Guidalberto Bormolini

Scegliere la vita anche oltre la morte

In nome del dialogo e del confronto, un uomo di chiesa può ascoltare e magari comprendere il bisogno di liberarsi dal dolore di chi si rivolge all’idea della morte assistita. Ciò non toglie che profili una soluzione diversa.

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Mi permetto di iniziare questo articolo con i preziosi versi di Alda Merini: «La tenebra è solo una grande domanda di luce». E non nascondo la difficoltà ad affrontare l’argomento delicato e importante del suicidio assistito e dell’eutanasia, argomenti affini ma non identici, proprio alla luce di questi versi. Cosa sappiamo veramente di ciò che si muove nel mistero di un essere umano? Una richiesta di suicidio assistito può originarsi anche da una domanda lecita, a cui forse il richiedente ha trovato quella che gli appare come l’unica soluzione, ma che forse tale non è. E comunque la richiesta suicidaria potrebbe non essere tanto una richiesta di morte, quanto piuttosto la più estrema richiesta di vita che non regge all’assenza di risposte. Ho da sempre una propensione assoluta per il dialogo, e una caratteristica fondamentale della mia ricerca spirituale è proprio quella di cercare il bene ovunque. Perfino nel dibattito sulle delicate questioni bio-etiche non posso nascondere di riconoscere degni di grande considerazione molti argomenti di chi sostiene posizioni eutanasiche o favorevoli al suicidio assistito, ma la mia coscienza si colloca su conclusioni opposte, perché credo che le importanti considerazioni che vengono fatte da costoro necessitino di altre soluzioni. (CONTINUA...)

Credo che occorra comunque partire dalla consapevolezza che le persone idealiste impegnate in questo dibattito sui due fronti (esclusi, quindi, coloro che su ambedue i fronti strumentalizzano il dolore altrui per portare avanti la propria ideologia) hanno la medesima consapevolezza del problema e il medesimo desiderio di prendersi “cura” delle persone. Ma giungono a conclusioni opposte e spesso inconciliabili.

Poiché in tale dibattito le questioni non riguardano semplicemente una condotta morale particolare, ma l’essere umano in quanto tale, gli argomenti dovrebbero essere “convincenti” proprio per l’essere umano in quanto tale. Vorrei qui dare un piccolo contributo a un grande dibattito, che tocca una cosa più grande di me: la vita.

 La richiesta di morte e il tabù della morte 

Una parte consistente delle richieste di morte deriva dall’inquietudine e dalla sofferenza procurate da una malattia grave e terminale. Un paradosso che vive l’uomo moderno grazie alle (o a causa delle) conquiste tecniche della medicina è il timore di essere privati della propria morte come termine della sofferenza. Come diceva Sciascia, «A un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza». Il drammatico racconto di Philippe Ariès, tra i principali storici della morte, che rievoca il suo amico gesuita padre de Dainville, vittima di “accanimento terapeutico”, mentre grida: «Mi privano della mia mor­te», ci impone una riflessione profonda.

Di recente ho letto su un noto quotidiano la seguente dichiarazione di un medico, presidente di un’importante organizzazione professionale: «Da sempre la morte è il male per i medici. La consideriamo il nemico numero uno!». Penso che uno dei problemi da affrontare a monte di qualsiasi dibattito sia proprio questo: considerare la morte un nemico, una sconfitta. Da qui sorge la paura di molti contemporanei «che la nostra morte sia gestita da un medico e, paradossalmente, da un medico tanto bravo e coscienzioso che farà di tutto per impedire la morte. Ora, questo “tutto” è diventato “troppo”» (Spinsanti, 1985). La morte rimossa, figlia di un’insana cultura di negazione, ha conseguenza disastrose, induce a scelte mortifere nell’illusione di allontanarsene. «L’esperienza concreta dell’antropologia dimostra che negare la morte genera un’altra morte», ci insegna il noto antropologo e tanatologo Louis-Vincent Thomas. Il paradosso della tecnologia applicata alla medicina, insieme a tanti risultati positivi, è quello di una protrazione inedita del tempo “terminale”. Secondo Spinsanti, bioeticista esperto del mondo palliativo, ciò genera «il fantasma della morte negata», ma soprattutto un ribaltamento del senso dell’azione del medico, che «da alleato del malato nella lotta contro la morte, sembra mutarsi in insidioso nemico che priva il morente della sua morte». La non accettazione della morte, tipica della civiltà contemporanea, il ritenere la morte l’opposto della vita e non uno dei passaggi della vita stessa inducono la medicina a un prolungamento talvolta indebito dei tempi ultimi che «crea un’angoscia profonda e suscita fantasmi legati all’ostinazione» (Spinsanti, 1985).

 Cure palliative e desiderio di morte 

La richiesta di alcuni pazienti «Dottore, mi faccia morire» potrebbe essere in realtà non solo un desiderio da leggere in senso letterale, bensì la manifestazione del timore che il sistema della cura inneschi azioni che non corrispondono al suo vero e profondo interesse. Non, quindi, un semplice prolungamento della vita, ma un prendersi cura dei due bisogni fondamentali nei tempi ultimi: non soffrire e non essere lasciati soli. In questo contesto, però, gli studi confermano che una volta che il paziente è rassicurato sulla presa in carico e sulla gestione del dolore, le richieste tendono a ridursi fino ad azzerarsi.

Uno degli studi più significativi è stato condotto nella Maison médicale “Jeanne Garnier” di Parigi, il più grande centro di cure palliative della Francia. Sono stati analizzati i desideri di morte nel modo più comprensivo possibile, secondo 3 categorie: richieste di eutanasia (Euthanasia Requests, ER); pensieri suicidari in cui si faceva esplicito riferimento al suicidio o comunque alla cessazione della vita per mano propria (Suicidal Thought, ST); espressioni del desiderio di morire senza un’esplicita richiesta di assistenza in tal senso (Other Wish to Die, OWD). Su 2157 pazienti presi in carico in due anni, il 9% ha manifestato desideri di morte, ma solo il 3% ne ha formulato una concretizzazione (eutanasica) e, una volta presi in carico globalmente dalle cure palliative, il 90%
di questi non ha reiterato la domanda.

Una società che instilla nei malati, negli anziani, nei soli, il desiderio di morire non fa altro che mettere sulle loro spalle il peso del “sentirsi inutili”. Si è consapevoli che «anche le migliori cure palliative possono non risolvere tutti i problemi e che una residua minima domanda di eutanasia può restare, ma noi dobbiamo lavorare perché anche questa scompaia cercando di fare sentire accolti tutti i malati» (Cancelli, 2012).

 Una forte disinformazione 

Secondo i dati dell’Osservatorio volontario di monitoraggio delle cure palliative e della terapia del dolore coordinato dall’ex ministro Livia Turco, siamo in un Paese in cui 2 cittadini su 3 (il 63%) non conoscono l’esistenza delle cure palliative. È pertanto evidente che il terreno non è ancora maturo per un dibattito nella cittadinanza su questi temi bioetici. Soprattutto se si considera che anche la parte di cittadinanza che ne ha sentito parlare difficilmente è a conoscenza di tutte le possibilità che quelle offrono.

Sono numerose le occasioni in cui ho riscontrato confusione su due aspetti fondamentali quali l’eutanasia e la sedazione palliativa: e spesso ciò che veniva rivendicato con l’eutanasia corrispondeva alla “semplice” cessazione della sofferenza, che si ottiene con la sedazione palliativa, ossia la sedazione del paziente che si pone in atto in caso di sintomi refrattari, pratica clinica ampiamente permessa dalla legislazione e dalla stessa Chiesa cattolica.

La Società Italiana di Cure Palliative si è sentita in dovere di chiarire la distinzione in un documento redatto a seguito di una trasmissione televisiva: «Nel servizio “Così muore un italiano”, andato in onda nel corso del programma Le Iene del 23 novembre 2015, si propongono un inaccettabile accostamento e una pericolosa confusione di termini fra sedazione palliativa/terminale ed eutanasia e suicidio assistito […] La sedazione palliativa/terminale è radicalmente differente dall’eutanasia e dal suicidio medicalmente assistito, per l’obiettivo che si prefigge (controllare le sofferenze refrattarie, altrimenti non trattabili con i normali mezzi terapeutici), per i mezzi utilizzati (farmaci sedativi ad azione reversibile e modulabile) e per il risultato (perdita dello stato di vigilanza di variabile profondità); l’eutanasia ed il suicidio medicalmente assistito hanno invece l’obiettivo di provocare la morte del malato utilizzando farmaci letali com­­pletamente differenti da quelli impiegati nella sedazione palliativa/terminale».

Tra l’altro, stupisce che in molti casi la questione della eutanasia e del suicidio assistito venga posta in riferimento al malato terminale, quando le cure palliative permettono di accompagnare la grande maggioranza dei malati, con dignità e senza troppa sofferenza. I dati recenti di Paesi come il Belgio rafforzano lo stupore: il 74% delle eutanasie è praticato a malati di cancro, la malattia in cui le cure palliative hanno raggiunto un ottimo controllo del dolore (Sozzi, 2014). Ciò che manca, semmai, sono la presa in carico precoce del paziente e l’estensione a tutte le patologie non oncologiche, in modo da garantire a tutta la popolazione l’accesso alla terapia del dolore e alle cure palliative, come prevede la legge 38/2010.

 Ridefinire la dignità 

I sostenitori del suicidio assistito lo ritengono un diritto rivendicando la possibilità di interrompere la propria esistenza quando non sia più dignitosa, secondo la propria sensibilità. Ma talvolta si confonde la mancanza di dignità con l’assenza di integrità fisica o di autonomia, condizioni, queste, condivise tra l’altro da molti disabili per tempi ben più lunghi. Per quanto drammatica sia la “menomazione” fisica, sono convinto che la dignità sia distinta da questa, e l’appello disperato di alcuni dovrebbe piuttosto interrogarci profondamente: siamo stati in grado di ridonare dignità a chi la sente perduta o mutilata? La riduzione della prestazione o dell’integrità fisica rende realmente la persona inutile? La vulnerabilità acquisita traumaticamente potrebbe anche essere il motore di umanizzazione per chi circonda la persona “ferita” nel suo corpo. La presenza di chi soffre, ben lungi dall’essere inutile, potrebbe piuttosto essere stimolo per il prezioso compito di mettere in moto quello che il filosofo Emmanuel Lévinas chiama il «dovere della cura». Secondo lui, c’è un importante orizzonte di senso per il dolore all’interno della relazione fra me e gli altri, rendendoci più umani nel nostro prenderci cura dell’altro (Campione, 2014).

Il mistero dell’essere umano

Siamo consapevoli che, nonostante gli argomenti addotti, restano alcuni casi estremi in cui la scelta di morire avviene con consapevolezza e malgrado un ottimale supporto umano e medico. Di fronte a queste situazioni la mia coscienza suggerisce il silenzio e il non giudicare, come consigliò anche l’arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi: «Le situazioni come quella che riguarda DJ Fabo sono delle situazioni e delle condizioni su cui è difficile parlare, perché sono sempre di grande sofferenza personale». Parole simili, ma di ispirazione laica, a quelle della tanatologa Marina Sozzi: «La verità, scomoda perché impone il silenzio e l’ascolto (due modalità non molto diffuse nella nostra civiltà), è che ogni caso umano di desiderio di morte è talmente complesso che il commento che possiamo farne dal punto di vista etico (quello legale è un’altra cosa) rischia sempre di essere superficiale in modo intollerabile. […] Molto meglio astenersi» (Sozzi, 2017).

Un contesto come quello della contemporaneità, in cui vige un’esclusione culturale e sociale della morte, rende comunque molto difficile operare scelte che tocchino aspetti profondi. Prospettive future più mature sorgerebbero se venisse svolta un’“educazione alla morte” generalizzata, come propone Ines Testoni, capofila di questa disciplina educativa in Italia (Testoni, 2015).

Il contesto in cui gli uomini odierni sono costretti a fare le proprie scelte su vita e morte è assolutamente inedito nella storia dell’umanità: morte, vecchiaia e sofferenza sono bandite, sono diventate un tabù innominabile. Siamo una società terribilmente materialista, e inconsciamente anche tanti cristiani ne hanno adottato profondamente la filosofia: esiste solo ciò che è visibile! E conta solo ciò che si misura. I tessuti sociali in cui siamo nati e siamo stati cresciuti sono completamente stravolti: prevalgono l’individualismo e di conseguenza la solitudine. Posso quindi capire la disperazione di molti quando si trovano a fare delle scelte in un contesto simile.

 Accogliere nel mistero 

In ogni caso, gli esseri umani sono e restano un mistero, e io cerco di accoglierli come sono, anche nelle loro più difficili scelte morali. Per esperienza ho visto che accogliere (il che non comporta necessariamente di condividere) le difficili e tormentate posizioni espresse da coloro che devono affrontare le scelte del cosiddetto “fine vita” li aiuta a valutare e accettare le posizioni diverse dalle proprie, magari le stesse di cui cerco di essere portatore io, più come testimone che come predicatore. Opporsi e giudicare finisce troppo spesso per ottenere uno sterile radicalizzarsi delle posizioni.

Bisogna ammettere di trovarci oggi di fronte a quesiti di ardua soluzione. Personalmente rifuggo qualsiasi fondamentalismo e mi sembra che ogni essere umano sia unico, e unico anche tutto ciò che lo riguarda, quindi difficilmente canonizzabile. Troppo facilmente – da un lato e dall’altro – ci si dimentica che davanti a noi c’è un essere umano con tutto il suo mistero; e che il suo destino e il suo mondo interiore restano un mistero anche dopo che la persona ha preso decisioni che noi riteniamo moralmente inaccettabili. E forse anche Lui, il Mistero per eccellenza, rispetta il mistero dell’essere umano, altrimenti non si spiega come sia possibile che l’Onnipotente e Onnisciente abbia pronunciato queste parole, dopo la “trasgressione” del primo essere umano: «Adamo, dove sei?».

Guidalberto Bormolini, monaco e antropologo impegnato nel dialogo interreligioso, è docente nel master End Life dell’Università di Padova e presidente di Tutto è Vita Onlus.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Ariès P. (2012), Storia della morte in Occidente (trad. it.), BUR, Milano.

Campione F. (2014), Per l’Altro, ASMEPA, Bologna.

Cancelli F. (2012), Vivere fino alla fine, Lindau, Torino.

De Hennezel M. (2013), Nous voulons tous mourir dans la dignité, Laffont, Paris.

Sozzi M. (2014), Sia fatta la mia volontà, Chiarelettere, Milano.

Sozzi M. (2017), «Suicidio assistito in Svizzera per depressione, la verità richiede silenzio e ascolto», Il Fatto Quotidiano, blog di M. Sozzi, 10 settembre.

Spinsanti S. (1985), Umanizzare la morte per prevenire l’eutanasia, In Dialogo Editore, Milano.

Testoni I. (2015), L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education, Bollati Boringhieri, Torino.

 

Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui