Giorgio Nardone

Nuove e vecchie relazioni terapeutiche

Una carrellata storica sul modo di intendere la relazione professionista/paziente da parte dei principali indirizzi di psicoterapia. Tra la difesa delle rispettive forme di emotività e la pretesa che il terapeuta non abbia alcun coinvolgimento personale.

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La relazione terapeutica, ovvero quell’incontro tra soggetti orientato allo scopo di alleviare la sofferenza o di superare disagi psicologici e non solo, è uno degli argomenti essenziali della psicologia. Dapprima essa veniva studiata nella sua applicazione alle dimensioni cliniche della cura dell’individuo e tutt’al più delle coppie e delle famiglie, poi, in virtù di studi che hanno dimostrato quanto una buona relazione possa influenzare pure il rendimento lavorativo e la performance individuale e di un team, questo tema è divenuto importante anche al di fuori dello stretto ambito terapeutico. Del resto, è ormai assodato e comprovato da numerose ricerche empiriche che la relazione tra individui sia la componente fondamentale dei processi di cambiamento e apprendimento, fattore ineludibile da tenere in grande considerazione per chi voglia occuparsi di qualunque forma di terapia.

UN’INTERAZIONE NON STANDARDIZZABILE

È proprio per questa sua prerogativa che la relazione terapeutica è stata attentamente studiata da tutte le diverse prospettive teoriche applicative della psicoterapia, le quali, in nome delle loro differenti posizioni e diversi linguaggi, ne danno rappresentazioni e indicazioni operative talvolta anche agli antipodi (Nardone e Salvini, 2013).

Si pensi, per esempio, all’“essere con” esistenziale di Binswanger e, al contrario, alla fredda direttività tecnica di Skinner, oppure all’empatia rogersiana rispetto al distacco freudiano, o ancora al coinvolgimento esperienziale di Whitaker messo a confronto con l’analisi razionale di Ellis. Questi solo alcuni esempi di come differenti modalità di interpretare il ruolo di psicoterapeuta conducano, sulla base dei rispettivi presupposti teorici, a considerare la relazione terapeutica da punti di vista talora così diversi da lasciare sgomento chiunque volesse trovare, all’interno di tale settore applicativo, una coerenza e congruenza, se non teorica, almeno operativa.

Ma mai dobbiamo dimenticare che, come ammoniva Einstein, «sono le nostre teorie a determinare le nostre osservazioni», e non viceversa, e che paradossalmente sono proprio gli studiosi e gli scienziati puri i soggetti più resistenti a cambiare le loro opinioni e i loro metodi (Nardone, 2017). Pertanto, non deve stupirci che, anche in questo caso, ci siano ben pochi accordi generali su come gestire la relazione terapeutica, mentre tutti concordiamo sulla sua fondamentale influenza rispetto agli esiti di una terapia.

Del resto, i tentativi di “manualizzare” e “standardizzare” le modalità della relazione terapeutica sono più disastrosi del disaccordo, poiché tendono a meccanizzare proprio ciò che di meccanico nulla deve avere: con essa si tratta, infatti, di uno scambio tra individui emotivo, più che razionale, e che, proprio perché è qualcosa che si deve adattare costantemente alla originalità di ogni soggetto e dei suoi sentire e agire, non è riconducibile a una serie di istruzioni da seguire in maniera rigida.

Questo non significa che non ci possano essere delle indicazioni concrete per gestire al meglio una relazione orientata al cambiamento terapeutico; significa semmai che tali indicazioni richiedono comunque un adattamento costante alle prerogative che contraddistinguono ogni soggetto e la sua personale esperienza.

Con questa precisazione preliminare, si possono dunque mettere a punto tecniche e sviluppare competenze per la realizzazione di un’efficace relazione terapeutica: le prime sono indicazioni strutturali e per ciò trasmissibili mediante adeguato training, mentre le seconde sono rappresentate da quell’abilità a entrare in contatto emotivo con l’altro, che si sviluppa con l’esperienza prolungata. Proprio prendendo avvio da tale premessa, è nostro obiettivo espositivo illustrare le evoluzioni degli studi sulla relazione terapeutica e come “vecchio” e “nuovo” interagiscano all’interno di questo ambito applicativo della psicologia. 

DAL V SECOLO A.C. AI GIORNI NOSTRI. UN EXCURSUS

Il primo a scrivere sulle relazioni terapeutiche fu il sofista Antifonte nel V sec. a.C., il quale nel suo Arte della consolazione già indicava quale fosse il modo di porsi nei confronti di chi soffre e come usare il linguaggio per mitigare il suo disagio. Nello stile della sofistica, si trattava della capacità di utilizzare le parole e i gesti in modo da creare percezioni della realtà sofferta in grado di renderla più accettabile; lo scambio relazionale era, quindi, gestito “tecnicamente”, ma sempre calibrato sull’individuo e sulle sue irripetibili esperienze.

Nei secoli successivi, con l’avvento della filosofia platonica e del cristianesimo, la relazione di cura diventa l’“insegnamento filosofico dell’altro”, la pietas e la compassione, anche se oggi niente di tutto questo può essere specificamente ritenuto relazione terapeutica.

Si deve giungere all’Ottocento e al “magnetismo” di Mesmer per ritrovare un setting di cura con una forma precipua di relazione, orientata ad alleviare la sofferenza. Anche se venne bandito come ciarlataneria, il mesmerismo dette avvio allo studio dei fenomeni ipnotici quali strumenti di cura psicologica, e i successivi lavori di Braid, Charcot e Janet dimostrarono come il “rapport”, ossia la relazione suggestiva tra ipnotista e ipnotizzato, avesse un grande potenziale terapeutico. Freud stesso studiò l’ipnosi con Charcot, per poi elaborare la propria forma di relazione terapeutica connotata da un rigido setting ove l’analista sta alle spalle del paziente, comodamente sdraiato a occhi chiusi, e fa da guida alle sue “libere associazioni”, da interpretare poi sulla base dei criteri della “psicoanalisi”. Tipologia di relazione, questa, con i suoi rigidi rituali, dove l’analista, in posizione “one-up”, come un oracolo antico, dispensa verità terapeutica al paziente, in costante posizione “one-down”.

Apparentemente agli antipodi, il behaviorismo americano, di cui Skinner fu il massimo esponente, proponeva una procedura addestrativa, tramite “rinforzi”, basata su evoluzioni della riflessologia di Pavlov: lì la relazione appare chiaramente sbilanciata sul potere del terapeuta di manipolare, con apprendimenti mirati, indotti da rinforzi operanti, le reazioni del soggetto. Il clima è quello del laboratorio sperimentale e ben poco è concesso al contatto emotivo giacché questo viene ritenuto fuorviante per gli scopi dell’addestramento comportamentale. Nello stesso periodo storico, Rogers propone una netta alternativa di relazione terapeutica: quella basata sul contatto empatico fra il soggetto che cura e colui che viene curato. Il terapeuta in questa impostazione rispecchia i punti di vista e le emozioni del paziente. La relazione empatica diviene così lo strumento principe del processo di cura psicologica. Nel frattempo, in Europa, Binswanger proponeva l’“essere con” esistenziale come fondamento della cura psicologica, cioè l’immergersi del terapeuta nella sofferenza del suo paziente e il divenirne “compagno di viaggio” esistenziale. La condivisione della sofferenza diviene lo strumento fondamentale del trattamento.

In modo decisamente più attivo, negli stessi anni Milton Erickson elabora la sua ipnosi terapeutica, nel cui ambito la relazione si basa sull’assumere il linguaggio del paziente, ma utilizzandolo come tecnica di “rapport suggestivo”, ovvero per creare una interazione suggestiva all’interno della quale il terapeuta possa indurre il soggetto a cambiare il proprio sentire e agire abbattendo le proprie resistenze.

Il corpo e le sue sensazioni appaiono sulla scena della psicoterapia con Wilhelm Reich, il quale, violando una sorta di dogma implicito delle terapie psicologiche basate sulla parola e tutt’al più sul linguaggio non verbale, introduce la relazione terapeutica attraverso la manipolazione corporea esercitata dal terapeuta sul paziente, in qualità di strumento principale per sciogliere i suoi blocchi psichici corrispondenti a rigidità del sentire corporeo.

Nel dopoguerra, l’avvento delle terapie sistemiche e relazionali dà un grande impulso allo studio della relazione terapeutica poiché prendono l’avvio dallo studio degli effetti pragmatici della comunicazione (Watzlawick et al., 1967) e dallo studio delle dinamiche familiari, aspetti atti entrambi a influenzare fortemente i vissuti e gli stili relazionali degli individui.

Gli approcci maggiormente fondati sulla pragmatica della comunicazione elaborano modalità strategicamente orientate di gestione della relazione terapeutica tese alla rottura degli schemi psicopatologici ricorrenti negli individui e nelle famiglie; quelli maggiormente focalizzati sulle dinamiche affettive in seno alle interazioni familiari sviluppano metodiche più esperienziali, spesso ben poco trasferibili, in quanto prerogative personali e carismatiche dei “maestri”, come nel caso di Carl Whitaker e Virginia Satir.

Tuttavia, anche se con differenti connotazioni, il terapeuta di tali orientamenti manovra attivamente la relazione terapeutica, rappresentando il regista e, non di rado, anche l’attore protagonista della scena terapeutica. Gli approcci terapeutici cognitivi dapprima stabiliscono una relazione fra terapeuta e paziente di tipo didattico, entro la quale l’esperto guida il soggetto a imparare a gestire consapevolmente e razionalmente i propri disagi.

In seguito alcuni autori come Beck, ideatore della terapia cognitivo-comportamentale, svilupperanno una modalità cognitivo-relazionale caratterizzata dal fatto che il terapeuta dirige il paziente, tramite prescrizioni e dettagliate spiegazioni, all’apprendimento di tecniche per fronteggiare con successo le proprie difficoltà.

Altri, come Guidano, evolvono una terapia cognitiva di tipo post-razionalista orientata al lavoro sulle emozioni piuttosto che sui comportamenti: in questo caso la relazione si fa decisamente più calda e interattiva.

Dalla metà degli anni Ottanta viene a svilupparsi, sulla scia del lavoro di ipnoterapia di Erickson e di quello sul cambiamento strategico di Watzlawick, un approccio finalizzato allo studio di strategie e stratagemmi terapeutici specifici per le differenti forme di psicopatologie diffuse e invalidanti.

Un approccio terapeutico, questo, che ha preso in considerazione la relazione terapeutica anche in rapporto alle caratteristiche ricorrenti di vari quadri clinici che impongono un adattamento delle loro modalità di gestione; per esempio, come sia necessario adottare stili relazionali diversi nel trattare una patologia anoressica rispetto a una ossessivo-compulsiva o a quella di una persona che soffre di attacchi di panico.

Ciò ha fatto sì che lo studio della relazione terapeutica fosse influenzato, oltre che dal modello teorico-applicativo di riferimento e dalle necessità di adattamento alle prerogative personali del paziente, anche dalle caratteristiche della patologia, che influenzano la modalità relazionale del soggetto che ne soffre, favorendo così una maggiore collaborazione terapeutica e una maggiore efficacia dell’intervento.

Alla fine di questa breve carrellata storica sulla relazione terapeutica, non certo esaustiva, ma rappresentativa delle maggiori scuole della psicoterapia, ci preme proporre al lettore alcune importanti riflessioni.

DUE EMOTIVITÀ IN DIALOGO

La relazione terapeutica si basa comunque su un rapporto fra persone, orientata allo scopo di temperare sofferenze e disagi: fra le due parti, una è rappresentata dall’esperto, che ha la responsabilità di aiutare, mentre l’altra parte è rappresentata da chi soffre e si aspetta di essere aiutato. Questa, finora apparentemente ovvia, costuisce in realtà una tipologia relazionale ove coesistono le aspettative del paziente e quelle del terapeuta – il primo, appunto, di essere aiutato, il secondo di essere in grado di aiutare – e che influenzano pesantemente l’esito dell’intervento terapeutico, come dimostrato da numerose ricerche.

È chiaro che è il terapeuta colui che deve saper far leva sull’effetto-aspettativa, utilizzando quelle modalità comunicative e relazionali in grado di amplificare la portata dell’incontro, e che non deve mai pensare – come, invece, accade spesso – che è il paziente a non fidarsi o ad essere troppo resistente.

Pertanto, la gestione della relazione terapeutica, per quanto connotata da flessibilità e improvvisazione, non va lasciata al caso o alla predisposizione naturale, bensì dev’essere frutto di specifiche competenze acquisite. Queste ultime però, come si è detto, non devono essere rigide istruzioni o algoritmi statistici, bensì duttili e adattabili modalità di gestione del contatto emotivo, da tarare sulle caratteristiche della specifica interazione in corso, sulla particolarità del paziente e la tipologia del suo disturbo, il tutto modellato anche sulla personalità e lo stile relazionale del terapeuta. Ciò a indicare una posizione alternativa alle opposte visioni di chi, ancora oggi, ritiene che la relazione terapeutica debba basarsi sulla pura autenticità emozionale del terapeuta e di chi, al contrario, vorrebbe che questa venisse guidata dalla fredda tecnica.

La personalità del terapeuta e il suo stile relazionale non sono una massa granitica inamovibile e inscalfibile, bensì corrispondono alle parole di Eraclito: «come il fiume, il suo corso rimane sempre lo stesso, ma l’acqua che scorre cambia sempre». Cioè: per quanto abbia prerogative strutturate, il soggetto terapeuta viene modellato, nel suo sentire e agire, dal modello che impiega, così come egli modella il modello adattandolo alle sue personali predisposizioni e attitudini.

Perciò, spontanea autenticità e tecnica acquisita si influenzano vicendevolmente durante l’esercizio di un’attività che coinvolge comunque l’emotività del terapeuta, ancorché costui possa essere in grado di tenerla a bada; questa “emotività controllata” può essere gestita come risorsa, nella relazione con il paziente, il quale, avvertendo che il suo terapeuta – oltre ad essere tecnicamente valido – “sente” ciò che lui stesso “sente”, gli si affida sia sul piano della fiducia professionale che su quello del contatto emotivo.

Le recenti scoperte neuroscientifiche relative al funzionamento dei neuroni a specchio confermano tutto ciò e indicano chiaramente che il comunicare tra gli individui, se gestito con maestria, a livello sia verbale che non verbale, influenza terapeuticamente anche la fisiologia e il funzionamento dell’organismo umano. Oggi nessuno può più sostenere in maniera attendibile che i fattori psicologici non siano in grado di cambiare quelli biologici del nostro organismo.

Questa conquista intellettuale, oltre che una grande vittoria della psicologia sulla posizione riduzionista di troppi studiosi pronti a ricondurre tutto a fattori strettamente organici, rappresenta una grande responsabilità per chi opera nel campo della salute mentale, dato che il suo agire si configura come una sorta di bisturi psicologico che può asportare un “cancro della mente”, ma può anche danneggiare pesantemente, se non è usato in modo adeguato. Tutto ciò che, in eccesso o in difetto, può fare molto bene, può anche fare molto male.

 

Riferimenti bibliografici

Nardone G. (2017), I sette argomenti essenziali per conoscere l’uomo, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Salvini A. (2013), Dizionario internazionale di Psicoterapia, Garzanti, Milano.

Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi (trad. it.), Astrolabio, Roma, 1971.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 268 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui