Silvia Bonino

Che cos'è il bullismo?

Per prevenirlo a fondo o risolverlo, il bullismo va inteso per ciò che effettivamente è e non confuso con una generica aggressività. A caratterizzarlo è una relazione non paritaria fra i contendenti: il/i prevaricatore/i e la vittima.

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Nel 1997 venne pubblicato il primo libro che investigava il bullismo in Italia; esso raccoglieva i risultati del primo lavoro di ricerca sul fenomeno delle prepotenze a scuola, dal Piemonte alla Sicilia, come recitava il sottotitolo. La ricerca, iniziata alcuni anni prima, era stata promossa e coordinata da Ada Fonzi, che curava anche il volume. Si trattava di un lavoro pionieristico, perché lo stesso termine “bullismo” allora era di fatto sconosciuto nel nostro Paese.

Mentre a livello internazionale gli studi erano ormai numerosi, in Italia il fenomeno era quasi ignorato, pur non essendo certo inesistente o nuovo, come attestato da numerose testimonianze personali e letterarie. Da allora molto è cambiato e gli studi sul bullismo, sulla sua diffusione e sulle sue caratteristiche, sono ormai numerosi. Le conoscenze sul fenomeno sono oggi ampie e approfondite e permettono non solo di descriverlo ma soprattutto di lavorare per prevenirlo, con buoni risultati. 

Ascoltando le notizie di cronaca si ha però la sensazione che manchi la consapevolezza su che cosa il bullismo sia realmente. Il termine viene spesso usato per indicare, in modo generico, tutti i comportamenti aggressivi tra bambini o ragazzi; esso è ormai diventato una sorta di etichetta che viene applicata a qualunque comportamento lesivo nei confronti degli altri, sul piano fisico o psicologico.

La questione non è nominalistica, perché il bullismo è un tipo particolare di comportamento aggressivo, che ha caratteristiche proprie e che richiede di conseguenza interventi specifici di prevenzione e cura. Identificare ogni comportamento aggressivo con questo termine significa annullare e non comprendere le differenze, impedendo interventi efficaci.

Che cos'è il bullismo?

Che cos’è dunque il bullismo? Non un qualunque atto aggressivo intenzionale isolato, ma un comportamento di prepotenza ripetuto nel tempo fra un individuo o un gruppo contro un compagno che non si colloca alla pari e che diventa bersaglio di soprusi e vittima designata.

Il termine italiano “prepotenza” è quello che meglio coglie lo squilibrio di potere esistente tra il prevaricatore e la vittima; non a caso esso era utilizzato nel sottotitolo del libro citato, in un momento in cui il termine “bullismo” rimandava in lingua italiana più a ostentazioni e smargiassate che a vere e proprie violenze.

Nel bullismo c’è invece una relazione non paritaria fra i contendenti, con la persistente prevaricazione su un coetaneo più debole e sempre più cristallizzato nel ruolo di bersaglio. La continuità degli atti e l’asimmetria sono le caratteristiche specifiche del bullismo, oltre naturalmente all’intenzionalità, cioè alla volontà deliberata di arrecare danno.

Questo significa, in concreto, che quando due bambini di pari forza litigano e fanno la lotta non siamo di fronte a un episodio di bullismo, ma a un atto di aggressione fisica isolata; esso è ugualmente censurabile, perché denota incapacità di risolvere i conflitti senza ricorrere alle mani, oltre ad avere potenziali conseguenze anche gravi.

Un aspetto centrale del bullismo, spesso trascurato dagli adulti, è la presenza dei compagni. Anche quando riguarda un solo prevaricatore e una sola vittima, il bullismo avviene sempre in un contesto di gruppo, dove gli osservatori svolgono un ruolo decisivo. Gli altri bambini spettatori, anche quando non sono attivamente partecipi, rafforzano di fatto il potere del bullo – più frequentemente dei bulli – e l’isolamento della vittima: il silenzio e la mancanza di aiuto sono già di per sé un’approvazione.

Il bullismo è insomma un fenomeno di gruppo e per questa ragione gli interventi di prevenzione e risoluzione passano attraverso il coinvolgimento attivo dei compagni, che da spettatori più o meno complici dei bulli sono chiamati e diventare alleati della vittima. Questo ruolo è tanto più importante per i numerosi atti di bullismo che avvengono al di fuori del controllo diretto dell’adulto, per esempio durante la ricreazione o sullo scuolabus. Inoltre alcune forme di bullismo richiedono necessariamente la complicità del gruppo. È il caso dell’isolamento sociale, attuato soprattutto dalle ragazze, che consiste nell’evitare ogni contatto con la vittima: tutte la evitano, nessuno le parla, tutte le cose che lei tocca sono giudicate contaminate e quindi anch’esse evitate. Anche la maldicenza e il pettegolezzo, altre forme di bullismo frequenti tra le ragazze, richiedono la partecipazione del gruppo per diffondersi. 

L’importanza del gruppo dei pari è determinante nel cyberbullismo. Gli strumenti virtuali permettono la rapida diffusione delle vessazioni a un numero molto ampio di persone, che le fanno circolare al di fuori di ogni controllo adulto. La Rete ha ampliato i confini spaziali in modo potenzialmente illimitato, ma ciò che in essa avviene ha ricadute nello spazio concreto. In un continuo rimbalzo tra le due dimensioni, le conseguenze del bullismo virtuale sono drammaticamente reali, fino a portare, nei casi estremi, al suicidio. Agire sugli spettatori virtuali, che per leggerezza o conformismo fanno circolare le prepotenze, di qualunque natura esse siano (immagini, pettegolezzi, commenti offensivi ecc.), risulta quindi indispensabile.

Come sottolineava Olweus, lo studioso norvegese che per primo ha studiato il bullismo, in una società democratica ogni bambino ha il diritto di non subire prepotenze a scuola e il dovere di non infliggerle agli altri. La scuola che non riesce a garantire questi diritti e questi doveri non solo non protegge i bambini che le sono affidati e non favorisce il loro sviluppo e benessere; essa, in più, non educa i bambini alla convivenza democratica e pacifica.

Per questo gli insegnanti o i genitori non possono derubricare gli atti di bullismo come ragazzate, azioni irrilevanti di cui non vale la pena occuparsi. Essi gravano i bambini che ne sono vittime di un fardello pesante, a volte intollerabile, e gettano un’ombra sul loro futuro. Ma anche nei confronti dei prepotenti la scuola fallisce il proprio compito, perché non li prepara ad essere cittadini rispettosi degli altri, com’è richiesto in una società democratica. Né può essere una scusa la pervasività del mondo virtuale. Esso è una realtà di cui bisogna tenere conto, per le nuove e diverse difficoltà che pone, senza farlo diventare un paravento per la propria inerzia verso le persone che ogni giorno, realmente, interagiscono nei suoi spazi.

 

Riferimenti bibliografici

Menesini E. (2000), Bullismo. Che fare?, Giunti, Firenze.

Olweus D. (2007), Bullismo a scuola (trad. it.), Giunti, Firenze.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 268 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui