Psicologia delle fake news
Nel mondo della post-verità, dove i fatti oggettivi sono trasformati in fatti sociali, hanno un ruolo sovrano i social network. Con il potere di decidere cosa promuovere e cosa tacere in Rete, e addirittura quali fake news, cioè panzane, spacciare per verità.
Secondo il vocabolario Garzanti della lingua italiana, un “fatto” è «ciò che è reale, concreto». Per esempio, è un fatto che questo articolo inizi con la parola «Secondo». Lo possiamo verificare immediatamente guardando il testo dell’articolo. Per questo parliamo di “fatto oggettivo”.
Tutti i fatti sono oggettivi, cioè possono essere verificati immediatamente e senza dubbio alcuno? In realtà, no. Moltissimi fatti sono invece “fatti sociali”, la cui verità è determinata dalla rete sociale a cui ci rivolgiamo. Per esempio, se voglio diventare psicologo in Italia è previsto un esame di Stato in cui due docenti universitari e tre iscritti all’albo professionale valutano attraverso tre prove scritte e un orale la capacità di essere psicologi. In questo caso, “essere uno psicologo” è un fatto sociale perché dipende da una rete – i cinque valutatori – a loro volta rappresentanti della rete sociale degli psicologi abilitati.
Ma cosa succede quando un fatto oggettivo entra in conflitto con un fatto sociale? Per esempio, che cosa prevale tra una bufala accettata socialmente dalla rete di riferimento – per esempio, che l’Italia abbia importato dalla Romania il 40% dei suoi criminali – e un fatto oggettivamente verificato – il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trova in Italia? Gli psicologi sociali sanno già da tempo la risposta.
Negli anni Cinquanta del Novecento, infatti, uno psicologo sociale, Solomon Asch, ha realizzato un esperimento diventato un classico all’interno degli studi sul conformismo. A un gruppo di 8 soggetti, di cui 7 complici dello sperimentatore, veniva chiesto di osservare una linea su un foglio e di indicare a quale corrispondesse fra altre tre di dimensioni differenti. Dopo qualche risposta corretta, tutto il gruppo dei complici cominciava a rispondere in modo sbagliato. Come si comportava a questo punto il povero soggetto sperimentale, chiamato a rispondere per ultimo? I dati di Asch sono eloquenti: solo 1 soggetto su 4 continuava a dare nelle 12 prove dell’esperimento sempre una risposta corretta (contro il 95% del gruppo di controllo in cui non vi erano complici).
Quindi, in generale l’opinione del gruppo di cui faccio parte rappresenta a sua volta un fatto la cui forza non è inferiore a quella dei fatti oggettivi. Anzi, visto il progressivo indebolimento delle istituzioni che dovrebbero garantire la verità, la forza della rete sociale diventa preponderante, in particolare allorché quanto affermato risulta essere coerente con i miei valori e le mie aspettative. Per questo alcuni attori della scena economica e politica hanno iniziato a ignorare i fatti oggettivi puntando sulla forza dei fatti sociali e creando quello che l’Economist ha recentemente definito un «mondo post-verità» («The post-truth world. Yes, I’d lie to you», The Economist, https://goo.gl/6oz8V2).
Un ruolo chiave nel mondo post-verità è giocato dai social network. Da una parte, offrono una serie di strumenti che consentono di comprendere con molta precisione le aspettative del gruppo sociale. Per esempio, sia Google che Facebook e Twitter sono in grado di identificare e misurare in tempo reale quelli che sono i trend topic, gli argomenti di cui parlano maggiormente gli utenti nelle diverse reti di cui sono membri. Google, addirittura, redige annualmente un rapporto, chiamato “Google Zeitgeist” (“spirito del tempo”), che rivela che cosa ha catturato l’attenzione degli utenti del motore di ricerca: passioni, interessi, momenti salienti. Dall’altra parte, i social media tendono a ridurre gli elementi di divergenza. Nel suo ultimo libro, Il Filtro. Quello che internet ci nasconde (Il Saggiatore, 2012), Eli Pariser, attivista di Internet e creatore del sito Upworthy, spiega come nella scelta delle informazioni da proporre ai diversi utenti i social media prima ci analizzino per capire chi siamo e cosa vogliamo (per avere un esempio di quello che si riesce a capire da un profilo social basta andare su https://goo.gl/9b12ev) e poi ci propongano solo contenuti coerenti con la loro predizione, in modo da aumentarne la condivisione e i like.
Infatti, gli algoritmi automatici di selezione delle informazioni all’interno dei social media non sono basati sulla verifica della verità oggettiva di quanto affermato, ma piuttosto sul potenziale di condivisione sociale (e quindi sulla massimizzazione dei profitti pubblicitari) dei contenuti proposti. Inoltre, i meccanismi invisibili di selezione dei contenuti che tendono a escludere ciò che non corrisponde esattamente ai nostri gusti, riducono significativamente la spinta a mettere in discussione la verità di quanto affermato all’interno della Rete.
Ciò è vero in particolare quando il fatto sociale è “narrato”, cioè raccontato in modo da sembrare realistico. La psicologia dello storytelling fornisce molti trucchi per trasformare un fatto sociale in un fatto oggettivo. Un esempio in questo senso è la trasformazione del fatto sociale – in Italia vivono insieme a noi molti terroristi – condiviso dai militanti di molte forze politiche, in un falso fatto oggettivo ripreso da molti media – a Cinisello Balsamo è stato arrestato un terrorista dell’ISIS. In primo luogo, ci vuole un attore che abbia uno scopo preciso – il terrorista ISIS che scappa da Berlino e che vuole colpire anche in Italia. Poi ci vuole una persona informata sui fatti – un poliziotto o un giornalista – che racconti la storia in prima persona e la renda credibile. Questa persona informata deve poi condividere le proprie emozioni con il pubblico in maniera coerente con il sistema valoriale del lettore. La semplice unione di questi elementi ha portato alla seguente bufala: «Un poliziotto del NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) ci ha appena raccontato dell’arresto a Cinisello Balsamo di un terrorista dell’ISIS coinvolto nell’attentato di Berlino. Il poliziotto, che vuole rimanere anonimo per motivi di sicurezza, ha esternato la sua soddisfazione per la rapida cattura di un pericoloso terrorista che avrebbe potuto colpire presto anche l’Italia».
La nascita del mondo post-verità è il risultato della consapevolezza dell’esistenza di tali meccanismi e del tentativo di utilizzarli come strumento di persuasione e di pressione, in particolare per motivi politici ed economici. La sfida dei social media e dei mezzi di comunicazione è ora quella di ricostruire la propria credibilità, definendo dei meccanismi in grado di bloccare la diffusione delle bufale. E se non vogliono o non ci riescono, saranno le istituzioni a dover intervenire in prima persona per proteggere i cittadini da questi meccanismi truffaldini.
Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione nell’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, I social network (Il Mulino, 2016).
Questo articolo è di ed è presente nel numero 263 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui