Intervista a: Luciana d'Ambrosio Marri
di: Paola A. Sacchetti

I giovani oggi non hanno voglia di lavorare. Ma è davvero così?

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In queste settimane si stanno susseguendo, quasi in un “botta e risposta”, le notizie su giovani e lavoro.

Da una parte, leggiamo di molte piccole o grandi aziende che dichiarano di non riuscire a trovare personale perché i ragazzi non hanno voglia di lavorare, non vogliono lavorare la sera e nei week-end, hanno pretese “esose” (compensi chiari, orario di lavoro definiti e giorni di riposo stabiliti).

Dall’altra, leggiamo notizie di offerte di “lavoro” che con questo termine hanno poco a che fare: chi cerca personale giovane e senza vincoli familiari, chi propone compensi orari di 2-3 euro lordi, chi non vuole nemmeno parlare di contratto perché c’è il “mese di prova” non retribuito, chi non prevede busta paga, ma solo compensi in nero… chi, ancora, cerca giovani con esperienza pluriennale ma da pagare come stagisti…

Sarebbe opportuna un’analisi più ampia, che prenda in considerazione anche gli aspetti psicologici che portano i ragazzi a rifiutare lavori “volontari” o senza opportunità di crescita, professionale e contrattuale, sottopagati o spesso pagati in nero.

Chi “lavora”, infatti, lo fa in una modalità quasi schizofrenica: molte ore di lavoro a fronte di nessuna garanzia né di compensi adeguati. Dagli stage o tirocini non retribuiti, a cui al massimo viene previsto un “rimborso spese” irrisorio, dalle “prove” gratuite, ai contratti “atipici”, che sono diventati la maggioranza e che in molte realtà sono formule miste di lavoro dichiarato in minima parte e al nero nella restante. Senza considerare la pletora di “autonomi” e “liberi professionisti” – spesso costretti ad aprire Partita Iva perché ormai troppo “vecchi” o troppo “costosi” per l’azienda per essere assunti – che accettano compensi ridicoli pur di lavorare.

Dott.ssa d’Ambrosio Marri, come si approcciano i ragazzi di oggi al mondo del lavoro? Quali sono i bisogni che cercano di veder soddisfatti in un rapporto professionale, e di cui dovrebbero tener conto i datori di lavoro? Quindi quali sono le motivazioni che spingono un giovane a rifiutare un lavoro?

Le nuove generazioni offrono sfumature differenti anche tra loro, oltre che differenze più nette da genitori e nonni, per quanto “giovanili”! Alcuni sono diamanti grezzi che possono sprigionare alte potenzialità, alcuni sono Neet, (Not in education, employment or training), cioè non studiano, non lavorano, né sono impegnati in attività temporanee di formazione. Praticamente non fanno nulla. Ad alcuni fa comodo, ad altri crea frustrazione. Altri sono dentro le libertà e le contraddizioni della gig economy, per cui scelgono un lavoro che li impegni in modo più libero, ma contemporaneamente sono sottopagati e solo recentemente hanno avuto una parvenza di regolarizzazione contrattuale, oppure ripiegano su questa scelta in attesa di una vera e propria stabilità lavorativa. Perché, a proposito di motivazioni, oggi il bisogno di sicurezza (evocata da Maslow e Herzberg) non è passato di moda, ma si esprime in altri modi, per cui conta sì la retribuzione dignitosa, ma per molti questa va associata alla possibilità di un maggiore equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, soprattutto rispetto all’autonomia nella gestione del tempo.

Dovrebbe far pensare il fenomeno del South working, per cui, in periodo di pandemia, molti giovani che erano andati a lavorare all’estero (meglio pagati, meglio riconosciuti, e con rapide prospettive di crescita dentro imprese intelligenti da un punto di vista gestionale) hanno deciso, chiesto e ottenuto di rientrare nella zona di origine, soprattutto al Sud, mantenendo il lavoro svolto però a distanza. Questo sta creando un positivo effetto volano per le economie locali, per la qualità della vita dei giovani e di borghi e località che si stavano spegnendo. Insomma, nuove direzioni di sviluppo. Capire che le motivazioni sono qualcosa di più complesso e che oggi vanno oltre il concetto di “paga” è un salto di qualità che necessita da parte del datore di lavoro apertura mentale, non solo di portafoglio.

C’è un cortocircuito tra ciò che si aspettano i datori di lavoro e quello che invece ricercano i giovani. Senz’altro, decenni di ribasso dei compensi di lavoratori autonomi, atipici e libero professionisti e l’inamovibilità delle buste paga dei dipendenti influenzano le “pretese” di chi cerca personale.

Possiamo sperare vi sia una “presa di consapevolezza” collettiva che porti a rivedere questa tendenza?

In Italia c’è un dato drammatico: il numero dei Neet è tra i maggiori d’Europa e, ancor peggio, è il Paese Europeo dove dal 1990 lo stipendio medio dei lavoratori è diminuito (secondo dati Openpolis e OCSE ). E pensare che in Europa le retribuzioni siano cresciute anche durante la pandemia fa guardare positivamente all’estero, ma certo è deprimente guardando al nostro Paese. Anche perché lo scenario fuori da casa nostra dimostra che si può! È questione di visione, investimenti incrociati, prospettive di sviluppo e non logica di rattoppi a situazioni già negative.

In molte grandi aziende, prima della pandemia e di certo dopo, si sono sviluppate politiche di valorizzazione delle persone, di tutte le età e generazioni, delle competenze hard e soft. Ragazzi e ragazze vengono assunti e visti come un patrimonio da valorizzare e formare.

Da molti datori di lavoro l’età in cui si potrebbe progettare la genitorialità, soprattutto se si è donna, viene affrontata con politiche che sostengono, non discriminano, non penalizzano le donne su carriere e rientri al lavoro. Alcuni aumentano i permessi di paternità e genitorialità ben oltre quanto previsto dalla normativa. E ciò accade anche in imprese medio piccole, sì, ma illuminate. Per altri, invece è una questione scomoda: c’è chi preferisce assumere donne che hanno superato gli “anta” e lo dice, c’è chi lo fa ma non lo dice. Il problema comunque esiste perché in Italia, dove è inesistente il tasso di natalità da anni, il futuro è buio: persistere in politiche prive di servizi sociali a tutto tondo e di welfare a sostegno, non delle donne come tali ma della genitorialità, continua ad alimentare quel circolo vizioso per cui sono molte le donne che dopo il primo figlio, e soprattutto dopo il secondo, lasciano il lavoro e altre che non si inseriscono proprio nel mondo lavorativo perché risolvono così il dilemma della scelta tra figli e lavoro. È un dilemma a cui lo Stato nei fatti costringe chi non ha grandi possibilità. Uno Stato cieco, che spreca risorse in tutti i sensi, non solo capacità e competenze delle donne (che tra l’altro sono sempre più istruite degli uomini), perché i numeri dimostrano che, ovunque le donne siano fortemente presenti nel mondo del lavoro e anche in posti apicali, il tasso di natalità è maggiore… Più chiaro di così!

Credo quindi che il problema non sia questione di consapevolezza, che ormai fa parte anche del politicamente corretto, ma di coraggio a cambiare schema, mentalità, approccio. La resistenza ai cambiamenti assume tante forme, purtroppo, e il lavoro da fare è molto, ancora molto.

Secondo una ricerca Acli-IREF, 1 lavoratore su 4 entro i 40 anni ha uno “stipendio da povero”. Forse, come afferma Stefano Tassinari, Vicepresidente nazionale delle ACLI, «Serve mettere in campo un’economia che cerchi la produttività non al massimo ribasso dei costi del lavoro e dei fornitori ma, come fanno alcune realtà di eccellenza, nel lavoro di qualità, nella crescita professionale e individuale delle persone che lavorano, nella partecipazione e nella collaborazione con loro». Cosa ne pensa? Questa potrebbe essere una soluzione?

Certamente, e ciò è collegato a quello che dicevo prima. E continuare a pensare che le risorse siano infinite, e che analogamente il progresso sia sinonimo di sviluppo esponenziale all’infinito, è un boomerang. Le dinamiche di finanza, economia, fenomeni di scenario, limiti della globalizzazione che lascia i segni, cambiamento climatico sono tutti fattori che stanno mostrando l’altra faccia della medaglia: stanno rendendo visibile l’illusione di una crescita all’infinito e i dati delle disuguaglianze che aumentano sono testimoni anche di questo.

Inoltre, è il concetto del “comunque a ribasso” che non funziona: significa adottare verso il lavoro una cultura arcaica, primitiva, da padrone delle ferriere, o tendere a un paternalismo che dietro la facciata della “pacca sulla spalla”, vede ancora chi lavora come qualcosa che va solo “sfruttato”, anziché come una persona – miscela di bisogni, idee, capacità spesso inespresse e che, certo, ha i suoi limiti. Ciò non toglie, purtroppo, che esistano parecchi giovani e meno giovani che preferiscono comodamente continuare a vivere la loro adultescenza, con genitori che magari a fatica li mantengono, ma che contemporaneamente consentono loro di crogiolarsi in una nicchia di privilegio, rifiutando di assumersi responsabilità e logiche sia di adattamento sia negoziali anche sul lavoro, dove vorrebbero “tutto e subito” in nome di un approccio per cui spetta all’altro darti qualcosa, “quasi a prescindere” da una logica ovvia di scambio.

Nell’ultimo anno, probabilmente anche come conseguenza della pandemia, in molti hanno abbandonato un lavoro insoddisfacente per cercare altro. Sono cambiati i bisogni delle persone: verso quale direzione ci stiamo muovendo? Cosa potrebbero fare le aziende per “trattenere” lavoratori insoddisfatti?

La Great Resignation, le grandi dimissioni volontarie, è un fenomeno con numeri in crescita soprattutto tra giovani di età tra i 26 e i 35 anni, alla ricerca di un lavoro più a misura sul fronte del tempo e del riconoscimento retributivo.

Ma vediamo l’incalzare anche del Great Reshuffle, cioè del grande rimescolamento, perché dopo lockdown e pandemia, le persone hanno avuto modo di pensare alla propria vita, forse per la prima volta, e ora si attivano per cambiare lavoro, cercando nuovi equilibri a salvaguardia di nuove priorità. Oggi sono richieste figure qualificate, ma non solo. E tra i bisogni delle persone vi è maggiore desiderio di flessibilità e attenzione a tanti aspetti di qualità e salute della vita. In poche parole, in molti cercano di lavorare in un’impresa che attivi qualche politica di welfare. Nei colloqui di selezione sono sempre più diffuse le domande “È possibile lavorare in smart working?” oppure “Cosa fa l’azienda come impegno etico e di responsabilità sociale?”.

Ecco allora cosa possono adottare le aziende su questi aspetti.

Logiche inclusive di gestione delle persone, che non significa ricerca del consenso a tutti i costi, ma implica muoversi in modo partecipato, attivando stili di leadership che prevedano un autentico rispetto dell’altro (non la manipolazione) e la valorizzazione delle differenze di ogni tipo (età, orientamento sessuale, cultura, dis-abilità). Prese di decisione che siano sostenute dal coinvolgimento delle persone, processi motivazionali gestiti secondo logiche meritocratiche vere e non di accontentamento parziale e al ribasso per tutti. Essere, come azienda, coerente tra ciò che si dichiara nella mission (spesso scritta nel sito) e i comportamenti di direzione e premiati nella vita organizzativa, dotarsi di strumenti di ascolto dei dipendenti, fare colloqui ciclici di check motivazionali, adottare politiche attente alla sostenibilità, offrire retribuzioni decenti insieme a opportunità di formazione, individuare strumenti di welfare aziendale che permettano alle persone di gestire meglio il proprio tempo e quindi la propria vita.

Sono tutti elementi possibili su cui le aziende possono impegnarsi e sono già in molte a farlo. Non si tratta di costruire aziende formato eden, ma di rendersi conto che innovazione, business, qualità delle prestazioni e ben-essere delle persone che lavorano sono fattori che possono non solo convivere, ma addirittura produrre valore aggiunto per l’intera comunità organizzativa. E non solo.

 

Luciana d’Ambrosio Marri, Sociologa del lavoro, specializzata in psicologia del lavoro e in gestione dei processi formativi, è da più di trent'anni consulente Risorse Umane su selezione, formazione, diversity & inclusion management, sviluppo delle persone e benessere organizzativo. Counselor e coach, docente in master universitari e di scuole di Management, è autrice di numerosi saggi e articoli, tra cui Conflitti. Come leggere e gestire i contrasti per vivere bene (con Andrea Castiello d’Antonio, Giunti, 2019) e Risorse umane e disumane. Come vivere oggi sul Pianeta R.U. (con Andrea Castiello d’Antonio, Giunti, 2017).

Paola A. Sacchetti, psicologa, formatrice, editor senior e consulente scientifico, da anni collabora con Psicologia Contemporanea, dove cura una parte della rubrica “Libri per la mente” e le “Interviste all’esperto”.