forme distorsive, motivo per cui occorre introdurre il “pendolo Sé-Altro”, fondato su forme dialettiche e dialogiche. F3-aiutare: accogliere, contenere e trasformare gli episodi conflittuali con la cosiddetta “capacità negativa”, per gestire il comportamento negativo con una doppia sequenza: esplorare e agire. F4-attivare: attivazione e positività, sviluppo di conoscenza e apprendimenti centrati sull’esperienza, sul sentimento e sulle relazioni.

Parole, emozioni, corporeità. Il prototipo di fare gruppo è l’incrocio di questi 3 piani – parole, emozioni, corporeità –, ovvero: a) scambi comunicativi circolari che mettano in minoranza la dittatura del monologo, per immettere inclusione; b) centralità delle emozioni, che di per sé stesse non sono solo fuorvianti (lo sono davvero!), ma portano anche forti dosi di vitalità, intuizione, velocità, carica di senso; c) una nuova attivazione corporea, simboleggiata dalla sedia, ma anche dalle gambe, che bisogna muovere e far andare.

Unire persone e gruppi. Quando proviamo a mettere insieme due tendenze differenti, due reparti, due persone, contribuiamo all’aumento delle risorse. Quando differenze, persone e tendenze si collegano, tendono a generare nuova vitalità. La regola-base per unire è distinguere le parti e poi collegarle. Unire = distinzione + collegamento, fenomeno che mette in moto modalità spiccatamente trasformatrici.

Concludiamo dicendo che il capo facilitatore non è un monaco, non è un “neuro-qualcosa”, è solo una persona che riveste un ruolo importante di guida, la quale sa che senza i collaboratori non va da nessuna parte, come del resto neanche loro. Il capo facilitatore è un soggetto appartenente a una specie, i mammiferi sapiens, a forte caratura sociale, ultra-sociale, che ha il business in testa ma anche una laica dimensione socializzante e umana. Senza questa, il capo non va da nessuna parte, perché per andare da una parte servono tutti e due. All’insegna di tre qualità: produttività, protettività, costruttività.

Le tecniche del capo facilitatore

  • Apprezzamento: forma di valorizzazione altruistica, tramite brevi riscontri verbali positivi su azioni svolte con capacità.
  • Brevità e ritmo, cambio turno: unità di misura del coinvolgimento; il monologo esclude, il cambio turno include già di suo, occorre cioè far girare la parola.
  • Ascolto attivo: ascolto dotato di attenzione e immedesimazione, di vicinanza ai fatti riepilogati e ai vissuti impliciti.
  • Tipi di feedback: arte della domanda e dell’intercettare i messaggi del collaboratore, la via più espressa per comprendere l’altro e le situazioni lavorative che va illustrando.
  • Mediazione tra le parti: in casi di contrasti e divergenze tra persone, occorre prima far emergere le reciproche critiche, per poi far seguire i possibili accordi.
  • Parola chiave e direzionale: forma di ascolto attrezzato in casi di negatività e delusione, capacità di cogliere la parte essenziale, per passare dalle opinioni vaghe ai fatti situati.
  • Senti-momento: brevi momenti in riunione in cui l’attenzione va anche sul sentimento, sul mondo percettivo di come si avverte il problema, e non solo di come lo si descrive tecnicamente.
  • Corpo piccolo: forme di mobilizzazione alquanto piccole da farsi in riunione: corpo fermo è sinonimo di mente persa e distratta; corpo mobile, di mente attenta che ricorda. 
  • Terzo tempo: riparazione post-conflitto, nel cui ambito può esserci una rosa di funzioni, dall’autocritica alle scuse, dalla chiarificazione al rinforzo direttivo di una data funzione.
  • Cambio di cappello: tecnica che sta per “cambio di ruolo”, da capo a facilitatore e viceversa; serve per marcare la posizione che il capo assume in quel dato momento.
  • Riunione produttiva: 3 sequenze (espressiva, regolativa, performativa) che vanno accompagnate con ritmo e metriche comunicative differenti.
  • Riunione di ascolto: riunioni senza ordine del giorno, centrate sulle persone, dove è escluso il dibattito “giusto/sbagliato” e al cui centro si alternano brevi turni di racconto personale e di ascolto.

Pino De Sario da anni è consulente e formatore in “facilitazione esperta” nelle aziende. Psicologo dei gruppi, ha insegnato Strumenti di facilitazione nel conflitto all’Università di Pisa.
www.pinodesario.it


Riferimenti bibliografici:
De Sario P. (2005), Professione facilitatore, Franco Angeli, Milano.
De Sario P. (2017), L’intelligenza di unire, Mimesis, Milano-Udine.
Kahneman D. (2012), Pensieri lenti e veloci (trad. it.), Mondadori, Milano.
Liss J. (1992), La comunicazione ecologica (trad. it.), La Meridiana, Molfetta.
Thaler R. (2018), Misbehaving. La nascita dell’economia comportamentale (trad. it.), Einaudi, Torino.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 278 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui