Luca Mazzucchelli

Luca Mazzucchelli intervista Adam Alter

Esperto di nuove tecnologie e delle implicazioni psicologiche nel loro utilizzo – a cominciare dalle forme di dipendenza –, Adam Alter dà alcuni consigli ai genitori dei nativi digitali.

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Nel tuo interessante libro Irresistibile. Come dire no alla schiavitù della tecnologia racconti che il rapporto con le dipendenze è cambiato nel corso della storia dell’uomo e che oggi si è approdati alle dipendenze di tipo tecnologico. Quali sono gli elementi che differenziano le dipendenze più classiche, come quelle da sostanze, dalle dipendenze di ultima generazione?

Le dipendenze tradizionali riguardavano sostanze che interagivano direttamente con il corpo e il cervello – come droghe, tabacco, alcol –,
invece molte dipendenze moderne sono relative a comportamenti privi di sostanze, come il gioco d’azzardo e altre attività legate a uno schermo. Anche se queste dipendenze non coinvolgono sostanze, fondamentalmente ci influenzano allo stesso modo: placano i bisogni psicologici attraverso un’azione che apporta piacere nel breve periodo, ma un cocktail di effetti negativi a lungo termine.

Una posizione sostenuta da diversi esperti di tecnologie è che il problema non sia tanto nella tecnologia, ma nell’utilizzo che se ne fa. Quanto ti senti d’accordo con questa posizione?

Completamente. La tecnologia non è intrinsecamente positiva o negativa. Puoi usare le tecnologie per rendere le persone più felici e più sane, oppure per diminuire il benessere. Il punto è che tanti degli usi più redditizi della tecnologia sono dannosi per i consumatori.(CONTINUA...)

Luca Mazzucchelli intervista Adam Alter

Eppure McLuhan diceva, già negli anni Sessanta, che «La nostra reazione convenzionale a tutti i media, secondo la quale ciò che conta è il modo in cui vengono usati, è l’opaca posizione dell’idiota tecnologico». Come a dire che forse, ormai, viviamo in un ambiente che non ci dà scelta rispetto al loro utilizzo ragionato, ma ci spinge ad appoggiarci ad essi in maniera impulsiva e irrazionale.
La mia sensazione è che McLuhan suggerisse come sia facile concentrarsi sul contenuto del messaggio e ignorare il medium che lo fornisce. In altre parole, dedichiamo molta più energia mentale alla comprensione del messaggio piuttosto che al modo in cui viene erogato, che sia tramite schermi, cuffie o attraverso un giornale o un libro. Ogni mezzo ci influenza in maniera diversa e possiamo assorbire lo stesso messaggio da dozzine di media differenti. Immagino che McLuhan spendesse parecchio tempo a chiedersi in che modo gli schermi ci influenzano, proprio come fanno oggi gli psicologi e i sociologi. Attualmente ci sono dozzine di libri e centinaia di ore di commenti che parlano di come i giovani reagiscono agli schermi, ai social media e di come la popolazione in generale stia rispondendo alla costante pressione di e-mail e messaggi. Questa tendenza a mettere in discussione la modalità in cui i diversi media come smartphone e simili influiscono su di noi non è nuova, e già nel brano di McLuhan, di sessant’anni fa, possiamo notare la spinta a comprendere in quali termini ci influenzano le ultime forme di comunicazione.

Credi che l’atteggiamento corretto da tenere davanti al nuovo che avanza sia quello di un moderato ottimismo, oppure qualcosa di più vicino a una sana prudenza?
Penso che l’atteggiamento migliore nei confronti di qualsiasi cosa nuova sia un cauto scetticismo. Tutto ciò che modifica rapidamente e completamente il modo in cui ci comportiamo, come per esempio gli smartphone, dovrebbe essere esaminato attentamente. Dobbiamo essere scettici e assicurarci di comprendere lo scenario peggiore, e cioè che miliardi di persone trascorrono quattro o più ore al giorno a fissare un dispositivo che dieci anni fa nemmeno esisteva.

Puoi fornire un suggerimento a un padre o una madre che si pone il problema dell’utilizzo del cellulare da parte dei suoi bambini?
L’American Association of Pediatrics offre una serie di utili linee guida. Bisogna cercare di tenere i bambini lontani dagli schermi prima che raggiungano i 18 mesi. Dopodiché va limitato il tempo di visualizzazione dello schermo a un’ora al giorno e i genitori devono assicurarsi di interagire con i propri figli sia durante che dopo aver guardato la TV, in maniera da non utilizzare solo lo schermo come babysitter. Anche i contenuti contano. È meglio esporre i bambini a contenuti più lenti anziché ad alto ritmo e a movimento rapido, poiché questi ultimi insegnano loro ad aspettarsi un mondo fatto di un intrattenimento perenne. Se i piccoli sono sempre attaccati allo schermo, perderanno l’interesse per attività più lente, come comunicare con persone reali, sedersi per mangiare un pasto con la famiglia, leggere e risolvere problemi che richiedono uno sforzo mentale. Gli schermi vanno tenuti completamente fuori dalla camera da letto e bisogna impedire ai bambini di guardarli per circa un’ora prima di andare a dormire, poiché la luce che emanano convince il cervello che è giorno e rende più difficile l’addormentamento.

Una parte molto intrigante di Irresistibile è dedicata all’analisi dei processi di gamification che portano i giovani a sviluppare forme di dipendenza dai videogiochi. Puoi dirci in che modo queste dinamiche sono traslabili per aiutarci ad acquisire buone abitudini e a promuovere comportamenti virtuosi?
Come dicevamo, nessuna forma di tecnologia è intrinsecamente buona o cattiva. Le stesse schermate che ci costringono a trascorrere quattro ore al giorno su Facebook e Instagram e a videogiocare potrebbero essere utilizzate per educare le persone che vivono troppo lontano dalla scuola, per trattare le condizioni mediche “da remoto” e per connettere i propri cari costretti a vivere in posti differenti. Lo stesso vale per la gamification. C’è una scuola, a New York, chiamata “Quest2Learn”, che “gamifica” il processo di educazione degli studenti. Poiché i giochi sono coinvolgenti, essi insegnano ogni concetto – per esempio, come funziona il corpo umano – trasformandolo in un gioco. In questo caso, gli studenti sono esploratori che devono navigare nel corpo umano per trovare il luogo di appartenenza di una determinata cellula: essenzialmente giocano mentre apprendono, il che rende il processo di apprendimento assai più interessante di quanto non sarebbe altrimenti. Puoi anche “gamificare” altre esperienze, producendo effetti simili, per incoraggiare le persone a risparmiare per la pensione, a mangiare cibi più sani evitando cibi malsani, a fare esercizio fisico più regolarmente e a passare meno tempo sul sofà. La chiave è prendere in prestito gli elementi di giochi di successo, compresi i punti (premiando le persone con punti crescenti che monitorino le loro prestazioni); i distintivi (conferendo loro “pietre miliari” che suggeriscano di aver raggiunto un certo livello di competenza); le classifiche (mostrando dove si colloca la loro prestazione rispetto a quella di un gruppo di giocatori propriamente detti). Cose del genere si vedono nei programmi frequent flyer, nei quali si guadagnano punti sotto forma di miglia o chilometri, distintivi sotto forma di livelli di status (quali, per esempio, oro, argento, bronzo) e classifiche sotto forma di gruppi di imbarco, differenti sezioni di posti a sedere e salotti per i membri di livello più alto.

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Volevo chiederti se hai mai letto il libro di Harari Homo Deus, e, se sì, cosa ne pensi. Ci sono aspetti del tuo pensiero che credi si discostino dalla visione del futuro proposta dall’autore israeliano?
Conosco il libro e conosco Harari, ma ho solo sfogliato alcune pagine di Homo Deus e non mi sento competente per commentare in che modo le nostre concezioni convergano o divergano.

Si parla tanto di realtà virtuale, algoritmi e robot. Come pensi che tutte queste novità cambieranno il modo di esercitare la professione dello psicologo da qui a vent’anni?
Se ti riferisci alla psicologia clinica, il più grande beneficio della terapia virtuale è che consente agli psicologi di vedere individui lontani che altrimenti non potrebbero recarsi di persona a un appuntamento. Questo già accade, ma se terapeuta e paziente sono entrambi nel medesimo mondo virtuale, i benefici potrebbero essere maggiori rispetto alla semplice video-chat.

In quale maniera la psicologia e gli psicologi possono portare un contributo alla creazione di un mondo nel quale la tecnologia sia al servizio delle persone e non uno strumento che toglie loro energie e libertà?
Facendo ciò che stiamo facendo ora: studiando attentamente come la tecnologia influisce su di noi, identificando i principali fattori di rischio che rendono alcune persone più vulnerabili di altre e offrendo raccomandazioni basate su ciò che apprendiamo.

ADAM ALTER è docente di marketing e psicologia presso la Stern School of Business della New York University. Tra altre pubblicazioni, è autore del volume Drunk Tank Pink (2013).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui