Grazia Attili

Le ragioni biologiche degli effetti del distanziamento sociale

L’isolamento cautelativo ci ha fatto capire sulla nostra pelle quanto preziosi e irrinunciabili siano gli altri. Biologicamente, ciò rimanda all’importanza che gli altri rappresentano per far fronte a eventuali nemici comuni.

le-ragioni-biologiche.png

Quando è iniziata l’emergenza Coronavirus molti di noi hanno sperimentato una serie di reazioni – disturbi di ansia, disturbi dell’umore, stati depressivi, in alcuni casi attacchi di panico, alterazioni nei ritmi sonno-veglia e nell’alimentazione –, spie di un forte disagio; reazioni comprensibili dato che abbiamo dovuto affrontare un forte stress dovuto alla paura provocata dalla possibilità di un contagio e alla necessità di combattere un nemico non prevedibile. Questi stati, tuttavia, si sono amplificati nel momento in cui è partita la richiesta del governo di restare a casa in isolamento, di mantenere le distanze dagli altri, di non abbracciarsi, baciarsi, toccarsi, darsi la mano. All’improvviso ci siamo visti tagliati fuori dalla nostra vita sociale; non solo quella che fa capo ad amici e parenti, ma anche quella che comprende altri che non conosciamo, come le persone che incontriamo al cinema, che frequentano i luoghi in cui ci rechiamo o che, semplicemente, camminano per strada nello stesso momento in cui camminiamo noi. Gli altri, estranei e non estranei, non li potevamo più vedere né tantomeno toccare. E ci siamo resi conto che non è vero che «l’inferno sono gli altri», come sosteneva Sartre. È vero, piuttosto, che l’“inferno” è quando gli altri non ci sono.

Ma come mai la mancanza degli altri, il distanziamento sociale fa aumentare così tanto il disagio? Un’interpretazione plausibile è quella che fa ricorso 1) al modo in cui si è dipanata la nostra evoluzione biologica nei milioni di anni che ci hanno portato a divenire esseri umani, e 2) al modo in cui, di conseguenza, sono organizzati il nostro cervello e la nostra mente.

LA SOCIALITÀ E IL RUOLO DEGLI OPPIOIDI

Ai primordi della nostra specie, nell’ambiente pieno di pericoli in cui vivevamo, la sopravvivenza era assicurata dalla possibilità di mantenere la vicinanza con gli altri. La loro assenza esponeva al rischio di essere attaccati dai predatori; rendeva difficile, se non impossibile, affrontare le avversità ambientali. La selezione naturale ha fatto sì, pertanto, che la nostra programmazione genetica preveda che noi siamo fortemente inclini a cercare le altre persone e che la socialità produca, in automatico, un forte senso di benessere, attraverso un meccanismo avente a che fare con il funzionamento del nostro cervello. La presenza di parenti, amici, estranei, il solo fatto che essi ci siano, porta nel nostro cervello a un innalzamento del livello degli oppioidi endogeni. Questi sono analoghi alle droghe della famiglia degli oppiacei e provocano piacere. Gli “altri”, insomma, sono gli stimoli che producono queste droghe all’interno dell’organismo; si pongono dunque come una vera e propria “ricompensa sociale” e inducono quelle sensazioni delle quali si ha bisogno per stare bene. 

In pratica, siamo regolati da un sistema neurobiologico che modula l’attività di tali sostanze. Quando si sta da soli, si ha, a livello neuronale, un abbassamento del loro livello. Quindi, quanto più siamo costretti a non vederli, gli altri, tanto più li desideriamo e tanto più proviamo frustrazione, agitazione, depressione se non possiamo entrare in contatto con loro. In definitiva, abbiamo delle reazioni simili ai tossicodipendenti in crisi di astinenza! Gli altri, peraltro, per il solo fatto di esserci, anche se non li conosciamo, ci mettono pure in uno stato di attivazione, di “arousal”, come si dice tecnicamente, cosicché perfino alcune nostre prestazioni migliorano quando ci sono degli astanti, secondo un fenomeno detto di “facilitazione sociale”. I corridori, i ciclisti corrono di più e meglio se ci sono persone che li guardano; chi fa jogging mostra più energie se corre con altri, anche se non vi è alcuna competizione; gli attori danno il meglio di sé se recitano davanti a un pubblico. Da alcuni esperimenti condotti nell’ambito della psicologia sociale emerge che perfino se viene chiesto a dei soggetti di esprimere le loro preferenze di fronte a una gamma di colori, le risposte sono più decise qualora siano espresse in presenza di altri.

Non a caso, l’essere rifiutati, l’essere emarginati inducono uno stato di malessere così profondo da portare a un vero e proprio «dolore sociale», come afferma il celebre neuroscienziato Jaak Panksepp. Questo dolore potrebbe essere ricondotto, appunto, a una riduzione degli oppioidi, quale conseguenza del non poter godere di una socialità. Peraltro il dolore che si prova quando si è impossibilitati a stare con gli altri è identico a quello che può derivare da una ferita nel corpo, da un dolore fisico. Da una serie di esperimenti, che utilizzano tecniche di neuro-imaging, emerge che una bruciatura e lo star male per essere emarginato (o abbandonato dal proprio partner) fanno attivare, nel cervello, le stesse aree, ossia quelle che fanno capo alla corteccia cingolata dorsale anteriore, deputate alla registrazione del dolore. In altri termini, il dolore sociale e il dolore fisico si basano su processi neurali analoghi. 

LA PAURA DI STARE DA SOLI

A questa necessità/bisogno di socialità si accompagna, in maniera speculare, la paura di stare da soli, una paura a base innata, distillatasi nel nostro DNA proprio per indurci a cercare il contatto con gli altri. La paura di stare da soli si manifesta già alla nascita. I neonati piangono disperati se lasciati da soli. In tal modo propiziano l’accostamento della madre e riescono a mantenere la vicinanza con la figura che ai primordi della nostra specie era deputata a proteggerli dai pericoli. Lì dove vivevano i primi uomini, soltanto la possibilità di mantenere il contatto con la propria madre assicurava la sopravvivenza. Il contatto faceva venir meno la paura e contribuiva a una riorganizzazione delle emozioni. Inoltre, come del resto accade a tutti i mammiferi, se una madre stava vicino al suo piccolo, abbracciandolo, nel cervello di entrambi venivano rilasciati quegli oppioidi endogeni, di cui parlavamo prima, che procuravano una sensazione di sicurezza e di piacere. 

La selezione naturale ha quindi operato per stabilizzare nel nostro assetto genetico la propensione ad aver paura di stare da soli, paura che si manifesta anche negli adulti, proprio perché è strettamente correlata, secondo percorsi ancestrali, alla possibilità di evitare la morte. 

IL RUOLO DELL’AMIGDALA E GLI ORMONI DELLO STRESS

L’ossitocina, peraltro, riduce l’attività dei neuroni dell’amigdala, quella parte del cervello che si attiva quando si percepisce un pericolo e che è responsabile delle nostre immediate risposte di paura. L’amigdala è coinvolta pure nella memoria emozionale e mette in connessione gli stimoli ricevuti dall’esterno con le esperienze passate, anche a un livello inconscio, così da indirizzare le reazioni prima che l’informazione sia analizzata razionalmente. 

Quando si percepisce un evento considerato pericoloso, quest’area del cervello invia in automatico segnali di emergenza e fa rilasciare gli ormoni necessari per la difesa, detti “ormoni dello stress”. E ciò è tanto più vero se quello stimolo ricorda, anche senza che ce ne rendiamo conto, qualcosa che ha procurato un danno in passato. Nel periodo iniziale che abbiamo attraversato col Coronavirus, l’amigdala si è potuta attivare a seguito delle associazioni che, in maniera inconsapevole, facevamo con il razionamento delle vettovaglie durante la seconda guerra mondiale; o addirittura con i ricordi di quanto abbiamo letto nei Promessi sposi sugli effetti della peste a Milano nel 1630, o sulle conseguenze della peste ad Atene nel V secolo descritte da Tucidide nella Guerra del Peloponneso

L’isolamento comporta, quindi, l’impossibilità di usufruire degli oppioidi endogeni forniti dalla presenza degli altri, un crollo dei livelli di ossitocina e di conseguenza una scarsa regolazione dell’amigdala. In altri termini, l’attivazione di questa parte del cervello, a seguito della percezione del pericolo costituito dal Covid-19, nei giorni dell’isolamento non poteva essere modulata dalla presenza delle altre persone. Le risposte di paura, in una situazione obiettivamente molto grave, provocavano pertanto un aumento esponenziale degli ormoni dello stress, come il cortisolo, per esempio. E gli ormoni dello stress, utili quando si deve affrontare una situazione di pericolo immediato e momentaneo, visto che pongono l’organismo in uno stato di allerta e mettono a disposizione le energie di cui il corpo ha bisogno per far fronte all’emergenza, hanno ricadute dannose se la situazione di tensione e di emergenza si protrae a lungo o si appalesa molto più duratura del previsto. Di qui, quei pesanti effetti sull’omeostasi fisiologica che si sono manifestati nelle reazioni collegate all’ansia e il rischio di andare incontro a un abbassamento delle difese immunitarie.

La ricerca del contatto e l’ossitocina

A base genetica può essere considerata pure la ricerca del contatto, che viene indirizzata essenzialmente a chi possa prendersi cura di noi (la madre, il padre o i nonni da piccoli; il partner, in età adulta). Il contatto produce rilassamento, fa sentire sicuri e calmi. Questa ricerca, tuttavia, viene diretta anche a chiunque sia percepito in grado di confortarci, tant’è che tale bisogno trova una sua espressione simbolica nella stretta di mano e nell’abbracciare le persone quando le incontriamo. Ma a cosa sono da ricondurre gli effetti benefici del contatto? 

Ancora una volta dobbiamo parlare del nostro funzionamento biologico. Il contatto produce il rilascio di ossitocina, un neurormone prodotto nella zona posteriore dell’ipofisi tramite stimolazioni provenienti dall’ipotalamo. L’ossitocina è detta “ormone dell’amore” perché viene rilasciata, nelle madri, durante l’allattamento. Ed è questo ormone ad avere il potere di indurre un senso di piacere e di calma così profondi da portare in maniera circolare a desiderare un altro contatto. Inoltre l’ossitocina agisce sui centri della memoria e blocca, almeno per un po’, i ricordi negativi.

I RISVOLTI POSITIVI DEL RESTARE A CASA

Questi gli effetti negativi e/o i rischi del prolungato restare a casa, che tuttavia sono stati contrastati, o perlomeno attenuati, dalle opportunità che quell’anomala condizione ha presentato. Proviamo a elencarne alcune. 

La vicinanza nella distanza. La nostra specie si è evoluta sulla base di una rilevante capacità di adattamento ai contesti anche più estremi, la quale si fonda su grandi abilità creative. Non a caso, “stare a casa”, dopo un primo momento di sbando, ha mobilitato tutte le competenze necessarie a utilizzare le innovazioni tecnologiche che potessero rendere un po’ più “vicina” la distanza. In quei giorni ci si vedeva e ci si parlava, anche se solo via Internet, si lavorava da casa, si facevano riunioni in video-conferenza, si continuava a insegnare e ad apprendere via Skype o altre piattaforme digitali. Gli altri, sia pur non presenti fisicamente, potevano comunque produrre, almeno in parte, quegli oppioidi endogeni di cui, abbiamo visto, necessitiamo per stare bene.

Il senso dei rapporti affettivi. L’aspetto più importante, ai fini del nostro benessere psicologico, va rintracciato tuttavia nel dato che restare a casa ha permesso di recuperare il senso dei rapporti affettivi con i propri familiari, ed essenzialmente con i propri figli, la cui educazione e il cui accudimento negli ultimi anni sono stati eccessivamente delegati alla scuola e alle istituzioni. I figli, in quei giorni, hanno ritrovato il piacere del contatto con i loro padri e le loro madri, vicinanza della quale hanno fortemente bisogno, perché, in accordo con i diktat della nostra evoluzione biologica, è il contatto con i genitori ad assicurare una crescita ottimale. E i genitori hanno potuto riscoprire l’importanza e il piacere di abbracciarsi, se in coppia, e di abbracciarli, questi figli, così da produrre e far produrre quell’ossitocina di cui parlavamo prima, che induce sicurezza e calma.

L’empatia, la solidarietà, l’identità, il senso di appartenenza. Tutti, attraverso le notizie drammatiche che proponevano i media, si sono sentiti spronati a scoprire il valore della solidarietà e dell’empatia, due dimensioni che hanno fortemente assicurato alla nostra specie la possibilità di sopravvivere. In un momento in cui tutta l’umanità è a rischio, adulti e giovani hanno inoltre ritrovato la loro identità in un senso di appartenenza a una comunità più ampia, che va oltre i propri confini, superando pregiudizi e divisioni per età e sesso, nella consapevolezza dell’interconnessione dei destini di tutti. E proprio la capacità di vedersi appartenenti a gruppi più ampi rispetto al proprio, sulla base di scopi sovraordinati, ha fatto sì che durante la nostra evoluzione biologica si riuscisse ad affrontare pericoli anche insormontabili. Per giunta, queste dimensioni ci hanno mantenuto in contatto con gli altri, sia pure a un livello mentale. Gli altri erano nella nostra testa! Ciascuno di noi, poi, in particolare chi è anziano, ha potuto essere aiutato dagli ampi span di memoria di cui la nostra specie è dotata, cosicché il ricordo di come sono state affrontate, e superate, le difficoltà in passato può aver fatto recuperare la capacità di essere resilienti anche nella recente situazione tragica.

Avere una famiglia vs. vivere da soli. Certo, in quei giorni coloro che vivevano in famiglia e vivevano in coppia sono stati più fortunati rispetto a chi vive da solo. Chi ha una famiglia e un partner ha potuto godere dell’opportunità di stare vicini, del darsi conforto grazie a un abbraccio o una carezza, della possibilità di comunicarsi paure e preoccupazioni. Ciò sebbene, in alcuni casi, sia stato necessario sforzarsi di superare gli inevitabili conflitti che può comportare una coabitazione cui non si è più abituati. Nelle famiglie disfunzionali l’essere costretti a stare insieme ha addirittura intensificato le sopraffazioni domestiche e la sensazione di vivere in una prigione. Non a caso, in Cina sono aumentate le richieste di divorzio, presumibilmente maturate durante l’isolamento. Ed è possibile che questo nuovo “virus” si stia espandendo anche in Italia! Coloro che vivono da soli hanno potuto essere aiutati dall’inconscia consapevolezza che ci siamo evoluti a seguito della capacità di mantenere le relazioni sociali. Capire l’importanza dei legami affettivi ha portato a rivalutare tanti rapporti amicali trascurati e a far utilizzare parte del tempo a disposizione per vedersi via Internet, per parlare con chi era lontano, oltre che con figli e nipoti. L’udito e la vista hanno sostituito il tatto al fine di lenire l’ansia e la paura, contribuendo inoltre, almeno in parte, alla produzione di quegli oppioidi endogeni dei quali abbiamo bisogno. 

Non a caso, mentre da alcune ricerche emerge che quando si riceve, in via sperimentale, uno shock elettrico, è la possibilità di stringere la mano del partner o di un amico a sortire un effetto fortemente analgesico e di abbassamento dell’ansia, in altri studi è stato rilevato che è sufficiente vedere la foto di chi si ama (ma è lontano) per avere un riduzione del dolore provocato, ancora in via sperimentale, da una bruciatura. In tali soggetti, durante l’esperimento, si attivavano nel sistema neurale della ricompensa il nucleo caudato, il nucleo accumbens e la corteccia orbito-frontale, responsabili della modulazione della sensazione del dolore.

In conclusione, rimanere a casa nella quarantena ha avuto effetti negativi, ma anche risvolti benefici. Ha fatto ridurre le reazioni di ansia nel momento in cui le persone sono riuscite a riconsiderare il valore del tempo, un tempo che in condizioni abituali sprechiamo così tanto dietro a istanze effimere. Da molti esso è stato invece utilizzato per meditare su quelli che sono i veri valori, per «scegliere che cosa conta e che cosa passa, per separare ciò che è necessario da ciò che non lo è», come ha detto papa Francesco nella sua preghiera in Piazza San Pietro lo scorso 27 marzo, cosicché le restrizioni imposte dalla pandemia hanno anche insegnato a vivere, oltre a comportare delle privazioni. Abbiamo infatti potuto usare questa dimensione come una risorsa in grado di farci sentire solidali, di promuovere il senso di appartenenza a una comunità ampia, di aiutarci a rinsaldare quelle nostre relazioni sociali e quei nostri legami affettivi senza i quali la nostra specie si sarebbe estinta. Restare a casa si è configurato, pertanto, anche come un’opportunità per rintracciare, nella realtà e/o in termini virtuali o mentali, quelle condizioni che fanno sì che gli altri possano ancora porsi come la nostra droga benefica.

Grazia Attili, professore emerito di Psicologia sociale alla Sapienza – Università di Roma, è autrice, fra altri titoli, di Il cervello in amore. Le donne e gli uomini ai tempi delle neuroscienze (Il Mulino, 2017).

Questo articolo è di ed è presente nel numero 280 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui