Giuseppe Riva

Le comunità ai tempi dei social media

Nella cultura online regnano la difficoltà di reggere il confronto con l’altro e il dilagare di un’assertività a senso unico.

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Non tutte le reti sociali sono uguali. E infatti la psicologia ha sempre differenziato le comunità – reti sociali stabili, costruite in base alla vicinanza, fisica o di interessi – dai gruppi – reti sociali dinamiche, costruite in base alla condivisione di un obiettivo comune.

Esempi di comunità sono gli studenti della stessa classe, mentre è un gruppo l’insieme di studenti che si incontra per fare una partita di basket. In pratica, mentre il gruppo ha obiettivi circostanziati e definiti nel tempo, la comunità è in grado di resistere nel tempo e spesso anche a cambiamenti spaziali.

Una delle riflessioni più interessanti su questi temi è stata proposta dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies. Tönnies distingue le reti sociali in comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft). A creare le comunità sono i legami forti: vincoli di sangue (famiglia e parentela), emozionali (amicizia) e di luogo (vicinato). Infatti, le comunità si basano su un rapporto reciproco e profondo che lega i partecipanti e che è fondato su una convivenza durevole, intima ed esclusiva. Il risultato è un legame che rende i membri simili fra loro e crea un vincolo permanente.

La società è invece basata su legami deboli: un gruppo di soggetti che si incontrano per motivi occasionali o strumentali – l’acquisto di beni, la fornitura di servizi e così via – e sono legati dal rispetto di una serie di principi comuni. La regola di base è quella dello scambio: le relazioni tra i soggetti non riguardano le diverse individualità, ma soltanto le loro prestazioni. Per questo, ciò che conta è la capacità dell’altro di rispettare le regole stabilite. Inoltre, appena la prestazione viene effettuata, la relazione si interrompe. 

A partire da queste riflessioni, una delle domande a cui stanno provando a rispondere gli studiosi dei media digitali è: ma di che tipo sono le relazioni sui social? A caratterizzare i social media sono 2 dimensioni.

1. La prima è che al suo interno non è possibile distinguere tra legami forti e deboli, tra “amici veri” e “conoscenti”: tutti sono “amici”. Per questo il mio amico del cuore può vedere le mie foto e commentare i miei post in bacheca esattamente come il ragazzo che ho visto una volta a una festa qualche settimana fa.

2. I social media non hanno una dimensione spaziale, e per questo non sono dei veri e propri luoghi. Il concetto di luogo – un ambito spaziale idealmente e materialmente delimitato – è da sempre legato al concetto di comunità. Come hanno dimostrato le neuroscienze negli ultimi dieci anni, il nostro cervello ha al suo interno una serie di meccanismi innati per riconoscere intuitivamente la presenza di luoghi. All’interno dell’ippocampo esiste, infatti, una serie di neuroni che sono in grado di riconoscere immediatamente sia i confini che ci circondano (place cells e grid cells) sia la posizione di altre persone al loro interno (social place cells). 

Non solo. È proprio intorno ai luoghi che il nostro cervello articola gli episodi raccolti nella nostra memoria autobiografica – dagli incontri con altri significativi alle emozioni che abbiamo sperimentato al loro interno –, i quali ci consentono di costruire una storia comune con gli altri membri della comunità. Tuttavia, questo nei social media non succede, anche perché oltre allo spazio manca anche il corpo dell’altro, fondamentale per riconoscere e trasmettere le emozioni. Inoltre la qualità delle interazioni è bassa: in 15 anni, l’attenzione media nel corso della fruizione dei contenuti digitali è diminuita del 50%, passando da 12 a 8 secondi.

Il risultato è paradossale. Nonostante viviamo nel momento storico in cui è possibile avere il maggior numero di interazioni con altri, la qualità di queste interazioni continua a scendere. Il risultato è l’emergere di gruppi con caratteristiche più simili a quelle della società, che a quelle della comunità di Tönnies. Come sottolineato da una serie di studi americani, se nel 1985 il numero di amici “veri” con cui confidarsi e raccontare i propri problemi erano in media circa 3 a persona, oggi sono solo 2. Negli Stati Uniti, addirittura, 1 persona su 4 non ha nemmeno un amico “vero” e la metà della popolazione ne ha solo 1. Infine, dalla metà degli anni Settanta ad oggi il livello di orientamento civico (l’interesse nei problemi sociali, la partecipazione politica, la fiducia nelle istituzioni) ha subito un declino costante, che ha raggiunto il punto massimo con la generazione dei millennials, cioè di coloro che sono nati dopo gli anni Ottanta.

Perché? Da una parte, i media digitali hanno spinto i soggetti, in particolare i più giovani, a prediligere i luoghi digitali a quelli fisici per le loro interazioni. Per esempio, oggi il 40% degli americani preferisce conoscere online un potenziale partner, piuttosto che in un luogo fisico come un bar o una discoteca. Dall’altra, i media digitali permettono di superare i confini dei luoghi in cui mi trovo. Se sono in un bar con un gruppo di persone che non conosco o che non mi interessano ma ho uno smartphone a disposizione, la tecnologia mi permette di evitare il confronto con gli altri: posso scrivere a un amico, giocare a un videogioco, leggere le notizie su Internet ecc. Ma in questo modo i nuovi media dissolvono i confini dei luoghi rendendo più complessa la conoscenza e il confronto che sono alla base della nascita e dello sviluppo della comunità. 

In effetti, l’elemento critico delle relazioni nelle reti sociali è proprio il confronto. Già è difficile confrontarsi guardandosi negli occhi e leggendo i segnali nel corpo dell’altro, ma farlo online è ancora più complicato. Basta leggere i contenuti di uno dei gruppi WhatsApp a cui partecipano i nostri figli: il confronto si trasforma inevitabilmente in una catena di insulti in cui l’unico risultato è un’ulteriore radicalizzazione delle diverse posizioni. Perfino le telefonate stanno cambiando. Sempre più adolescenti preferiscono i messaggi vocali asincroni, in cui raccontare le proprie richieste e/o posizioni senza un confronto immediato con l’altro, alla classica telefonata sincrona, in cui le proprie richieste e posizioni si devono confrontare con i bisogni e le intenzioni dell’altro.

Davanti a tali cambiamenti e alla difficoltà di costruire delle comunità, aumenta inconsapevolmente la ricerca di confini, vincoli e legami. È probabilmente questa ricerca a spiegare il successo politico dei partiti “sovranisti”, che hanno il loro cavallo di battaglia proprio nella preservazione, o nella riacquisizione, della sovranità nazionale mediante la creazione di comunità chiuse e la blindatura di confini fisici.

 

Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione alla Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Selfie. Narcisismo e identità (Il Mulino, 2016).

www.giusepperiva.com

Questo articolo è di ed è presente nel numero 271 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui