Redazione Psicologia Contemporanea

Luca Mazzucchelli intervista Roberto Cingolani

Una bella chiacchierata col fisico padre della robotica italiana, su alcuni temi legati alle macchine intelligenti: in primis, quanto la loro eventuale pericolosità dipende da esse e quanto da come noi le programmiamo e utilizziamo.

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L’immaginario collettivo sui robot è molto legato a quello che vediamo nei film di fantascienza, in cui questi ultimi sono presentati principalmente in versioni antropomorfe. Mi chiedo se la visione che ne abbiamo non sia ristretta. Che cosa sono davvero i robot?

Lo scenario dei film di fantascienza è molto evocativo perché fa leva sulle nostre paure ataviche: una creatura simile a noi, ma più forte, più grossa, fuori controllo… il mostro! In realtà, siamo pieni di robot: quello con cui facciamo la pasta, la ruspa, la stessa automobile. È un robot qualunque oggetto che sia in grado di attuare il movimento, andare da un punto all’altro, spostare qualcosa, fare lavoro fisico o anche chimico: un sistema più o meno automatico, non necessariamente autonomo, che possiamo utilizzare per fare quello che ci serve. “Robot” è un termine cecoslovacco che etimologicamente significa “schiavo”: stiamo parlando di un dispositivo che fa del lavoro per noi, nella maggior parte dei casi di tipo fisico-meccanico. Ne abbiamo tanti e conviviamo con macchine di questo genere da sempre: la ruspa è un robot, anche se non è antropomorfa. 

Allora cos’è che ci fa continuare ad associare il robot a ciò che vediamo nei film?

Negli anni recenti si sono sviluppate delle macchine assai sofisticate per fare i conti, risolvere algoritmi complessi in tempi molto rapidi, calcolare delle traiettorie… Ci siamo ritrovati ad avere, da un lato, la mente, la macchina che fa i conti e, dall’altro, il corpo, il sistema meccanico. Per tanto tempo tali tecnologie sono rimaste separate, il computer stava alla mente come la ruspa stava al corpo. Poi si sono integrate: la “parte calcolo” è stata messa dentro la “parte corpo”. Questa combinazione è evocativa perché ricorda il corpo-mente. Anzi, automaticamente ci fa pensare: questo sistema è superiore perché è più forte di me e conta più in fretta. Da qui nasce il parallelo con la fantascienza. In realtà, le tecnologie sono nate indipendenti e rimarranno tendenzialmente tali. Infatti, l’essere umano non è fatto solo di corpo e mente. La mente dell’uomo non avrebbe senso senza il corpo e viceversa. Il cervello e il corpo si sono sviluppati di pari passo e sulla stessa base biologica, mentre non si può dire la stessa cosa per la ruspa e il computer. Di conseguenza, io sono più preoccupato dell’utilizzo che l’essere umano fa della tecnologia, che della tecnologia in sé. 

Qual è la differenza tra l’intelligenza artificiale e quella umana?

L’intelligenza artificiale, nella maggior parte dei casi, è costruita sulla base di un sistema di equazioni o algoritmi che risolvono un problema, date le condizioni di contorno definite dalla situazione. 

Per questo è molto probabile che macchine diverse, dotate di intelligenze artificiali diverse, messe nella stessa situazione finiscano col dare inevitabilmente il medesimo risultato. Se fossero intelligenze naturali, questo probabilmente non succederebbe: nella stessa situazione gli uomini raggiungono conclusioni completamente differenti a seconda della loro ideologia o dell’umore del momento. Negli esseri umani è presente una componente irrazionale dovuta alla biochimica. 

Quindi, le macchine non possono “impazzire”?

Le macchine sono riproducibili e affidabili, di sicuro non impazziscono, però mediamente sono un po’ stupide e di certo non sono creative. L’essere umano, caso mai, impazzisce, però è creativo e capace di slanci che in certe situazioni lo rendono assolutamente superiore a qualsiasi macchina. Il sistema vivente è comunque di gran lunga più sofisticato del sistema elettronico sommato all’intelligenza artificiale. È sicuramente più irriproducibile, più irrazionale, ma proprio per questo in grado di creare, di inventare, di improvvisare. Ovviamente, ciò non è sempre positivo, c’è anche chi impazzisce e fa delle cose sbagliate. Più difficile che succeda alla macchina: siamo noi che proiettiamo nella macchina l’idea che potrebbe impazzire. Dobbiamo tornare a un discorso più pragmatico e abbandonare la “sindrome del creatore”: le macchine sono elettrodomestici più o meno sofisticati che, in funzione della mansione da ricoprire, devono lavorare per noi in maniera efficace, consumando poco e semplificandoci la vita.

Quali sono le competenze umane che i robot non potranno mai sostituire?

Rispondendo in maniera un po’ accademica, credo che i robot possano sostituire efficacemente tutte le mansioni per cui l’essere umano corre dei rischi. Poi, progressivamente, tutti i lavori di routine. Prima di tutto le routine manuali e, in seguito, migliorando l’intelligenza artificiale, anche quelle di tipo cognitivo, che cioè richiedono un’intelligenza di natura ripetitiva. Penso che difficilmente queste macchine avranno la capacità di sostituire lavori creativi, come quello dell’artigiano. Non dico l’artista, il poeta, lo scienziato: dico proprio l’artigiano, un mestiere che richiede quel mix di esperienza e di capacità di improvvisare che le macchine non hanno. Però su questo vorrei essere anche un po’ più preciso: c’è un problema di natura tecnica. Oggi ci sono dei supercomputer in grado di fare miliardi di miliardi di operazioni al secondo, che dunque, dal punto di vista del numero di istruzioni che possono processare nell’unità di tempo, sono paragonabili a un cervello umano. Per cui, uno potrebbe dire: prendo una di queste macchine, la addestro e la faccio diventare come un cervello umano. Il punto è: questa cosa si può anche fare, ma costa centinaia di milioni, è grossa metri cubi e consuma trenta MW di potenza elettrica. Siamo sicuri che sia la strada giusta? Davvero stiamo cercando il sostituto dell’essere umano? A mio parere questa è una nostra proiezione, parte dell’irrazionalità umana. 

Secondo te, come cambierà il mondo del lavoro del futuro? Quali sono gli scenari più probabili? 

Un lavoro con meno movimento, meno spostamento fisico. Inoltre, spero in un miglioramento di produttività: con queste macchine, più che produrre di più, produci meglio. Poi vedo profili completamente nuovi: ci saranno il Memory Manager, l’Energy Manager, chi dovrà gestire i Cloud, i tecnologi del cibo o dei materiali che faranno organi di riserva per gli esseri umani, l’infermiere e il medico digitale. Però, sostanzialmente, quello che vedo è che il lavoro del futuro sarà meno intenso fisicamente ma più intenso intellettualmente, poiché basato sulla conoscenza. I lavoratori, sostituiti con le macchine, devono essere “riconvertiti” su lavori che richiedono competenze superiori a quelle che servono in una catena di montaggio per fare un’operazione ripetitiva. Per questo bisognerà investire moltissimo sulla conoscenza. 

Puoi spiegarci in che modo?

L’aggiornamento del cittadino, del lavoratore del futuro, intanto dovrà essere assai rapido, perché le tecnologie sono rapide. In secondo luogo, dovrà essere un’azione combinata. Cioè, non si può pensare che a 18 anni finisci la scuola e poi fino a 70 anni, quando vai in pensione, quello che hai imparato a scuola ti sarà sufficiente. In dieci anni ci sono, ormai, tre generazioni di tecnologie che si succedono. Bisogna favorire la metabolizzazione dell’innovazione da parte dei cittadini. Nei secoli scorsi, fino agli anni Settanta, tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche sono state intergenerazionali. Adesso il passo della tecnologia è rapidissimo e intragenerazionale. Per questo, se vogliamo sfruttare bene le tecnologie e non rendere i cittadini vittime delle stesse, bisogna fare in modo che vengano informati su questo progresso rapidamente. È necessario partire dalla scuola e non fermarsi lì: l’informazione è un life long process, altrimenti a 25 anni si è già fuori gioco. La vera sfida è questa, altro che i robot intelligenti.

Stai dicendo che guardiamo il dito invece della luna?

Sto dicendo una cosa peggiore. Abbiamo creato un’automobile che va veloce, con tanti cavalli, e la utilizziamo per girare il paese perché non abbiamo le strade per andare lontano. Abbiamo strumenti pazzescamente potenti, ma non le infrastrutture per poterli utilizzare al meglio: innanzitutto ci mancano le infrastrutture sociologiche e antropologiche (appunto, la formazione), ma poi anche quelle materiali.

Nel tuo libro "Umani e umanoidi" scrivi che nel prossimo futuro essi vivranno a stretto contatto. Quali sono le implicazioni sociali ed etiche di tale convivenza?

Allora, voglio semplificare molto: come viviamo a stretto contatto con un telefonino, vivremo a stretto contatto con un umanoide. La differenza è che l’umanoide sarà un telefonino in grado di attuare movimenti su comando. Quindi, se oggi quando ti dimentichi il telefonino ti senti nudo e torni a casa a riprenderlo, un domani il telefonino avrà l’equivalente di gambette e braccini per essere un assistente personale ancora più utile. 

L’etica sta nell’educare l’essere umano a utilizzare queste macchine. Non credo che si possa e si debba impartire l’etica a una macchina. Se il mio robot mi cammina accanto e mi porta la spesa, lo sto usando bene. Se gli dico: “Va’, picchia la signora e rubale la borsa”, lo sto usando male. Ma non è il robot che è violento: sono io che gli ho dato l’ordine sbagliato. Alla lavatrice non posso dare un ordine dannoso. Se però si potesse muovere per andare a prendere i panni, potrei dirle: “Mentre ti muovi, da’ una bella botta a chi ti passa vicino”. A quel punto renderei la lavatrice pericolosa. Ma ripeto: è un problema suo o un problema mio? La lavatrice, da sola, non penserà mai di dare una botta, basta programmarla per non picchiare gli umani.

Steve Jobs dava l’iPad ai suoi figli. Tu con i tuoi figli che cosa fai?

Ho tre figli, tutti maschi. Un genitore, a mio parere, non può dire al figlio: “Non fare quello che ho fatto io”. La soluzione non è legare i figli a una sedia per far sì che non si facciano male. Quello che bisogna fare con i figli è dar loro alcune direttive: ragionare con la propria testa, chiedersi perché, e possibilmente cercare di avere quei principi che a un certo momento devono diventare circuiti limitanti per le azioni che reputano sbagliate. Insomma, bisogna insegnar loro a pensare.

 

Roberto Cingolani, docente di Fisica in varie università italiane e straniere, dal 2005 è direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT). Ha vinto numerosi premi scientifici e pubblicato, tra gli altri, i volumi Il mondo è piccolo come un’arancia. Una discussione semplice sulle nanotecnologie (Il Saggiatore, 2014) e Umani e umanoidi. Vivere con i robot (con G. Metta, Il Mulino, 2015).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 270 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui