Giorgio Nardone, Moira Chiodini

L'eterna ambivalenza delle relazioni tra amore e odio

I tanti esempi d’intreccio fra amore e odio testimoniano della coappartenenza di questi due potenti sentimenti. Come si rileva tra i partner e tra i componenti di una stessa famiglia.

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L’incipit del carme di Catullo, divenuto famoso grazie anche alle illustri traduzioni di poeti come Quasimodo – «Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile; non so, ma è proprio così e mi tormento» –, è in grado di cogliere un fondamentale paradosso: l’odio non solo si alterna all’amore, ma ne è parte integrante. Indipendentemente dalla volontà o dalla virtù umana, i due sentimenti sono destinati a intrecciarsi non lasciando altra scelta che un’amara, e a volte straziante, accettazione della loro inevitabile coessenzialità da parte di poeti e scrittori che, gettando uno sguardo all’interno dell’animo umano, sono riusciti ad anticipare molte delle scoperte della scienza e della psicologia.

METAMORFOSI DELL’AMORE

Il tema dell’odio e dell’amore è forse uno dei più dibattuti all’interno delle relazioni amorose, non sfuggendo agli studiosi la complessità del gioco di alternanza e compresenza dei due sentimenti. Alla tensione all’avvicinamento alla persona amata si contrappone la necessità narcisista, potremmo dire con le parole di Freud, di differenziarsi e separarsi dal partner, anche a costo di atteggiamenti aggressivi e giudizi svalutanti. In un certo qual modo è come se la relazione amorosa, avvicinando troppo i due partner, richiedesse un recupero della giusta distanza, pure al prezzo di produrre sensazioni negative e di fastidio per l’altro. Un’adeguata metafora di tutto ciò è rappresentata dalla favoletta che segue.

I porcospini del filosofo

Nella favola dei porcospini di Schopenhauer si racconta che in una fredda giornata d’inverno un gruppo di porcospini si rifugia in una grotta stringendosi gli uni agli altri per proteggersi dal freddo. Avvicinandosi, però, avvertono il dolore delle spine degli altri porcospini e così iniziano ad allontanarsi. Il freddo si riaffaccia presto e li costringe ad avvicinarsi di nuovo, fino a che non tornano a sentire gli aculei pungere. I movimenti di aggiustamento continuano fintantoché non trovano la giusta distanza che permette loro di scaldarsi senza ferirsi. 

Come i porcospini, anche gli esseri umani devono costantemente aggiustare la loro posizione reciproca, muovendosi all’interno di una danza che conceda di mantenere un equilibrio tra felicità e dolore, vicinanza e lontananza, amore e odio.

L’amore e l’odio, nelle sue varie forme di espressione all’interno della relazione di coppia, sono stati studiati e osservati da vari punti vista. Si pensi, per esempio, alle pratiche erotiche in cui piacere e dolore, dominanza e sottomissione sono in un costante incerto equilibrio che, nella sua precarietà, può condurre a situazione francamente patologiche o ad esiti altamente pericolosi. Senza addentrarci nel campo della patologia, è possibile osservare la rapida trasformazione dell’amore in odio nei casi di rottura di una relazione in cui tanto maggiore è stato il sentimento di amore, tanto più forte sarà il sentimento di odio verso l’ex partner. 

La trasformazione dell’amore nel suo opposto, che rappresenta l’altra faccia di una stessa medaglia, suggerirebbe una modificazione del sentimento, che, nella rottura della relazione, farebbe assumere all’odio il valore predominante. Si assiste così all’emergere di una serie di emozioni, come il dolore, la rabbia, il risentimento, che sono tanto più potenti quanto più la relazione è stata di lunga durata e basata su aspettative e progetti per il futuro.

La fiducia tradita di una relazione interrotta senza il nostro consenso, o messa in dubbio dal tarlo della gelosia, può condurre a comportamenti d’odio verso la persona che dovrebbe essere, o è stata, oggetto del nostro amore. Il dolore e la frustrazione di un torto subìto rendono il partner colpevole di un misfatto per il quale viene giudicato e condannato, dimenticando che la peggior condanna la infliggiamo a noi stessi non rendendoci liberi di prendere le distanze dal nostro oggetto d’amore-odio.
Quanto e tanto più dell’amore può l’odio nel tenerci legati a colui o colei che tanto ci ha fatto soffrire e che tanto vorremmo dimenticare.

Per tale ragione, l’elaborazione del lutto della fine di una relazione richiede di passare attraverso il dolore, drenando il veleno della rabbia affinché l’amore, ormai trasformatosi in odio, non diventi la catena da cui la persona non riesce più a liberarsi (Cagnoni e Milanese, 2009). Se la relazione di coppia è stata quella maggiormente studiata, potremmo chiederci se anche le altre relazioni siano connotate dalla stessa ambivalenza. La risposta non può essere che affermativa: tutte le relazioni connotate da estrema vicinanza e significatività affettiva sono vittime dell’effetto di tale ambivalenza.

IL RAPPORTO GENITORI-FIGLI

Partiamo dalla famiglia, il luogo che più di ogni altro dovrebbe essere il porto sicuro, preposto a proteggerci dalle sofferenze e dai mali del mondo, ma che, ahimè, in molti casi si tramuta nel peggiore degli inferni. I dati ISTAT sulla violenza contro le donne non permettono purtroppo fraintendimenti: nel corso degli ultimi dieci anni, più della metà delle donne vittima di omicidio perde la vita tra le mura domestiche (ben il 73% nel 2016) e la prevalenza di abusi compiuti a danno di minori (70% dei casi) avviene all’interno dell’ambiente familiare. E comunque, pur senza arrivare all’estremo della violenza e dell’abuso, è riconosciuto come la famiglia non sia solo un luogo di protezione, ma anche di conflitto, tensione e malessere più o meno intenzionalmente prodotti. È proprio a partire dalle migliori intenzioni che si producono gli effetti peggiori. 

Comprendere che queste contraddizioni non sono espressione di qualcosa di patologico, ma attengono al normale equilibrio familiare, può aiutare genitori e famiglie a gestire meglio le dinamiche relazionali senza irrigidirsi su posizioni che rischiano di rendere il conflitto non solo inevitabile, ma anche devastante negli effetti. Se sono consapevole che, nonostante i sentimenti di affetto, amore, stima, l’altro – il coniuge, il figlio, il genitore – può divenire anche fonte di disappunto, fastidio e irritazione; se comprendo che questi sentimenti hanno a che vedere con la mia percezione, e non sono il mero frutto delle mancanze dell’altra persona, allora posso avere uno strumento per gestire e direzionare i miei sentimenti. Viceversa, se penso che la rabbia sia una reazione giustificata di fronte al comportamento errato dell’altro, allora mi potrò sottrarre con difficoltà al veleno della rabbia che inquina le relazioni familiari e ammorba i suoi membri.

Ancora meno accettati sono i sentimenti conflittuali delle madri, soprattutto delle neo-mamme nei confronti dei figli. Molte madri, soprattutto nel primo periodo, trovano difficoltà nel raggiungere il loro “ideale” di maternità, vivendo con fatica una relazione ambivalente con il loro piccolo. Ambivalenza che sembra emergere dalla difficoltà di mantenere un ruolo personale (professionale, ma non solo) all’interno del contesto socio-culturale e di coniugarlo con la responsabilità di cura del nuovo nato. Nella donna, in virtù della sua doppia dimensione individuale (soggettiva) e sociale (legata al ruolo materno), l’ambivalenza si fa sentire in modo più forte rispetto all’uomo, con conflitti che possono divenire anche drammatici. Tale ambivalenza del sentimento materno, ci ricorda Galimberti (2009), va accettata come evento naturale e non con il senso di colpa derivante dal vedere il sentimento materno deficitario o inautentico.

Una cultura in cui i figli sono iper-rappresentati, o esclusivamente rappresentati, come dono e tesoro inestimabile, rende le emozioni che sono incoerenti con questa visione una fonte di senso di colpa e di inadeguatezza per chi le prova. L’accompagnamento alla genitorialità e alla maternità dovrebbe, viceversa, anticipare e normalizzare i sentimenti di ambivalenza, rendendo le neo-mamme e i neo-genitori in grado di gestirli senza il tarlo del dubbio della inappropriatezza.

Gli attuali stili genitoriali sembrano esposti a un forte rischio di ambivalenza non gestita o mal gestita. Modelli familiari caratterizzati, da un lato, da iperprotezione e, dall’altro, da un’eccessiva richiesta performativa verso i figli che rischia di produrre atteggiamenti aggressivi sia verso questi ultimi, subissati di richieste sempre maggiori (eccellere nello sport e brillare nello studio), sia verso tutti coloro che non trattano adeguatamente il loro pupillo. Un esempio fra tanti, i sempre più frequenti atti di aggressione verso gli insegnanti, riportati dalle pagine di cronaca (Nardone et al., 2007; Nardone, 2012; Meringolo et al., 2016). In questo caso l’ambivalenza viene gestita con un eccesso di investimento che si allontana drammaticamente dall’amore, diventando una sorta di aggressività. Sempre più numerosi i disturbi d’ansia lamentati da giovani e giovanissimi studenti per la difficoltà a fronteggiare le richieste e i sentimenti di demotivazione o rinuncia per l’impossibilità di soddisfare le aspettative.

FIGLI ADOLESCENTI

Il periodo di maggior conflitto familiare è però sicuramente quello adolescenziale, età conosciuta dai genitori come il periodo critico, atteso con ansia e gestito con difficoltà. A dire il vero, negli ultimi anni sembra che tale periodo critico sia anticipato nei tempi, mostrando le prime espressioni a partire dagli 11 anni; alcuni genitori notano i temuti cambiamenti, fatti di silenzi, opposizione, toni sgarbati, anche a 9 o 10 anni. Diviene quindi curioso notare come se, da una parte, l’età dell’adolescenza si è allungata fino a 20 anni e più, dall’altra parte insorga sempre più precocemente, mettendoci, come genitori, di fronte a un decennio di contrasti e di conflitti con i nostri figli.

È perciò opportuno far chiarezza sulla tipologia dei conflitti, per non confondere ogni contrasto con un indizio di entrata nel periodo “oscuro” dell’adolescenza e per riuscire a gestirlo in maniera appropriata. Tutti i figli si oppongono prima o poi: da piccoli, per ottenere la gratificazione immediata dei propri bisogni e desideri; da più grandi, perché iniziano ad avvertire come sgradevoli le regole e i doveri, preferendo seguire e coltivare i propri piaceri. Ma solo gli adolescenti hanno la necessità di contrastare l’autorità genitoriale al fine di costruirsi una propria identità autonoma e separata, che in questo periodo deve avvenire per differenziazione e distanza. La costruzione dell’autonomia passa attraverso la messa in discussione dell’autorità costituita e lo sviluppo di norme e regole proprie, all’interno di un rapporto che già la mitologia greca ci insegna poter essere distruttivo fino all’uccisione del padre o del figlio. 

Se il conflitto in adolescenza è inevitabile, i genitori sono chiamati a contenere e gestire tale conflittualità in quanto strumento funzionale allo sviluppo della persona. La capacità di gestire l’ostilità è possibile se si riescono a evitare due estremi disfunzionali: da un lato, la tendenza a discutere e parlare di tutto in modo amichevole e mediante il confronto democratico; dall’altro, la tendenza a reagire con altrettanta aggressività a quella del figlio, innescando un’escalation simmetrica che amplifica il conflitto e la frustrazione, all’interno di un turbine di rabbia e senso di colpa che rende la vita familiare sempre più ardua.

La consapevolezza del fatto che l’adolescenza richieda la messa in discussione delle figure genitoriali permette ai genitori di anticipare mentalmente gli atteggiamenti negativi e non farsi così prendere in contropiede perdendo calma e controllo, e nel contempo di porre un confine e un limite ben definiti all’atteggiamento aggressivo, stabilendo e mantenendo una sana gerarchia familiare. Se il compito di ogni genitore è aiutare i figli a divenire adulti competenti, allora il conflitto in adolescenza richiede la dovuta autorevolezza, tramite la quale è possibile rimandare indietro la responsabilità delle conseguenze delle proprie azioni, unico vero strumento di crescita.

SENTIMENTI AMBIVALENTI TRA FRATELLI

Per ultimo, abbiamo lasciato il caso più classico di ambivalenza all’interno dei legami familiari, che già nella Torah rappresenta un tema ricorrente, ossia il conflitto tra fratelli. Lo scontro si ritrova, infatti, non solo in Caino e Abele, ma anche nei figli di Noè, tra Isacco e Ismaele, e tra Esaù e Giacobbe.

Nella famiglia, i fratelli rappresentano un sistema in cui si possono sperimentare relazioni tra coetanei facendo pratica di vari comportamenti interpersonali: l’aiuto, la cooperazione, la competizione, il rifiuto, l’aperto conflitto (Minuchin, 1976). Tra fratelli è presente un’interdipendenza psicologica, un legame affettivo ed emotivo in cui ci si percepisce appartenenti a uno stesso nucleo, somiglianti ma allo stesso tempo differenti. Il fratello o la sorella divengono mezzi per misurare il proprio valore, il ruolo all’interno della famiglia e la propria desiderabilità sociale. Il legame che unisce, in virtù dell’inevitabile confronto può divenire fonte di gelosia e invidia se la percezione dell’altro ci fa sentire in qualche misura mancanti o carenti.

La relazione tra fratelli durante l’arco della vita è fatta di avvicinamenti e di allontanamenti che potremmo definire fisiologici, all’interno di un sistema familiare normato da regole dette e non dette. Regole che riguardano il modo in cui i genitori gestiscono il rapporto con i singoli figli e la relazione tra loro. Non è raro sentire genitori stupirsi delle enormi differenze tra i figli a fronte di un, almeno apparente, medesimo stile educativo. Ma la differenza, a volte anche estrema, tra figli non deve sorprendere se si considera la necessità di ogni individuo di differenziarsi per vivere e crescere in modo sano. Questa, però, non deve diventare un’etichetta inamovibile che rinchiuda in un ruolo come una condanna: essere il figlio bravo, studioso e serio, oppure quello ribelle, introverso, insomma il bastian contrario della situazione. 

Quando le regole di relazione tra fratelli, benché basate sulla vicinanza, sull’aiu­­to e il supporto, diventano troppo rigide, il naturale allontanamento dovuto a cambiamenti nella vita di uno dei due (avanzamento di carriera, matrimonio ecc.) può essere sentito come il tradimento di un patto, colorando di rabbia, gelosia e invidia i sentimenti per il fratello.

In ogni modo, non è solo nelle relazioni di coppia e familiari che si esprime l’ambivalenza tra amore e odio, positivo e negativo, accettazione e rifiuto. I contesti sociali e le relazioni tra gruppi sono forse i luoghi in cui il conflitto si manifesta più visibilmente, conducendo a fenomeni di aggressività, violenza e discriminazione che l’attuale periodo storico, purtroppo, conosce assai bene. In generale, come dimostrato dalle ricerche di Tajfel e Turner (1979), i giudizi sugli altri si basano su categorizzazioni che generano e mantengono una differenza sostanziale tra noi e loro, attribuendo alle persone dell’in-group caratteristiche positive e a quelle dell’out-group caratteristiche per lo più negative. Questa modalità di attribuzione può favorire la discriminazione inter-gruppi, che si manifesta in comportamenti e atteggiamenti di aggressività, come negli scontri fra tifoserie opposte o nella violenza fra gruppi etnici diversi.

L’emergere del favoritismo verso il proprio gruppo di appartenenza può basarsi anche sull’uso di stereo­tipi e pregiudizi che vengono utilizzati come riduttori di complessità per gestire la realtà e la complessità sociale. L’ambivalenza è tuttavia presente anche all’interno dello stesso gruppo, in cui le persone possono sperimentare sia un elevato senso di appartenenza sia un conflitto rispetto a ruoli, norme e regole del gruppo. La dinamica tra maggioranza e minoranza è forse quella che più di ogni altra ci permette di comprendere come il conflitto e l’ambivalenza siano necessari per mantenere la coesione del gruppo (spinta della maggioranza) e per creare innovazione, avanzamento e cambiamento (spinta della minoranza). Appare evidente che ogni sistema, piccolo o grande che sia, ha bisogno di entrambe le forze e di un costante equilibrio e aggiustamento all’interno della dinamica fra gli opposti positivo/negativo, avvicinamento/allontanamento, amore/odio.

Il senso di questa eterna ambivalenza nelle relazioni, di coppia, familiari, sociali è condensato nelle parole di Konrad Lorenz: «Credo che in ogni vero amore ci sia una tale misura di aggressione latente nascosta nel legame, che quando questo legame si spezza avviene quell’orribile fenomeno che chiamiamo odio. Nessun amore senza aggressione, ma anche nessun odio senza amore» (Lorenz, 2015).

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Cagnoni F., Milanese R. (2009), Cambiare il passato, Ponte alle Grazie, Milano.

Galimberti U. (2009), I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano.

Lorenz K. (2015), L’aggressività. Il cosiddetto male (trad. it.), Il Saggiatore, Milano.

Meringolo P., Chiodini M., Nardone G. (2016), Che le lacrime diventino perle, Ponte alle Grazie, Milano.

Minuchin S. (1976), Famiglia e Terapia della Famiglia (trad. it.), Astrolabio, Roma.

Nardone G. (2012), Aiutare i genitori ad aiutare i figli, Ponte alle Grazie, Milano.

Nardone G., Giannotti E., Rocchi R. (2007), The evolution of family patterns, Karnac Publishing House, London. 

Tajfel H., Turner J. C. (1979), «An integrative theory of social conflicts». In W. G. Austin, S. Worchel (Eds.), The social psychology of intergroup relations, Brooks-
Cole, Monterey, pp. 33-47.

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Moira Chiodini, psicologa e psicoterapeuta, e docente presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è responsabile dello studio clinico affiliato di Firenze dove svolge attività di psicoterapia e consulenza.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 272 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui