Silvia Bonino

L’abuso sessuale sui bambini tra rifiuto e contagio emotivo

Spesso quando sentiamo di accuse di abuso su bambini oscilliamo tra un cieco rifiuto di credervi e un’altrettanto aprioristica adesione alla vittima. Ma si tratta di due estremi da evitare

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Recenti vicende giudiziarie in Emilia hanno coinvolto psicologi e servizi sociali, accusati non solo di avere usato nei colloqui strumenti induttivi e domande suggestive, ma anche di avere falsificato le prove e costruito un sistema fraudolento per convalidare abusi sessuali inesistenti. Questo nuovo caso ripropone uno scenario che, in forme diverse, negli ultimi decenni si è ripetuto più volte: emergono accuse di abuso sessuale su bambini a carico di familiari, talvolta nel contesto di separazioni conflittuali; queste accuse vengono raccolte da servizi sociali e psicologi che confermano le dichiarazioni dei bambini; ne segue l’allontanamento dei figli dai genitori, mentre gli accusati si professano innocenti, e in alcuni casi si suicidano; dopo un lungo iter giudiziario tutti gli indiziati vengono completamente scagionati. Nel frattempo sono passati parecchi anni, quelli che erano bambini sono diventati adulti, tra molta sofferenza ed esiti problematici.

Al di là degli aspetti giudiziari, sul piano psicologico queste vicende meritano diverse riflessioni.

 La prima riguarda il modo prevalente in cui le persone reagiscono a un sospetto di abuso. L’abuso sessuale sui bambini è percepito da tutti come un crimine abominevole, poiché va contro il rispetto e la cura per i piccoli, che non solo sono a fondamento della nostra cultura, ma hanno anche una radice biologica, come dimostrato dagli etologi. In preda all’orrore che tale comportamento suscita, le reazioni, in genere del tutto inconsapevoli, si polarizzano su due estremi, con conseguenze in entrambi i casi negative. Il primo è il rifiuto e quindi la negazione dell’esistenza dell’abuso sessuale, tanto più se perpetrato in famiglia; si tratta di un modo per sfuggire alla forte emozione negativa che il suo riconoscimento comporterebbe. Concorre a ciò anche la difficoltà cognitiva di riuscire a prendere consapevolezza di qualcosa che sconquassa i propri modelli di riferimento e le proprie conoscenze. In concreto: «Conosco quel genitore e sono del tutto sicuro che non può aver fatto una cosa simile».

La seconda reazione è l’accettazione totale e incondizionata della realtà dell’abuso, anche quando non ci sono chiare evidenze in tal senso, al fine di poter assumere il ruolo positivo di chi salva il bambino dal “mostro” che gli fa del male. Questa seconda soluzione permette di assumere un positivo ruolo salvifico, che consente di tenere a bada la forte emozione negativa provocata dal delitto contro bambini innocenti. In tal modo si supera la propria sofferenza mettendosi dalla parte della vittima e operando – così si ritiene – per il suo bene. Questo desiderio è di per sé del tutto legittimo, perché tutta la comunità degli adulti, e non solo la famiglia, è chiamata a farsi carico e a vigilare sul benessere dei suoi componenti piccoli. Ma il desiderio di salvare il bambino in pericolo può essere così forte da travolgere qualunque valutazione razionale, lasciando la persona in balia delle proprie emozioni. Ne risulta un comportamento che non prende le distanze dalla situazione per guardarla freddamente dall’esterno, non la valuta con obiettività, non verifica gli accadimenti, ma accetta in modo acritico quelle che non sono ancora evidenze bensì semplici supposizioni. È su questa inconsapevole e totale identificazione con la vittima presunta che hanno buon gioco manipolatori senza scrupoli, che rafforzano l’ansia e la volontà di aiutare e salvare i bambini, e le utilizzano per i propri fini. 

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Queste reazioni estreme non sono però le uniche possibili. Non adottarle o superarle è fattibile, e proprio la psicologia, nelle sue diverse specializzazioni, viene in aiuto allo scopo. Basti citare la psicologia cognitiva, con gli studi sulla memoria e la testimonianza, e la psicologia dell’età evolutiva. Quest’ultima ha mostrato la facilità con cui si possono indurre nei bambini la confabulazione e la costruzione di falsi ricordi; si impone perciò la necessità di colloqui che non contengano domande suggestive e tengano sotto controllo la tendenza infantile a compiacere gli adulti. Vanno anche ricordati gli studi sull’empatia e sul suo sviluppo, che hanno ben differenziato il contagio emotivo – vale a dire l’automatica assunzione dello stato emotivo di un’altra persona – dall’empatia evoluta, che passa in modo mediato e consapevole attraverso la rappresentazione del vissuto altrui; solo quest’ultima permette un valido aiuto. Per quanto caratteristico delle prime fasi dell’età evolutiva, il contagio è possibile anche nell’adulto.

Non si tratta, quindi, di negare l’ascolto ai piccoli o di rifiutare a prio­ri la loro testimonianza o di mancare di rispondere empaticamente al loro bisogno di aiuto. Si tratta di essere in grado di valutare in modo consapevole e distaccato le proprie reazioni emotive di fronte al crimine dell’abuso e di rispondere di conseguenza in modo professionale. Il ruolo degli psicologi al riguardo è cruciale. Come studiosi della psiche, essi più di altri devono essere ben consapevoli delle trappole cognitive ed emotive in cui la nostra mente rischia di cadere, così come devono conoscere bene la psicologia infantile e le modalità non induttive con cui un colloquio va condotto con i bambini. Per questo è loro richiesto di operare con la massima competenza professionale, secondo le linee guida internazionali e nazionali che in questi anni sono state stilate dalla comunità scientifica. Fin dal 2010 numerose società scientifiche italiane hanno concordato linee guida nazionali per l’ascolto del minore testimone, riprese dalla carta di Noto IV nel 2017. Non va dimenticato che il compito degli psicologi, e con loro degli assistenti sociali e degli educatori che li affiancano, non è quello di dimostrare la veridicità di quanto testimoniato dal bambino, essendo questa una competenza specifica del giudice minorile; piuttosto, essi nelle loro perizie devono valutare se il bambino è in grado di testimoniare, e nella loro attività clinica dare un aiuto psicologico competente a piccoli che in ogni caso vivono in una condizione di grande sofferenza.

Silvia Bonino è professore ono­rario di Psicologia dello sviluppo nell’Università di Torino. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo Amori molesti (Laterza, 2015).

www.silviabonino.it

Questo articolo è di ed è presente nel numero 276 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui