Redazione Psicologia Contemporanea

Luca Mazzucchelli intervista Liliana Dell'Osso

Sull’esempio di Coco Chanel, la psichiatra Liliana Dell’Osso ci aiuta a capire la trasgressività al femminile, dove fra gli stereotipi da contrastare c’è il maschilismo.

Liliana Dell'Osso.png

Donne e trasgressione: secondo lei, per una donna oggi che cosa significa essere trasgressiva?
Quello che significa per un uomo: la trasgressione non è un discorso di genere, ma di cervello dotato di pensiero divergente, quello collegato alla creatività, all’originalità, all’invenzione scientifica, all’opera artistica. Il pensiero divergente porta su strade nuove, con tutto quello che ne consegue nel bene e nel male, perché la strada nuova è il salto nella ricerca, ma è anche il salto nella psicopatologia. Le persone che lo posseggono sono da un lato innovative, dall’altro estremamente fragili e vulnerabili. Il pensiero divergente, infatti, caratterizza il cervello neuroatipico. La neuroatipia è spesso espressa da lievi aspetti di tipo autistico che rendono queste persone particolarmente vulnerabili agli eventi traumatici anche non estremi, con lo sviluppo di una sintomatologia post traumatica da stress – anche sottosoglia – che non è detto venga riconosciuta ma che fa da mediatrice verso la progressione psicopatologica successiva. Per quanto riguarda le donne, non dovrebbe chiamarsi trasgressione non accettare il pregiudizio e il ruolo che la società cuce loro addosso, senza farsi condizionare dalle spinte ambientali che premono in una determinata direzione. Si tratta, piuttosto, di lottare per la propria libera affermazione.

Pensa che le donne per raggiungere il successo e la realizzazione personale debbano necessariamente trasgredire, o avere un lato trasgressivo sviluppato?
Sì. Viviamo in una società patriarcale, le radici del mondo occidentale sono nate da un feroce processo di mascolinizzazione del potere. Molto probabilmente ciò che aveva preceduto l’organizzazione sociale, fino a 5/4000 anni prima di Cristo, era una società di stampo matriarcale basata su regole molto diverse. Per esempio, di quell’epoca non sono state trovate armi, a sostegno di un’organizzazione sociale più orizzontale, senza le gerarchie tanto amate dagli uomini. Nella mia carriera ho spesso affrontato un ambiente ostile, che già lo sarebbe stato a prescindere, ma anche perché ero una donna che doveva farsi strada in un mondo di uomini. Alcune esperienze mi hanno fatta riflettere e hanno modificato drasticamente il mio modo di vedere il mondo. Da questo punto di vista, una certa dose di trasgressività è necessaria: non lasciarsi condizionare dalle pressioni ambientali e agire in modo diverso dalle aspettative, secondo i nostri desideri e le nostre aspirazioni, avendo il coraggio di essere assertive anche in un mondo in cui non ci si aspetta che una donna lo sia. Non solo, la sottomissione alle aspettative altrui, a cui conseguono insoddisfazione e magari mancata esternalizzazione dei propri vissuti, nel caso vi sia una predisposizione soggiacente – come per esempio tratti socialfobici –, può anche complicarsi e degenerare in quadri psicopatologici.

Quali sono i maggiori ostacoli che le donne incontrano nel mondo contemporaneo e che le limitano nella loro realizzazione?
Ripeto, viviamo in una società patriarcale, in cui il potere femminile viene rifiutato anche solo nella possibilità, tanto che alle donne è concesso di occupare ruoli importanti solo se si “vestono” di una corazza mascolina. Nella cultura classica questa figura è rappresentata da Atena, la divinità accettabile dalla società patriarcale dei greci, che si espropriò della facoltà generatrice decidendo di restare vergine e divenendo strumento per il potere del padre Zeus, di cui era l’emanazione. È lei a condannare Medusa, un tempo splendida fanciulla, a diventare un mostro dai capelli di serpente e dallo sguardo pietrificante, per poi aiutare Perseo a ucciderla. Il peccato di Medusa è la sensualità, l’incarnare la reminiscenza delle antiche dee Madri della fertilità il cui potere, dominante un tempo nelle civiltà mediterranee, si fondava su prerogative esclusivamente femminili: la sensualità, la creazione, la forza della natura stessa a cui gli uomini dovevano sottomettersi. Adesso si può essere donne potenti solo come lo è Atena, ovvero per procura maschile. Anche oggi, come nella simbologia del mito, spesso sono le stesse donne ad allearsi con gli uomini per aggredire le altre donne: accusandole, per esempio, dopo una violenza, di essersela cercata, o, dopo un insuccesso di carriera, di aver preteso troppo. Il segno di questa situazione, lunga secoli, è inscritto in ognuna di noi nel nostro DNA, ma anche nei fattori ambientali e nell’educazione, tanto da sembrarci scontato. 

Insieme ad altri due autori, lei ha scritto un libro su Il caso Coco Chanel. L’insopportabile genio. Come mai ha deciso di dedicare un intero volume a questo personaggio?
Allora, facciamo un piccolo passo indietro. Io ho scritto anche una psicobiografia di Marilyn Monroe. Analizzando tantissimo materiale, è emerso un nuovo modello di interpretazione del disturbo borderline: la partenza da tratti autistici. Nessuno lo poteva sospettare: Marilyn è seduttiva e accattivante. Invece, abbiamo avuto la prova della sua introversione, dei tratti socialfobici… insomma, di quell’aspetto autistico sottosoglia che da un lato ne ha determinato l’ascesa e il successo, ma dall’altro è stato il motore della psicopatologia che l’ha portata a 36 anni a una morte prematura. Forse nessuno sa che l’autopsia psicologica richiesta nei casi di morte sospetta, quando cioè è difficile orientarsi tra il suicidio e l’omicidio, è nata proprio per Marilyn Monroe. Da Marilyn siamo arrivati a Coco perché la diagnosi a Marilyn Monroe è facile da fare, ci sono degli elementi clinici incontrovertibili. Fare la diagnosi a Coco Chanel, che invece è morta a 88 anni, è diventata la donna più ricca del suo tempo, non ha mai lasciato trasparire la sua sofferenza psichica ed è riuscita a ricoprire la sua autobiografia con una cortina di menzogna perché doveva creare il suo mito, è un po’ un virtuosismo. Eppure, anche in Coco si trova lo stesso substrato di stampo autistico che predispone al pensiero divergente e che, al contempo, innesta dei percorsi di tipo psicopatologico. Gli elementi di psicopatologia sono gli stessi che hanno creato lo stile Chanel. Nel libro abbiamo cercato proprio di interpretare le sue innovazioni stilistiche alla luce di aspetti personologici e psicopatologici. Coco aveva attacchi di panico e, di conseguenza, un’intolleranza alla costrizione toracica: ha levato il corsetto alle donne. Ma la cosa che mi ha colpito di più riguarda i capelli. Uno degli aspetti dello stile Coco è il taglio di capelli delle donne “alla garçonne”. Secondo la mia interpretazione, questo taglio di capelli è stato equivalente a un comportamento automutilante: aveva compiuto quel gesto in un momento in cui era indisposta dal fatto di aver subìto un tradimento dall’amante del momento. 

Ci racconta qualche aneddoto in cui risulta evidente il lato più trasgressivo di Coco Chanel?
Per tutta la vita Coco dimostrò di saper pensare come un uomo, e di saper trarre da tale caratteristica tutti i possibili benefici. In vecchiaia, divertendosi a scandalizzare gli ascoltatori, Coco rivelò il suo segreto per cavalcare in modo appropriato: «Devi immaginare di avere un prezioso paio di uova qui», disse indicando l’inguine, «e che è del tutto fuori discussione appoggiarci sopra il peso del tuo corpo» (anche se il linguaggio dell’originale è decisamente più colorito!). La boutique di Coco era un luogo dove l’unica legge vigente era quella della moda: considerazioni spicciole legate ai valori borghesi non erano prese in considerazione. Coco era capacissima di accettare appuntamenti per lo stesso orario tanto dalla baronessa Rothschild quanto dall’amante del barone, la splendida attrice Gilda Darthy. Il cinismo della couturière, nonché amante di un noto gentiluomo, generava “salutari” scandali per la sua “modernissima” boutique, ogni giorno più chiacchierata, più desiderata e più ricercata.

Quali sono altri esempi di donne che possono essere considerate trasgressive?
Ci sono moltissime donne “trasgressive”, il problema è che forse se ne parla poco. Al di là di figure della remota antichità, ammantate di mito (è il caso di Salomè, di Antigone e così via), ci sono molte figure storiche di cui si sa pochissimo: penso a Ipazia, matematica di Alessandria, o a Maria la Giudea – nota come Miriam la Profetessa –, filosofa e alchimista che ispirò alcuni passi di Jung. Moltissime anonime rivoluzionarie sono salite sulle barricate francesi (e ora una scuola di storiche sta recuperando le loro storie), per ogni Giovanna d’Arco ricordata dai manuali delle scuole superiori. Per limitarsi all’Italia, le ricerche di Annarita Buttafuoco sulle donne impegnatesi nel femminismo e nel socialismo fra Ottocento e Novecento ci restituiscono immagini vivaci di donne davvero trasgressive, forti e ben attrezzate nel difendere le proprie posizioni. Ci sono poi esponenti del pensiero scientifico, filosofico e artistico che soltanto per questo sono una rottura della tendenza. Dobbiamo pensare, infatti, che “uscire dal ruolo”, da quelle tre “età” della donna – bambina, seduttrice, vecchia madre – descritte da Munch, era già di per sé la massima violazione delle aspettative di un mondo occidentale che aveva fatto della segregazione femminile a una sfera subordinata uno dei pilastri della divisione del lavoro. 

Qual è, per lei, il confine che delimita il terreno in cui la trasgressione è funzionale ai progetti di una donna da quello in cui, invece, può diventare nociva o addirittura pericolosa per sé o per gli altri?
La linea di demarcazione c’è, però è mobile. Dipende dalla gravità del terreno psicopatologico di base e dalle richieste dell’ambiente. Io ho scritto il libro di Marilyn anche per oppormi a un pensiero assai comune in psichiatria. A partire dagli anni Ottanta, quando persone famose hanno iniziato a dire di essere bipolari, è venuta fuori l’idea che la bipolarità fosse connessa alla creatività e che quindi “bipolare è bello”. Non è così. Chi non presenta una compromissione dell’adattamento sociale o lavorativo non ha un disturbo bipolare. La trasgressione è una possibilità, una risorsa che libera la creatività e aiuta a mostrare la donna per quello che è nella sua unicità. Non deve compromettere il funzionamento, ma catalizzare i progetti di una donna e aiutarla a sentirsi felice e appagata. Quando mancano queste prospettive e si innesca una sofferenza soggettiva la trasgressione, da risorsa, può divenire problema.

LILIANA DELL’OSSO è direttore dell’Unità Operativa di Psichiatria dell’Università di Pisa. Tra gli altri volumi, è autrice di L’altra Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un cold case (Le Lettere, 2016).

Coco-Chanel-per-sito.png

Questo articolo è di ed è presente nel numero 271 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui