Giorgio Nardone

Sfide terapeutiche: trattare i casi impossibili

Casi impossibili solo all’apparenza possono in realtà essere risolti propiziando la cosiddetta “esperienza emozionale correttiva”. Dove il paziente impara a guardare al proprio problema con occhi diversi.

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Per introdurre l’argomento della terapia dei casi cosiddetti “impossibili”, ritengo indicato partire da qualche esempio storico. Viktor Frankl è stato l’interprete di uno dei più bei casi di questo tipo, come già illustrato in un mio precedente contributo su Psicologia contemporanea (Nardone, 2017). Egli, dopo la fine della seconda guerra mondiale, in cui visse la terribile esperienza di essere deportato, tornò nella sua Vienna e riprese il posto di direttore dei servizi psichiatrici, quasi come se la terribile esperienza del campo di concentramento lo avesse reso ancora migliore nella professione di aiutare gli altri. Un giorno venne chiamato a testimoniare la propria esperienza da un altro grande personaggio della storia della psicoterapia, Heinz Von Foerster, il quale, immediatamente dopo l’annuncio della fine della guerra, insieme a un amico, aveva riattivato la luce elettrica a Vienna, arrampicandosi su ogni pilone dei fili elettrici della città, raggiungendoli in motocicletta.

Egli, come Viktor, si impegnò molto a dar vita alla città, sottoposta a una totale repressione dalle forze naziste. Von Foerster si impegnò a tenere un programma mattutino a Radio Vienna, a cui invitava insigni personaggi che contribuivano all’opera di rinascita. Invitò anche l’insigne psichiatra; Frankl, durante la trasmissione, raccontò la propria esperienza, compresa la perdita di moglie e figlia, viste per l’ultima volta quando, durante la deportazione, le SS le avevano divise da lui, giacché destinate a due differenti campi di concentramento. 

Durante la trasmissione, un cittadino viennese chiamò e chiese l’aiuto di Frankl, per il proprio fratello, che da giorni versava in una condizione catatonica, seduto su una sedia del soggiorno, con lo sguardo fisso sulla sedia davanti a lui, ove la moglie era morta qualche giorno prima, a causa di un broncospasmo dovuto a un’infezione polmonare contratta in campo di concentramento. L’uomo raccontò che il fratello aveva vissuto, come Frankl, l’esperienza della deportazione e dell’essere stato brutalmente diviso dalla moglie, però alla fine della guerra era riuscito a ritrovarla viva, sia pure in precarie condizioni di salute, fra tutti coloro che, finalmente liberi, tornavano in ordine sparso nelle loro città. I due, felicemente ritrovatisi, si erano dati da fare per rimettere a posto la loro abitazione e riprendersi la vita che era stata sospesa. Tutto andava a meraviglia per qualche tempo, fino a quando una mattina la moglie, durante la colazione, non ha un accesso di tosse irrefrenabile e di colpo muore. Da allora il fratello si riduce come una statua bloccata sulla sedia dalla quale aveva assistito all’accaduto.

Frankl accetta di tentare di aiutarlo, lo raggiunge a casa sua, si siede accanto a lui e gli racconta la propria storia. Mentre narra il tragico dipanarsi di questa, l’uomo comincia a sciogliersi dalla rigidità catatonica e dice a Viktor: «Tu sei stato addirittura più sfortunato di me, perché non hai potuto nemmeno rivederle», ma Viktor gli replica: «Questo è vero, ma la tua fortuna si è poi tramutata in una seconda tragedia!». A questo punto i due cominciano a parlare e Viktor propone all’uomo una domanda apparentemente strana: «Immagina che il buon Dio ti donasse una donna identica a lei, con le sue stesse fattezze, il suo stesso sguardo, il suo stesso sorriso. Accetteresti questo miracolo?». L’uomo si alza dando un pugno sul tavolo e gridando: «Lei è insostituibile!». Da quel momento si unì a Viktor Frankl nella gestione di gruppi di auto-aiuto rivolti a persone che avevano perso propri cari nella deportazione. 

UN “SALTUS” QUANTICO NELLA MENTE DEL SOGGETTO

Credo che non ci sia bisogno di commentare la genialità terapeutica di Frankl, ma è importante notare come anche un caso che ancora oggi verrebbe definito intrattabile sia stato risolto in una maniera apparentemente magica. Molto spesso i cosiddetti casi impossibili, rappresentati da quei pazienti iper-resistenti al cambiamento terapeutico perché intrappolati in severe forme di psicopatologia, quando si riesce a intervenire con successo hanno sblocchi che all’apparenza sembrano vere e proprie forme taumaturgiche, e non percorsi terapeutici strutturati. Ma in realtà, se si analizza, come chi scrive ha fatto per lungo tempo, il lavoro di grandi maestri di terapie di questo tipo, ci si rende conto che essi hanno usato delle tecniche calzate in modo specifico a quelle condizioni di psicopatologia estrema, che solo a un occhio ingenuo possono apparire magie. Non è un caso che uno dei più importanti studiosi di tecnologia, Arthur C. Clarke, avesse fatto scrivere sopra la sua porta al MIT di Boston: «Una tecnologia abbastanza avanzata, nei suoi effetti, non è dissimile da una magia».

Avendo io avuto la fortuna, l’onore e l’onere di essere stato formato da grandi maestri della terapia quali Paul Watzlawick e John Weakland, prima assieme a loro, poi assieme ai miei collaboratori di ricerca presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo ho cercato di formulare modelli di intervento terapeutico specifici per le varie tipologie di cosiddetti pazienti impossibili; per esempio il trattamento dei disturbi ossessivo-compulsivi severi, mettendo a punto una serie di differenti strategie composte da specifici stratagemmi in grado, se ben applicati da un terapeuta esperto nell’uso di una comunicazione performativa, di produrre effetti terapeutici apparentemente “miracolistici”.

È il caso delle ritualità ossessivo-compulsive basate sulla ripetizione incessante di atti propiziatori o riparatori rispetto a una fobia. Pensiamo alle persone che devono lavarsi immediatamente dopo un qualche contatto fisico, o anche solo al pensiero di aver toccato qualcosa di contagiante, giungendo ad essere totalmente invalidati dal disturbo e a incrementare sempre più non solo il numero dei lavaggi, ma anche la qualità dei detergenti, fino ad arrivare a utilizzare alcol o addirittura soda caustica per essere sicuri di essersi davvero disinfettati. In questi casi, lo stratagemma essenziale è rappresentato da un contro-rituale terapeutico che ingiunge al soggetto, ogni volta che procede a una disinfezione, di ripeterla un certo numero di volte prefissato, per esempio: «Ogni volta che lei inizierà a lavarsi, se lo farà una volta dovrà ripetere l’atto cinque volte, né una volta di più né una volta di meno. Potrà non lavarsi, ma se inizia dovrà farlo cinque volte, né una volta di meno né una volta di più». 

La prescrizione dovrà essere somministrata con un linguaggio fortemente suggestivo e ripetuta in maniera ridondante, come una sorta di comando post-ipnotico. Ciò che è stato misurato nell’84% di questi casi, in una ricerca longitudinale su oltre 1000 casi trattati nell’arco di più di vent’anni, è che quella percentuale, dopo tale manovra, ha sbloccato completamente la rigida e invalidante patologia. Di solito i soggetti tornano in terapia dichiarando: «È strano, ma dopo qualche giorno che eseguivo il suo compito, ho smesso del tutto», ossia hanno cessato di mettere in atto i rituali, cessando così anche di utilizzare il contro-rituale terapeutico.

A una osservazione superficiale sembrerebbe che l’indicazione abbia condotto il paziente a stancarsi dei suoi rituali, ma se si pensa che prima di cominciare a mettere in atto il contro-rituale tali persone di solito, nell’arco della giornata, ripetevano molto più delle cinque volte le igienizzazioni patologiche, questa spiegazione appare assolutamente inadeguata. Ciò che riportano gli stessi pazienti è che, reiterando un numero prefissato di volte, è cambiata la loro percezione del rituale stesso e della rispettiva patologia, poiché se potevano ripetere il rituale il numero di volte richiesto dal terapeuta, potevano anche decidere di non eseguirlo, come viene, in maniera indiretta, indicato nella prescrizione, e scoprire così di essere in grado di rinunciare alla sua esecuzione. Pertanto il cambiamento è un cambiamento nella percezione e nella reazione alla fobia, che crea un vero e proprio saltus quantico all’interno del funzionamento mentale del soggetto.

L’ESPERIENZA EMOZIONALE CORRETTIVA

Questo è ciò che viene definito, già nel 1946 da Franz Alexander, «esperienza emozionale correttiva», rappresentata da quell’evento, o serie di eventi, esperiti concretamente dal paziente, che gli fanno cambiare completamente il modo di percepire le cose e, perciò, il modo di reagirvi. Paul Watzlawick ha definito come metodo più efficace per propiziare questo tipo di esperienze la costruzione, da parte del terapeuta, di “eventi casuali pianificati”, ovvero stratagemmi che inducano il paziente a sperimentare nuove modalità di gestione del suo problema, senza che esse siano volontariamente attivate da lui, ma in modo che siano vissute come effetto di manovre terapeutiche velate, atte a spostare l’attenzione del paziente su altro, grazie a ciò occasionando l’avvento dell’esperienza emozionale correttiva. Nell’antica saggezza strategica cinese ciò viene definito «Solcare il mare all’insaputa del cielo».

Questo tipo di effetto non richiede obbligatoriamente prescrizioni dirette, può anche essere determinato – com’è avvenuto nel caso di Viktor Frankl – durante un colloquio terapeutico, il quale però, a tale scopo, dev’essere decisamente molto suggestivo e a forte impatto emozionale; quello che le neuroscienze moderne dimostrano, infatti, è che un cambiamento effettivo nel modo di percepire e reagire alla realtà può avvenire solo se passa attraverso le nostre emozioni primarie. Questo sta a indicare che non basta far cambiare i pensieri o i comportamenti a una persona affinché ciò induca a un radicale cambiamento nel modo di sentire, piuttosto che nel modo di comprendere, come si ha appunto nell’esperienza emozionale correttiva.

Come ci indica Daniel Dennett, le emozioni primarie sono infatti risposte adattive alla nostra realtà sia interna che esterna che funzionano «come competenze senza comprensione», ossia risposte mosse da meccanismi atavici che, per quanto evoluti grazie alla civiltà umana, rimangono processi al di sotto del livello della coscienza, pertanto inducibili solo attraverso eventi ed esperienze concrete, e non mediante ragionamenti ed elucubrazioni cognitive. Certamente, come dimostrato da numerose ricerche, evocazioni suggestive che stimolano risposte emozionali intense rappresentano anch’esse una tipologia di evento concreto; ciò significa che il linguaggio da utilizzare dovrebbe essere decisamente suggestivo e ingiuntivo, o, come meglio lo definisce il linguista Austin, «performativo», nel senso che la sua espressione dà forma effettiva a realtà vissute come concrete, anche se possono essere soltanto emozioni attivate mediante tecniche evocative.

 

CONOSCERE IL NEMICO PER BATTERLO

Un altro esempio di tecnologia “artistica” con effetti apparentemente magici è rappresentato dal trattamento del disturbo persecutorio, formulato all’incirca dieci anni orsono, dopo una ripetuta sperimentazione della tecnica messa a punto. I soggetti affetti da questa severa forma di psicopatologia vedono nemici ovunque, sentono gli altri costantemente ostili o squalificanti nei loro confronti e, per difendersi da questa loro alterata percezione ritenuta però realistica, o si chiudono isolandosi difensivamente o diventano aggressivi come preventiva difesa nei confronti dei presunti nemici. In questi casi il terapeuta, invece di cercare di smontare razionalmente le convinzioni patologiche del paziente, lo deve invitare a “conoscere meglio il nemico per saperlo combattere vittoriosamente”, e per realizzare ciò gli indica di dedicare uno spazio quotidiano a questa attività di osservazione e studio delle varie tipologie di contendenti. In termini applicativi, costui dovrà uscire e andare in luoghi frequentati e osservare attentamente le persone che incontra, cercando di rilevare in loro i chiari segni di ostilità, rifiuto o squalifica nei propri confronti, allo scopo di definire la tipologia di nemico e di aggressione da cui difendersi. 

Nell’87% di oltre 500 casi trattati, la risposta è stata più o meno la stessa sorprendente scoperta realizzata da parte dei soggetti che hanno messo in atto la prescrizione: nessuno di loro ha trovato, cercandoli attentamente, i chiari e indiscutibili segni di ostilità, di rifiuto o di squalifica di cui era convinto in precedenza, anzi spesso il suddetto 87% aveva trovato segnali di disponibilità, contatto e perfino simpatia. In altri termini, andando a osservare le persone con l’aspettativa di rilevare una realtà, i soggetti in questione avevano trovato quella opposta, difatti le persone incontrate rispondevano ai loro sguardi con occhi di accoglienza, disponibilità al contatto e spesso sorrisi. 

Questo “evento casuale” per il paziente, “pianificato” invece dal terapeuta, produce l’esperienza emozionale correttiva della scoperta inequivocabile, perché ripetutamente e concretamente esperita, che va a smantellare le precedenti convinzioni persecutorie, provocando così un radicale cambiamento delle percezioni e reazioni del soggetto, ora liberato dalla sua precedente dinamica patologica con gli altri. 

Anche in questo caso non siamo di fronte a un miracolo o a una magia, bensì a una tecnologia terapeutica. Nelle psicopatologie più severe, come già accennato, se si riesce a trovare la leva vantaggiosa del cambiamento terapeutico, questo si realizza in maniera “catastrofica”, ovvero come repentina rottura dello schema percettivo e reattivo del disturbo. Ciò può apparire miracoloso, ma in realtà pertiene a una tipologia di cambiamento propria degli esseri viventi, osservabile in natura così come all’interno delle dinamiche umane. Tanto più un sistema è irrigidito nel suo funzionamento, tanto è più fragile; le psicopatologie più severe hanno la stessa prerogativa. Assumere questa prospettiva che combina scienza e arte, rigore e inventiva, non solo permette di svelare apparenti misteri, ma soprattutto offre la possibilità di mettere a punto tecniche psicoterapeutiche sempre più raffinate ed evolute, in grado di fare affrontare anche le sfide patologiche più insidiose. 

Pertanto il tutto è un “segreto che non è un segreto”, una ricerca empirico-sperimentale, con l’aggiunta di un po’ di creatività applicata. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che esistono inesorabilmente le sconfitte e le delusioni per i casi irrisolti; saper riorientare costruttivamente questi ultimi rappresenta forse la sfida più difficile. 

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzla­wick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Riferimenti bibliografici 

Dennett D. C. (2018), Dai batteri a Bach. Come evolvere la mente (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.

Foerster Von H. (1997), Etica e cibernetica di secondo ordine. Trad. it. in P. Watzlawick, G. Nardone (a cura di), Terapia breve strategica, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Nardone G. (2017), «Teoria e pragmatica del cambiamento», Psicologia contemporanea, 259, 40-45.

Nardone G., Balbi E. (2008), Solcare il mare all’insaputa del cielo. Lezioni sul cambiamento terapeutico, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Milanese R. (2018), Il cambiamento strategico. Come far cambiare alle persone il loro sentire e il loro agire, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Watzlawick P. (2005), Brief strategic therapy: Philosophy, techniques, and research, Jason Aronson, New York.

Nardone G., Watzlawick P. (2010), L’arte del cambiamento. La soluzione dei problemi psicologici personali e interpersonali in tempi brevi, TEA, Milano.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 277 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui