Luca Mazzucchelli intervista Gennaro Romagnoli
Una conversazione con il nostro esperto di self-help per capire che la sua migliore definizione è che «non esiste una crescita personale senza una crescita relazionale».
La parola “self”, Gennaro, oltre che in “self-help” – auto-aiuto – la troviamo anche nell’espressione “self-made man”, cioè l’“uomo che si è fatto da solo”. C’è un collegamento fra le due parole?
Quando sentiamo parlare di “self-help” e alla sua collocazione nelle librerie – spesso sotto la denominazione di “crescita personale” – tendiamo, in effetti, ad associarvi un tipo di mentalità yankee propria appunto del classico self-made man. Qualcosa di profondamente radicato nella cultura d’Oltreoceano, dove si esaltano le qualità di singoli uomini che, come si dice, «hanno fatto grande l’America», e che in un qualche modo ha conquistato anche noi. La pratica principale di ogni forma di crescita personale è proprio la seconda parte dell’espressione, “personale”: qualcosa di individuale che si sposa perfettamente con i moderni valori made in USA. In queste pagine, nella rubrica dedicata che curo da tre anni («Self-help scientifico»), ho sovente espresso il mio pensiero su questo modello e non vorrei ripetere le solite cose, come per esempio il fatto che si tratti di una ipersemplificazione di concetti che sembrano banali, ma che in realtà derivano da anni di ricerche compiute da psicologi, cosa che ci tengo a ribadire.
In cosa si differenzia, dunque, un self-help serio e rigoroso da uno improvvisato?
Migliorare sé stessi non è una novità nell’ambito dello sviluppo umano, ne abbiamo tracce fin dall’antica Grecia, così come in ogni altra parte del mondo, spesso sotto forma di pratiche “spirituali” e “religiose”. Ma solo negli ultimi secoli abbiamo iniziato ad attribuire un’importanza così alta all’individuo, tanto da definire dei veri e propri “diritti umani”, qualcosa di impensabile fino a qualche tempo fa.
Luca Mazzucchelli intervista Gennaro Romagnoli
L’idea di poter crescere e svilupparsi per tutta la nostra vita e di farlo attraverso consigli precisi e, perché no, dettati magari dalla ricerca non è neanche una ripresa della nostra epoca moderna: possiamo infatti trovarne facilmente traccia in ogni ambito della storia; tuttavia il modo in cui il self-help è stato propagandato “dall’America” è sicuramente quello in cui tutti oggi lo caratterizziamo. Questo aspetto dell’uomo padrone del proprio destino potremmo addirittura andarlo a ripescare nel concetto di libero arbitrio, una cosa oggi molto farraginosa alla luce degli studi neuroscientifici su tale tematica: da quando praticamente sappiamo che il nostro “cervello” prende una decisione quasi 10 secondi prima che riusciamo a diventarne consapevoli. Ma non solo, qualsiasi odierno uomo acculturato potrebbe facilmente raccontarci quanto sia sbagliato vedere l’essere umano come “unico agente” del proprio destino, visto che le condizioni socio-culturali hanno un peso enorme nella scelta dei nostri comportamenti.
Infatti, stavo pensando proprio a un’obiezione di questo genere: «Certo, puoi parlarmi di Steve Jobs e di Mark Zuckerberg come esempi eccellenti di persone fattesi da sole. Ma se fossero nate in Somalia, avrebbero raggiunto gli stessi risultati?».
Anche un noto psicoanalista come Massimo Recalcati ci racconta spesso che l’idea del “farsi da soli” è qualcosa che ricorda la dipendenza. Lui dice: «Sono i tossici quelli che si fanno da soli», giocando, come suo solito, con la polisemia delle parole. Anche se non sono completamente d’accordo con queste posizioni, che mettono da parte l’individuo per vedere le cose in chiave esclusivamente “collettivista”, di certo nel mondo anglosassone dell’auto-aiuto l’individualismo ha spesso partorito dei veri e propri abomini psicologici, come la famosa legge di attrazione. Anche di questo ho già parlato nei numeri passati di Psicologia contemporanea; per riassumere, ricorderò trattarsi di una sorta di metodologia “psico-magica” per la quale, se credi intensamente che qualcosa possa accadere nella realtà, essa accadrà. Ciò non per la cara profezia che si autoavvera o per l’effetto Pigmalione, ma secondo la fantasia che il nostro pensiero, «essendo vibrazione, entra in risonanza con la vibrazione dell’universo consentendo a queste due cose di attrarsi tra loro»… Ora, lasciamo stare per un attimo l’idea se quella appena letta possa o meno l’enunciazione di una realtà fisica; ciò che desidero è portare l’attenzione del lettore sul fatto che si tratterebbe del coronamento assoluto dell’individualismo e del concetto di self-made man, il quale non solo può cambiare il proprio destino impegnandosi, ma può addirittura influenzare l’intero universo. È come se queste nuove mode psico-spirituali dicessero quasi panteisticamente: «Tu sei collegato a tutto», rifacendosi ai messaggi di mistici di ogni tempo, e al contempo ci avvisassero di poter autonomamente gestire questo “universo” e il nostro destino.
Ma così non saremmo un po’ all’apoteosi del libero arbitrio?
Senza dubbio. Il messaggio è: non solo possiamo gestire noi stessi, ma possiamo addirittura influenzare l’universo. Un pensiero più che seduttivo, da molti oggi seguito illusoriamente. Insisto sull’“illusoriamente” perché non tutti sanno che il famoso libero arbitrio è stato messo seriamente in discussione negli ultimi anni, come accennavo poco fa. In altre parole, ancor prima di prendere questa rivista, di sfogliarla e d’iniziare a leggere la presente intervista, una parte di te lo aveva già deciso. E per molti questo è il segno del fatto che non abbiamo una vera e propria libertà di scelta, perché siamo in “balia” del nostro cervello, il quale, in qualche modo, viene continuamente influenzato da desideri/bisogni che non acquisisce per volontà propria, ma per condizioni eccedenti la nostra consapevolezza.
Ma ciò non mette allora in crisi il principio autodeterminativo del self-help?
Certo, sembra chiaro che da questo punto di vista non si può parlare di “auto-aiuto”, o di “attualizzazione” (come avrebbe detto Maslow), perché non solo il nostro cervello agisce prima della nostra volontà, ma lo fa seguendo influenze che sono fuori del nostro controllo. Le ricerche sul “priming”, ultimamente riprese in ambito divulgativo da Robert Cialdini nel suo ultimo libro Pre-suasione. Creare le condizioni per il successo dei persuasori (Giunti, 2017), ci mostrano come basti un semplice stimolo per guidare le nostre percezioni in direzioni completamente nuove. Non solo, anche le ricerche del recente premio Nobel Richard Thaler affermano qualcosa di simile nella loro teorizzazione del “nudge”, la cosiddetta “spinta gentile”. Alla luce di queste evidenze sembra sempre più chiaro che ciò che ci circonda ci influenza in modi che non avremmo mai potuto immaginare. Sì, certamente sapevamo che «chi va con lo zoppo impara a zoppicare», ma non sapevamo fino a che punto. Tuttavia, se iniziamo a pensare che le cose non dipendano da noi ma da fattori esterni, finiamo in quello che la collega Carol Dweck ha definito «mindset fisso», cioè un atteggiamento mentale tendente a limitare il nostro potere personale.
Quindi, uno pari tra fautori dell’“autocreazione di sé” e fautori del “decisionismo ambientale-culturale”?
Uno pari e palla al centro, sì, tra le due fazioni di “individualisti” e “collettivisti”, tra chi è convinto che l’epoca moderna sia in mano ai self-made men e chi invece vede in tale nozione una stortura del pensiero moderno riconoscendo il profondo effetto dell’ambiente e della società. Per quanto mi riguarda, servono entrambi gli sguardi per poter interpretare bene quello che oggi è chiamato “self-help”. È un po’ come se durante una gita ci procurassimo una ferita leggermente profonda su una mano. Indubbiamente sappiamo che la nostra intelligenza biologica è progettata per mettere tutto a posto senza che si debba far niente: siamo in qualche misura determinati dalla nostra fisiologia. La velocità con la quale il nostro corpo si attiva per riparare il danno non dipende da noi, almeno fino a un certo punto. Infatti, se non ci disinfettiamo o non stiamo attenti a far sì che questo processo prenda la sua strada, rischiamo di intralciarlo, e ci sono alcuni contesti nei quali quell’attività “automatica” non funziona più adeguatamente. In altre parole, dobbiamo affidarci all’intelligenza naturale del nostro corpo e in contemporanea agire in modo intenzionale per facilitarla.
Come si nota facilmente, all’interno di questo quadro si agitano dibattiti filosofici e scientifici che si perdono nella notte dei tempi, quale quello tra natura e cultura.
Sì, ma la cosa più interessante è notare che il fatto di non avere il “pieno controllo su noi stessi” non è poi così male, anzi è meraviglioso non dover scegliere consapevolmente di fare cose come, per esempio, respirare. Se dovessimo farlo, la nostra razza si sarebbe estinta con la nascita della televisione, dove milioni di persone, troppo intente a guardare il proprio programma preferito, si sarebbero dimenticate di respirare, con le catastrofiche conseguenze. Allo stesso tempo, però, è bello anche sapere di poter avere un effetto sulla realtà che ci circonda; a dirla tutta, a quanto pare, saperlo aumenta la nostra salute fisica e psichica, come ha dimostrato Ellen Langer con i suoi studi negli ospizi americani. E ancora prima Rotter, con il suo “locus of control”, ci parlava dell’importanza di sentirsi parte in causa.
Possiamo dire di trovarci di fronte a due schieramenti opposti?
Due schieramenti, sì, due fazioni: la prima è quella tradizionalista, che ha il pregio di avere anticipato i tempi. Gli uomini di una certa cultura, infatti, hanno da sempre visto male l’idea di chi vuole “farsi da solo”, configurando questo processo come una sorta di autoillusione perpetrata da una cultura giovane, come quella americana, dove per anni l’industria principale è stata quella del cinema che ha continuato a “vendere sogni” sia alla propria popolazione che a chi viveva fuori da quei confini. Dall’altra parte, invece, abbiamo il punto di vista in cui le persone si sentono protagoniste del proprio avvenire, in grado di incidere con forza sul proprio destino, potendo non solo “fare le cose da sole”, ma potendole anzi fare meglio in questo modo. Sembra quasi di avvertire l’opposizione di due proverbi parimenti famosi: «Chi fa da sé fa per tre», esempio appunto del self-made man, e, al suo opposto, «L’unione fa la forza». Se il lettore ha colto la possibilità di implicazioni politiche maggiormente legate a posizioni di sinistra, nel caso del “collettivismo” e del fatto di essere determinati dalla società, o viceversa maggiormente legate al liberismo di destra, dove ognuno pensa a sé stesso, ecco di sicuro anche questi aspetti hanno inciso e incidono sul concetto di self-made man.
Secondo te oggi, sul piano delle responsabilità nell’introdurre cambiamenti sociali e politici, in che fase siamo?
Oggi viviamo in una società che pur avendo abbandonato quelle categorie storiche (destra/sinistra, collettivismo/individualismo ecc.), continua a pensare in base ad esse ma senza rendersene conto. Non si tratta più di scegliere un’ideologia migliore di un’altra, ma di vedere che entrambi i punti di vista sono delle estremizzazioni, mentre la verità – come dicevano gli antichi – sta sempre nel mezzo. Non può esistere una società che si comporta come un organismo unico, dove tutti sono identici ecc.: insomma, il sogno comunista che non ha avuto grossi riscontri empirici. Dall’altra parte, non si può neanche vivere da soli, pensare di riuscire a fare tutto con le proprie forze, giacché anche questa è un’illusione. Siamo tutti sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduti, anche se non siamo scienziati come Newton, e tutti siamo figli pure di un’èra che ci ha preceduti e che nel bene o nel male ha concorso a determinare i nostri atteggiamenti nei confronti della vita. Uno di questi atteggiamenti, o meglio uno dei prodotti di questa strana commistione, è sicuramente l’auto-aiuto, il self-help, la crescita personale. E, come ho già scritto altrove, non esiste una crescita personale senza una crescita relazionale, e viceversa.
Quindi, il self-made man è un mito?
Sì, ma soltanto se lo guardiamo con gli occhi della complessità di chi conosce come funzionano le cose. E comunque, non solo: è un mito anche alla luce delle ricerche sulla felicità personale, la quale è sempre dipesa dalle buone relazioni che un individuo riesce a costruire nell’arco della propria vita. Il problema più grande è quando questo asse si rovescia e le persone iniziano a credere che senza una buona società non si possa far nulla, visto che i nostri genitori ci hanno consegnato un Paese distrutto e senza speranze. Personalmente non la vedo in questo modo: tutte le nuove generazioni si sono ritrovate con ciò che i loro padri avevano fatto in precedenza e raramente hanno gridato esultanti: «Wow, viviamo nella migliore èra di sempre!». Anzi… C’è una tendenza mentale quasi assimilabile a un “bias”, che ci porta a pensare come vi sia sempre stato un tempo «migliore del nostro», un tempo nel quale «tutto filava liscio», una sorta di mitica età dell’oro che mai riusciremo a riavere indietro.
La verità è dunque, come affermano pensatori di tendenza quali Harari, Pinker e Rosling, che viviamo nel migliore mondo di sempre?
È strano da dire, ma è così. In termini assoluti, se, epoca per epoca, ci mettiamo a confrontare parametri come la mortalità, la qualità della vita, l’accesso alle risorse primarie ecc., notiamo che il mondo non è mai andato meglio di oggi… Ti prego, caro lettore, di non credermi; leggi anche uno soltanto degli autori citati per farti un’idea autonoma di questo discorso arzigogolato che vuole portarti a vedere che anche se il self-made man è in fondo una leggenda, tu hai dentro di te un enorme potenziale, quantunque tu tenda magari ad abbracciare un punto di vista “collettivista” più che uno “individualista”. Questo non dovrebbe farci perdere di vista la forza che ha la capacità di assumerci le nostre responsabilità e di sapere di poter agire sul mondo con efficacia. E se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che oggi è davvero possibile fare una moltitudine di cose da soli, per l’effetto di dis-intermediazione della tecnologia, allora la cosa diventa ancora più semplice, senza illuderci di poter fare tutto da soli.
Per concludere, Gennaro, possiamo dire che, come tutto, anche il self-help è una cosa positiva purché non pretenda di essere la panacea universale di ogni problema?
Esatto, il self-help è una cosa splendida, basta non illudersi che si possa vivere da soli e senza l’appoggio degli altri, perché prima o poi la vita ci servirà il conto. Quindi l’auto-aiuto non è solo utile ma indispensabile se viene inquadrato dal punto di vista della responsabilità individuale in un’ottica sociale, dove ognuno si assume le proprie responsabilità proprio perché riconosce di vivere in un contesto sociale. L’uomo che “si fa da solo” non esiste; però l’uomo da solo deve imparare ad assumersi le proprie responsabilità in vista di una società migliore. Dove ognuno faccia parte di un sistema più grande, ma sappia di poter dare il proprio contributo senza perdersi in un anonimato sociale, bensì riconoscendosi per la virtù delle proprie azioni individuali.
Gennaro Romagnoli, psicologo e psicoterapeuta, è autore di “Psinel”, il podcast di psicologia e crescita personale più ascoltato in Italia. Si occupa di divulgazione online dal 2007.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui