L’altro, a cominciare dallo straniero, può rappresentare o un elemento a cui deleghiamo parte della nostra identità o un elemento sulla cui negazione fondiamo noi stessi

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 UN COMPITO FONDANTE 
Cominciamo dalla biologia. Compito fondamentale di ogni organismo è quello di distinguere ciò che è suo da ciò che non lo è; ovvero da ciò che non è codificato dal proprio patrimonio genetico. Negli organismi più complessi questo compito è svolto dal sistema immunitario. Il quale, per giunta, deve anche essere così preciso da potersi permettere il lusso di saper tollerare, all’interno dell’organismo stesso, tanto materiale biologico che non è proprio, ma che, nonostante ciò, è utile, spesso indispensabile. Basti pensare che nel “nostro corpo” viaggia (“integrato” ma estraneo) un buon 90% di materiale genetico non umano – appartenente ai tanti organismi con cui conviviamo in una stretta interdipendenza –, a costituire il cosiddetto microbioma che è parte integrante del nostro organismo al punto che qualcuno vorrebbe riconoscervi un vero e proprio “organo”, sia pure sui generis. Un organo fatto di tanti organismi estranei, ma ospiti.
“Xenoi”, avrebbero detto i greci, con tutta l’apertura semantica che la parola veicola: essi sono, infatti, “stranieri” e potenzialmente alternativi alla parte “umana” in cui convivono.

A tal proposito basti pensare a cosa succede appena dopo la morte, quando è proprio questa parte “non umana” della nostra vita a prendere il sopravvento e a portare avanti la vita. Ma quello che è norma nel post mortem può avvenire anche in vita, a far sì che tali xenoi siano non solo estranei, ma anche “pericolosi” (altra accezione semantica della parola greca). Nemici, dunque, ma anche “ospiti amici” perché in molti casi svolgono funzioni che sono utili alla vita stessa dell’organismo ospitante. Anche l’accezione di “ospite amico” fa parte integrante della parola greca “xenos”. Il sistema immunitario vigila dunque su questa vita “estranea e vicina”, nei confronti della quale, nella fisiologia, deve esercitare una tolleranza selettiva, ossia una tolleranza utile. La tolleranza non segue il codice binario del “tutto o niente”. Un sistema immunitario troppo “tollerante” può far sì che il materiale biologico “not self” prolifichi troppo, fino a sopraffare l’organismo ospitante; all’opposto, un sistema immunitario iperattivato può arrivare a non tollerare forme di vita utile. Fino a muoversi contro quelle aree grigie in cui “self” (inteso come frutto stesso del genoma umano) e “not self” si possano embricare. Con la possibilità che anche parti di genoma umano arrivino ad essere considerate “not self”. È il caso della cosiddetta autoimmunità, in cui un sistema necessario alla vita si può rivelare dannoso e finanche mortale, come preso in un furor sanandi che lo può portare ad aggredire chi dovrebbe tutelare.

Il microbioma umano
All’interno del nostro corpo ci sono migliaia di altri organismi che vivono con noi in uno stretto equilibrio caratterizzato da una forte interdipendenza reciproca. Si tratta di batteri, funghi, acari, protozoi, virus, vermi… e sono tanti! Qualcuno ha cercato di dar loro un peso, indicandolo in circa il 3% del nostro peso totale. Non poco: circa 1 kg! Le piccole dimensioni fanno sì che, in proporzione, il loro materiale genetico complessivo superi di gran lunga il nostro.
Il microbioma svolge un ruolo cruciale per la nostra vita, a cominciare dalla possibilità di digerire certe forme di cibo che altrimenti non potremmo assimilare, per arrivare alla produzione di varie sostanze benefiche, come le vitamine
e taluni antinfiammatori naturali.

 LA FOBIA PER ESTRANEO 
“Xenofobia”, cioè “fobia dell’estraneo”, questo il significato letterale della parola: da “fobos” (in greco, “paura, avversione”) e “xenos” (con tutto il menzionato alone semantico di “estraneo, straniero, ospite amico”). Lo stigma con cui oggi la cultura dominante circonda il termine “xenofobia” lo mette subito fra le cose esecrabili, da rigettare prima ancora di parlarne. Tantomeno, dunque, lo mette fra le cose degne di attenzione medica, malgrado il possibile accostamento ad altre “fobie”: nosofobia, agorafobia, aracnofobia…

Possiamo accettare questa semplificazione? Nel suo nucleo di senso, il termine sta a indicare l’avversione, appunto fin proprio alla fobia, per ciò che è estraneo. Lo straniero in primo luogo, ma non solo. Anche alludendo a un sentimento fisiologico che, oltre un certo punto, diventa patologico. In questa linea di pensiero non diadica, il suffisso medico “fobia” riprende tutta la sua pregnanza di significato. E di sfida! Perché non è facile stabilire il punto in cui qualcosa di fisiologico si incrementa quantitativamente fino a cambiare la sua natura, fino a trasformarsi da fisiologico in patologico. In natura, e in psicopatologia, il problema è ben presente (si veda più avanti il paragrafo "Continuo e discontinuo in natura"), documentabile per esempio nella sfida per capire quando un sentimento fisiologico come l’ansia (o la gelosia) può diventare patologico. 

Abbiamo visto come la distinzione – e anche la contrapposizione – da ciò che è estraneo-xenos sia fondamentale per la vita biologica. Ora stiamo introducendo il concetto che lo sia anche per la vita psicologica. Per cui l’avversione nei confronti di ciò che si sente diverso, e dunque estraneo, appare come uno dei segnali più importanti della nascita di ogni singola soggettività. René A. Spitz (1965) nel suo magistrale lavoro sul primo anno di vita del bambino ne ha localizzato l’acquisizione all’ottavo mese, e ne ha definito le caratteristiche. Attraverso di essa, il bambino impara a separare e distinguere ciò che gli sta intorno. In particolare, la madre (il caregiver principale) dalle altre persone. La distinzione fra madre ed estraneo diventa, così, uno dei grandi organizzatori del nostro psichismo. Il quale ora può cominciare a inquadrare il mondo fra ciò che appartiene e ciò che non appartiene. L’estraneo, in queste fasi costitutive della soggettività, si definisce come ciò che nega il mio Sé, ma che, negandomi, pone le premesse perché io possa riconoscermi e definirmi

Di qui l’immediato emergere dell’ambivalenza di cui il rapporto con lo xenos è, fin da subito, intessuto. Da un lato infatti, negandomi, l’estraneo si fonda come il massimo della negatività: è quello che mi nega e, con ciò, mette a rischio la mia stessa esistenza. Ma dall’altro lato, contrapponendosi, finisce per spingermi verso una definizione, mi dà un confine e mi fa nascere come soggettività: è il primo passo per la mia individuazione e separazione (Mahler et al., 1978).

Continuo e discontinuo in natura
Con una complessa spiegazione matematica René Thom cercò di costruire una dimostrazione del fenomeno del continuo e del discontinuo in natura, un problema che era stato avvertito come fondamentale fin dai pensatori antichi (ricordiamo il detto latino «Natura non facit saltus»). Secondo Thom, i fenomeni naturali sono disposti secondo una varianza quantitativamente ordinata (un continuo) che fino a un certo punto è quantitativa (cambia solo una caratteristica del fenomeno). Ma da un certo punto in poi (lui lo chiama «punto di catastrofe») la variabilità ne fa cambiare l’essenza stessa: il cambiamento da quantitativo diventa qualitativo. La vita è piena di eventi “catastrofici”. Pensiamo, per esempio, al variare della temperatura dell’acqua che dai 99 °C fino all’1 °C non comporta modifiche alla qualità del fenomeno “acqua”. Ma che, con la sola variazione di un grado ulteriore, allo 0 °C diventa ghiaccio: da liquido diventa solido. Cioè diventa qualitativamente un’altra cosa.

 DECLINAZIONI DI UN'ESPERIENZA FONDANTE 
L’avversione per l’estraneo già mostra tutta la sua ambivalenza fin da questa sua prima definizione. Da qui può partire una serie di declinazioni che fanno, di un sentimento ubiquitario, un protagonista capace di svolgere un gran gioco nell’avventura della vita.

L’angoscia per l’estraneo dell’ottavo mese diventa così l’avversione per lo sconosciuto, che spinge una soggettività ancora a uno stato aurorale verso una definizione sempre più precisa e insieme apre alla possibilità dell’arroccamento. Ma, insieme, inserisce nello stesso primo abbozzo identificativo qualcosa di nuovo che obbliga a un confronto. In tal modo apre la strada a un possibile arricchimento, sia attraverso una migliore definizione identificativa sia con l’adattamento o addirittura l’acquisizione di ciò che l’altro propone. L’idea di “altro” si apre allora a tutto un gradiente di variazioni (proprio come la parola greca “xenos”) che definiscono la soggettiva apertura e accettazione: dallo “straniero-amico” allo “straniero-estraneo” che definisce l’“altro più altro”; ovverosia colui che non promuove alcun processo identificativo.

Nello sviluppo psicologico del bambino possiamo cogliere vari momenti organizzativi, evidenziati dalla comparsa di specifici comportamenti:

- il sorriso di fronte al volto umano (terzo mese);

- l’angoscia per l’estraneo (ottavo mese);

- il no del secondo anno di vita;

- infine la capacità di mentire: la bugia, che sanziona un processo identificativo giunto a compimento, almeno nelle sue grandi linee (Dell’Osso e Conti, 2017).

Comportamenti-segnacoli attraverso le cui anomalie (ritardi, assenze, ipertrofie ecc.) possiamo riconoscere, nelle sindromi autistiche, la gravità del danno neuroevolutivo (Dell’Osso e Lorenzi, 2018). Con l’angoscia nei confronti dell’estraneo a fare da giro di boa: la sua presenza testimonia che già si è formato un abbozzo autorappresentativo. Anzi, ne costituisce anche uno dei solidificanti più efficaci, a rappresentare un vero e proprio “codice di base” a cui ricorrere quando la nostra soggettività sia sotto scacco e minacciata. O anche semplicemente per “tenerla su” quando le sue travi identificative siano costitutivamente fragili. 

Essendo matriciale, i modi, la quantità e le declinazioni pratiche possono dirci molto sulle caratteristiche con cui quella soggettività si è formata, fornendoci anche una chiave per capirne certe attualizzazioni. Vale a dire come certi comportamenti attuali di una singola persona possano non solo rappresentarci il presente, ma dirci pure molto del suo passato. Immettendoci in una specie di spazio a quattro dimensioni con il tempo (quello della psicogenesi) a mostrarsi nel determinismo del presente.

Parlando dell’angoscia dell’estraneo e delle reazioni al diverso, va sottolineato che ci poniamo di fronte a un qualcosa di così costitutivo della condizione umana da superare la dimensione del singolo individuo, per estendersi alle comunità allargate: la famiglia, il clan, le comunità ideologiche, religiose, politiche.
Realtà sociali che funzionano, anch’esse, secondo questo codice di base: quando si sentano minacciate o sotto scacco, faranno ricorso a meccanismi di tipo schizoparanoideo volti a difendere la propria soggettività attraverso il ricorso ad attribuzioni di senso semplici, ordinate secondo l’attribuzione valoriale binaria “bene/male”. In queste condizioni l’estraneo si presta a diventare o il “salvatore” (il portatore di cose buone e di un mondo nuovo) o il portatore di sole istanze negative fino a diventare minaccia pura. Posizioni opposte, ma derivate da uno stesso punto germinale. Si può avere, così, una persona che si consegna al nuovo perché, in un particolare contesto esistenziale, ha smarrito il senso di sé stessa, oppure perché lo ha sempre avuto precario. Con tutti i rischi connessi. Una splendida descrizione di quanto stiamo dicendo ci può venire dal personaggio della figlia (Merry) in Pastorale americana di Philip Roth. 

Il discorso potrebbe essere allargato fino a coinvolgere il bisogno di consegnarsi a persone cariche di fascino o di carisma, capaci di stabilizzare un’identità precariamente fondata. Specie quando la loro soggettività vive un momento di cambiamento. Facendo un salto nel mito, viene da domandarsi perché Arianna si consegni a Teseo; e con sé consegni anche il fratello Asterione e tutta la sua famiglia (Lorenzi e Zerbetto, 2016). E perché faccia la stessa cosa Medea con Giasone, arrivando a rinnegare il proprio passato e a uccidere il fratello. In entrambi i casi lo straniero viene accolto con immedesimazione completa, come complemento e rimedio capace di stabilizzare un’identità còlta in un suo momento di passaggio. Nelle due eroine del mito (Arianna e Medea) si tratta di donne che cercano un nuovo percorso identificativo in alternativa a quello famigliare, infantile e confusivo. E lo trovano in un uomo dai forti tratti apollinei, sentito come capace di fare da traghettatore verso un assetto identificativo nuovo e auspicato. Insomma, una sorta di “principe azzurro”, su cui proiettare le cose migliori; un “altro da sé” che, proprio perché si costruisce con tali caratteristiche, pone le premesse per drammatiche delusioni. L’adesione a nuovi credo, alternativi a quelli di origine (movimenti politici, sette, nuove visioni del mondo ecc.), o a persone dai forti tratti carismatici si muove sulla stessa linea.

All’opposto, anche l’estraneo (lo xenos) caricato di ogni male, visto come colui che arriva a minacciare l’identità, può rivelarsi un mezzo potente per ricompattare identità precarie, del singolo individuo oppure di intere comunità. E questo può funzionare da vera calamita per delle età dell’esistenza (per esempio l’adolescenza) in cui il confronto con la vita adulta pone sempre problemi di definizione identificativa. L’estraneo, per esempio uno straniero, può allora essere visto come la causa di ogni male; il suo rifiuto, un mezzo per ricompattare la propria identità, formare un cemento identificativo con persone accomunate dalle stesse fragilità e magari per sentirsi parte di una comunità rispetto a cui, in primis, ci si sentiva soggettivamente stranieri. In questo caso l’estraneo (lo xenos) si costruisce come minaccia, fino magari a diventare un nemico da eliminare con tutti i mezzi. Qui si ha il confine verso la xenofobia psicopatologicamente definita.

Un tale percorso psicopatologico e un tale modo di funzionare del singolo individuo, in alcuni momenti storici, arrivano a coinvolgere intere comunità. Nel bene e nel male. Il primo nucleo dell’identità europea si forma nella lotta contro l’islam ormai dilagato fino a Poitiers. La cacciata dei moriscos diventa il suggello dell’identità spagnola, e nella guerra contro “il tedesco” e l’“inutile strage” della prima guerra mondiale il nostro risorgimento trovò il proprio epilogo e riconoscimento corale. Un popolo che ha subito il processo unitario ora se ne fa partecipe, contro il nemico teutonico. Allo stesso modo, la lotta contro il nemico (lo xenos) interno ed esterno pone le premesse per l’avvento del nazismo nel popolo tedesco e per la tragedia della seconda guerra mondiale. Possiamo concludere dicendo che la reazione a chi non rientra nel proprio assetto identificativo (lo xenos) si declina secondo un’ampia possibilità di significati. Definendosi in primo luogo come sentimento ubiquitario, fisiologico e addirittura fondante ogni processo identificativo, sia esso proprio a un individuo, a un gruppo o a intere comunità. Fra le tante possibilità evolutive, vi sono anche quelle cliniche che giustificano l’attenzione medica e lo stesso termine “fobia”. Da intendersi come un estremo quantitativo di un sentimento ubiquitario che, con la sua presenza, può rivelare e documentare la fragilità definitoria di quella persona o gruppo di persone. In tal senso, pure spia di un disagio più complesso, capace di manifestarsi anche con altre evidenze cliniche e psicopatologiche. 

Liliana Dell’Osso è direttore dell’Unità Operativa di Psichiatria dell’Università di Pisa. Con Giunti Psychometrics ha pubblicato Fatti di quotidiana follia (2019) e Il caso Coco Chanel. L’insopportabile genio (con D. Muti e B. Carpita, 2018).

PRIMO LORENZI è medico, specialista in psichiatria, e psicoterapeuta. Ha lavorato e insegnato presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Firenze. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali.


Riferimenti bibliografici

Dell’Osso L., Conti L. (2017), La verità sulla menzogna. Dalle origini alla post-verità, ETS, Pisa.

Dell’Osso L., Lorenzi P. (2018), L’ombra dell’autismo. Declinazioni cliniche e psicopatologiche dello spettro autistico sottosoglia, Franco Angeli, Milano. 

Lorenzi P., Zerbetto R. (2016), Arianna. Dalla vicenda mitica alla sindrome clinica, Alpes, Roma.

Mahler M., Pine F., Bergman A. (1978), La nascita psicologica del bambino (trad. it.), Bollati Boringhieri, Torino.

Spitz R. A. (1965), The first year of life: A psychoanalytic study of normal and deviant development of object relations, International Universities Press, New York.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 278 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui