Giorgio Nardone

L'effetto prima impressione

L’effetto che facciamo a una persona al primo incontro, e che lei fa a noi, si gioca nei primi 30-45 secondi dell’impatto. Impariamo, dunque, a gestirli bene.

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«Non avrai una seconda occasione per fare una buona prima impressione». L’effetto-prima impressione, ben studiato in passato dagli psicologi sociali, negli ultimi decenni, nei quali le discipline psicologiche tendono a ricondurre ogni fenomeno psicologico e comportamentale ai processi cognitivi, tanto da definire le percezioni non coscienti come “cognizioni subcorticali”, appare decisamente obnubilato. Questo a scanso del fatto che le moderne neuroscienze – anche quelle cognitive – dimostrano come siano le nostre percezioni, che nella maggior parte dei casi sono al di sotto del livello della coscienza, a scatenare attivazioni emozionali e risposte adattive agli stimoli ricevuti. I processi percettivo-emotivi sono, come ci indica chiaramente il filosofo Daniel Dennett, «competenze senza comprensione», le quali – lo dimostrano le ricerche neuroscientifiche – riguardano oltre l’80% delle nostre attività mentali e comportamentali.

L’influenza, nel nostro giudicare una persona, prodotta dalle nostre prime impressioni che si giocano nei primi 30-45 secondi di un’interazione relazionale rappresenta a pieno titolo uno di questi fenomeni, che, essendo il primo nella sequenza di costruzione di una dinamica interpersonale, è uno dei più potenti. Difatti è molto difficile superare una prima brutta impressione anche al netto di concrete prove contrarie; i giudizi impliciti sono più resistenti ai cambiamenti, tanto che il più delle volte innescano la costituzione di veri e propri “pregiudizi” nei confronti di chi ha commesso il torto di non piacerci da subito.

Al contrario, il noto colpo di fulmine amoroso si realizza addirittura in un millesimo di secondo: lo sguardo seducente, il sorriso ammaliante e le movenze sensuali del fascinoso soggetto che ci fa invaghire stimolano le nostre reazioni più paleoncefaliche, capaci di attivarsi in meno di un attimo. Anche in questi casi, la prima impressione attiva una catena di effetti percettivo-emotivi che solo in seguito saranno cognitivi, ma comunque determinati, nella loro valenza, dalla prima folgorante impressione, tanto da portarci a perdonare o addirittura a non vedere in costei/costui anche i suoi più evidenti limiti o difetti, o ancora – come affermano gli innamorati nei confronti del soggetto del loro amore – a farci apprezzare pure i suoi difetti.

Tutto ciò esalta l’importanza dello studio dell’effetto-prima impressione e soprattutto delle metodiche atte a imparare a gestirlo, ma, si badi bene, non tanto nella direzione di avere un controllo delle nostre reazioni nei confronti degli stimoli che riceviamo durante un primo incontro con una/o sconosciuta/o, bensì focalizzando l’attenzione sul divenire in grado di produrre noi sull’altro un’ottima prima impressione, poiché questo è ciò che ci dà il potere di influenzare e gestire l’andamento suggestivo di un primo incontro.

Se io cerco di difendermi, cercando di criptare e controllare le influenze che incoscientemente si attivano in me, comunque le subisco. Se invece mi concentro su come pormi per essere io a influenzare l’altro, la dinamica o si rovescia o diviene un duello virtuoso tra persone che orienta l’incontro verso reciproci benefici. Certo, per essere in grado di far ciò si deve lavorare intensamente e in maniera prolungata, sotto l’addestramento e la supervisione di veri esperti di comunicazione, non certo illudendosi di diventare dei fenomeni dopo un weekend col guru di turno, in modo da imparare a gestire al meglio i differenti livelli del comunicare. Per esempio: a) la comunicazione non verbale sia statica che dinamica, ovvero il calibrare lo sguardo e la prossemica, il ritmo dei movimenti e la postura; b) il linguaggio verbale e paraverbale, cioè il tipo di argomentazioni da intraprendere e la selezione delle parole più performative, il tono, il timbro e la musicalità della voce assieme alle adeguate pause prosodiche.

Queste competenze nella nostra antichità, ellenica prima e romana dopo, confluivano nella retorica, o meglio in quella che era ritenuta allora la più nobile delle arti: l’arte della persuasione. L’entrata in scena dell’oratore era studiata per provocare un’immediata suggestione nel suo pubblico, come una sorta di incantesimo magico. Lo stesso valeva nel caso in cui l’esperto comunicatore offriva le sue consulenze ai nobili e ai regnanti: il primo impatto era curatissimo; Protagora, per esempio, giungeva all’incontro con eleganti vesti arricchite d’intarsi d’oro, curato nella sua pettinatura e barba, si muoveva flessuosamente sino a tarda età. La sua voce suonava come un suadente strumento musicale. Mai affermava; piuttosto, si sintonizzava con le vedute del suo interlocutore fino a portarlo a un naturale cambiamento in virtù della risposta che l’interlocutore stesso dava alle sapienti e strategiche domande. Infine si narra che il suo sguardo fosse capace di catturare l’attenzione di chiunque e di creare una grande suggestione in chi lo subiva.

Il lettore deve considerare che queste antiche figure sono state gli antesignani dei moderni psicologi; educavano, insegnavano, facevano vere e proprie consulenze di problem-solving e curavano le sofferenze con le loro parole e i loro consigli. Oggi, a mio umile parere, gli psicologi dovrebbero dedicarsi molto di più all’acquisizione di queste grandi competenze, giacché sono quelle che rendono assai più efficaci ed efficienti le loro prestazioni in quanto predispongono positivamente l’interlocutore e permettono di superare soavemente le sue resistenze al cambiamento.

L’effetto-prima impressione e la “startup” dell’incontro che ne innesca la sequenza costruttiva ovviamente sono solo la prima, e non l’unica, «arma della persuasione», per usare le parole di Robert Cialdini, ma di sicuro se le sottovalutiamo ne paghiamo lo scotto: come sosteneva Oscar Wilde, infatti, «Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze».

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 282 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui