Valeria Ugazio

La voglia di libertà nei pazienti fobici

Negli individui fobici, paura, fragilità, costruzione nel mondo come pericoloso rappresentano solo una faccia della medaglia. La loro vita, infatti, si muove acrobaticamente fra ricerca di protezione e anelito all’autonomia.

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Non cercherò certo di negare che la paura domini la vita dei pazienti fobici. Sebbene frequente anche in altri disturbi, il panico caratterizza tutti i disturbi dello spettro fobico. Soprattutto agli esordi della sintomatologia, palpitazioni, sudorazione, sensazioni di soffocamento, vampate di calore, dolore al petto irrompono improvvisamente con tale forza che il paziente finisce spesso al Pronto Soccorso.

Nelle agorafobie prevale la paura verso gli spazi aperti, come l’etimologia della parola suggerisce. Essere fuori casa da soli, in balia di se stessi, attraversare strade, piazze senza la compagnia di una persona affidabile può scatenare il panico. Ma anche trovarsi tra la folla, o viaggiare su mezzi dove non è possibile trovare vie di fuga può essere atterrente. Che ne sarà di me, pensa il paziente, se mi sento male su un treno ad alta velocità?

Nelle claustrofobie a scatenare il panico sono i luoghi chiusi o angusti, come gli ascensori e naturalmente strutture a tunnel come quelle utilizzate per la risonanza magnetica o viaggi aerei. Un mio paziente che, credendo di essere ormai guarito, accompagnò la moglie nel caveau di una banca a prendere i gioielli lasciati in custodia fu colto da un attacco di panico non appena l’impiegato, come di consueto, sbarrò una di quelle pesanti porte di ferro tipiche dei forzieri sotterranei delle banche, per lasciarli soli ad aprire la loro cassetta di sicurezza.

Altrettanto innegabile è che i pazienti fobici abbiano una percezione del mondo come pericoloso e di se stessi come fragili. Nessuno più dei pazienti fobici ha la consapevolezza dei possibili pericoli a cui si è esposti, nessuno più di loro avverte la fragilità della condizione umana. Per questo mantengono spesso una relazione stretta con un genitore anche in età adulta e difficilmente lasciano un coniuge sentimentalmente e sessualmente poco gratificante, se capace di garantire sicurezza emozionale ed economica. Anche il barista sotto casa e l’edicolante, con i quali amabilmente scambiano qualche battuta ogni giorno, rappresentano punti di ancoraggio da non trascurare: si può sempre avere bisogno di loro.

Questo quadro, per quanto veritiero, coglie soltanto una faccia della medaglia. I pazienti fobici, alla stessa stregua delle sorelle Ursula e Gudrun Brangwen, le protagoniste femminili di Donne innamorate di H. D. Lawrence, pur sentendosi sempre sull’orlo di un baratro pauroso, desiderano ardentemente saltare oltre il perimetro di un dentro costruito come limitante, per esplorare ciò che sta fuori, liberandosi da ancoraggi e nicchie protettive.

In bilico tra ricerca di protezione e desiderio di indipendenza 

Come ho sottolineato altrove, in accordo con Guidano, è il conflitto tra la paura di un mondo avvertito come pericoloso e il desiderio di essere liberi di esplorarlo da soli, svincolandosi da relazioni protettive, a caratterizzare i pazienti fobici, differenziandoli da persone inibite, poco esplorative, che mantengono assetti di vita fondati sulla dipendenza da altri.

Trascurando questo conflitto, risulta per esempio difficile capire il loro assetto di vita prima dell’esordio sintomatico. Molti dei pazienti soprattutto claustrofobici erano persone indipendenti, insofferenti dei vincoli, amanti dei viaggi, appassionati di sport rischiosi. Un mio paziente ebbe i primi attacchi di panico mentre guidava un aliante, un altro nel mezzo di una traversata oceanica in barca a vela. Anche la scelta di partner spesso particolarmente indipendenti risulterebbe incomprensibile.

Per esempio, il marito di una mia paziente agorafobica era un esploratore: per mesi manteneva con la moglie soltanto sporadici contatti radio. Altrettanto enigmatica risulterebbe l’incondizionata ammirazione che proprio i soggetti fobici meno esplorativi, nati e cresciuti nello stesso posto, con vite professionali e sentimentali al riparo da ribaltamenti e rotture, riservano ad amici che sono il loro esatto opposto, come dirigenti che un giorno sono a Berlino e quello successivo in volo per Tokyo oppure avventurosi dongiovanni.

Ma è soprattutto la loro vita sentimentale che, per essere capita, va contestualizzata nel conflitto tra attaccamento ed esplorazione che li caratterizza. Sebbene capaci di mantenere relazioni a lungo termine, le persone con organizzazione fobica si sentono minacciate dallo stringersi di un legame.

Molte ritardano la costruzione di legami stabili mantenendo a lungo storie superficiali, prive di pathos, o relazioni “a distanza”. La costruzione del legame amoroso avviene attraverso una danza di avvicinamenti e allontanamenti: quando il legame si stringe si allontanano, fisicamente o psicologicamente, per riavvicinarsi quando il clima si raffredda. Spesso i tradimenti fungono da regolatori delle distanze.

L’interesse erotico di solito scende allo stabilizzarsi del legame, ma se l’altro si allontana, di regola si riaccende. Disporre di una figura di riferimento affettivo è, per le persone con organizzazione fobica, essenziale; non sono, infatti, mai davvero sole, come accade invece alle personalità narcisistiche, ma altrettanto indispensabile è il sentirsi liberi da vincoli. La regolazione delle distanze diventa quindi cruciale ed è all’origine di arrangiamenti sentimentali e familiari a volte creativi e generativi di risorse, altre volte complessi e fonte di sofferenza per loro e per i loro familiari. Ma da dove deriva il desiderio di libertà che le rende così ambivalenti verso i vincoli?

Una conversazione familiare dominata dalla semantica della libertà 

L’esperienza di terapia familiare e di coppia con i pazienti fobici mi ha aiutata a rispondere a questo interrogativo. Nei nuclei familiari in cui si sviluppano i disturbi fobici la conversazione si organizza preferibilmente intorno a intrecci narrativi dove la paura, i legami protettivi, ma anche il coraggio, la curiosità, il desiderio di esplorazione giocano un ruolo centrale.

«Come esito di questi processi conversazionali, i membri di queste famiglie si sentiranno, o verranno definiti, timorosi, cauti o, al contrario, coraggiosi o addirittura temerari. Troveranno persone disposte a proteggerli o si imbatteranno in persone incapaci di cavarsela da sole, bisognose del sostegno dell’altro. Si sposeranno con persone fragili, dipendenti, ma anche con individui liberi, talvolta insofferenti dei vincoli; soffriranno per la loro dipendenza, cercheranno in ogni modo di conquistare l’autonomia. In altri casi saranno orgogliosi della loro indipendenza e libertà che difenderanno più di ogni altra cosa. L’ammirazione, il disprezzo, i conflitti, le alleanze, l’amore e l’odio si giocheranno su temi di libertà/indipendenza» (Ugazio, 1998/2012, p. 116). 

Questo modo di organizzare i significati che ho chiamato semantica della libertà crea un ordine morale in cui libertà, indipendenza, esplorazione sono valori, mentre i legami di attaccamento sono valutati in termini parzialmente negativi, in quanto associati alla dipendenza. 

Un positioning difficile nella semantica della libertà 

Di regola, nell’infanzia, nella fanciullezza e a volte anche nell’adolescenza il soggetto che diventerà fobico si posiziona nel polo meno apprezzato nel suo nucleo, quello dell’attaccamento e della dipendenza, come peraltro l’adulto con cui ha il legame più stretto.

Molti ricordano in terapia di essere stati bambini molto attaccati soprattutto a uno dei genitori, a volte appiccicosi, tutt’altro che entusiasti di frequentare l’asilo nido e la scuola materna. Naturalmente, una posizione nella conversazione familiare è complementare ad altre. Il forte attaccamento, la difficoltà ad allontanarsi del bambino dall’adulto di riferimento, risponde di regola allo stato emotivo di quest’ultimo, spesso bisognoso della vicinanza del bambino. Il punto è che questo stesso adulto, non diversamente dagli altri membri della famiglia, valorizza i familiari liberi, indipendenti, a volte autosufficienti.

Il bambino, via via che cresce, si accorge che i suoi comportamenti, che scaturiscono dal suo rapporto con l’adulto a cui è più legato e che fanno di lui un bambino sensibile, prudente, poco esplorativo, sono considerati negativamente dai membri della sua famiglia, compreso l’adulto di riferimento.

Mantenere la relazione con quest’ultimo significa quindi per il bambino ricevere una definizione negativa di sé, dove la negatività di tale definizione è data dal fatto che la stessa figura principale di attaccamento valorizza membri della famiglia che hanno un comportamento opposto a quello del bambino. È proprio quando il bambino percepisce, a livello di storia tacita, il proprio positioning in questi termini, che inizia a sperimentare esplorazione e attaccamento come reciprocamente escludentisi.

Questo conflitto caratterizzerà la storia del soggetto, sarà elaborato in modi diversi, a volte verrà superato con strategie adattive creative, altre volte sarà alla base dell’esordio sintomatico che spesso erompe proprio quando i soggetti fobici cercano di emanciparsi da legami sentiti come vincolanti.

È quanto accadde ad Azzurra, il cui primo attacco di panico si verificò proprio quando, decisa a non tornare più in Italia, si iscrisse all’università a New York. Azzurra era stata allevata da una nonna barricatasi in casa da quando si era separata dal marito. Era stata una separazione graduale. Dapprima il marito, trasferitosi a Parigi per motivi professionali, tornava per periodi via via sempre più brevi fino a che non avevano concordemente deciso di chiudere la loro relazione. Lei non avrebbe mai lasciato la sua Torino per Parigi e lui nel frattempo aveva trovato chi condivideva con lui vita mondana e viaggi, attività alle quali la moglie si era adattata a fatica nella prima fase del loro matrimonio. La Torino della nonna di Azzurra si era progressivamente ristretta fino a coincidere con le mura domestiche. Sebbene spiritosa, curiosa, conversatrice brillante, la nonna aveva paura di tutto e preferiva sprangarsi in casa con la nipote ascoltando i racconti delle due figlie e specialmente della mamma di Azzurra, la più mondana e anticonformista. Quest’ultima, dopo aver fatto la stilista a New York, dove si era sposata e, dopo pochi anni, separata, era tornata in Italia, sistemandosi in un appartamento vicino alla madre, a cui aveva delegato la cura della figlia. Azzurra spesso dormiva anche dalla nonna, alla quale era legatissima e simile caratterialmente: anche lei amava stare in casa, era sensibile, le piaceva leggere ed era tutt’altro che coraggiosa. La nonna adorava questa nipote, ma era chiaro che la sua ammirazione fosse rivolta alle figlie, entrambe indipendenti, e soprattutto alla mamma di Azzurra, la più esplorativa. 

Azzurra cresce quindi con una nonna bisognosa della sua vicinanza, che ha paura a stare a casa da sola, sempre in ansia per le figlie, esposte, a causa della loro vita avventurosa, ai pericoli, e come lei diventa paurosa e poco esplorativa. Man mano che cresce cerca di diventare indipendente, ma il modello materno le sembra irraggiungibile. Anche per questo nutre ostilità verso la mamma, che, per essere libera, l’ha lasciata allevare da una nonna, palesemente disturbata, che le ha inculcato non poche paure. Queste sotterranee recriminazioni verso la madre inducono Azzurra ad avvicinarsi al padre, nel frattempo ritornato in Italia con la sua nuova famiglia. Quando quest’ultimo le propone di frequentare l’università a New York dapprima rifiuta, poi cambia idea: non solo sarebbe andata a New York, ma non sarebbe tornata più in Italia. L’improvvisa rivelazione fattale inavvertitamente dalla moglie del padre, che sua madre aveva un legame sentimentale ventennale con l’amica con cui negli ultimi anni conviveva, l’aveva resa furiosa. Non era la rivelazione in sé a devastarla. Aveva sempre capito la natura del legame fra le due donne, ma era convinta che nessuno lo sapesse. Per questo non ne aveva mai fatto cenno né alla nonna né alla mamma, sicura che la prima fosse all’oscuro di tutto e la seconda tenesse chiuso in sé quel pesante segreto. Apprendere che nonna e mamma le avessero taciuto quello che tutti sapevano la rendeva aggressiva verso entrambe. Partì quindi per New York con la convinzione di iniziare lì una nuova vita liberandosi di tutti i legami importanti. Non sarà così: dopo tre mesi di permanenza a New York, il primo attacco di panico la riporterà a casa. Ciò nondimeno, quando la incontro, a dieci anni dall’esordio sintomatico, Azzurra sta tenacemente lottando con i suoi sintomi sempre con l’obiettivo di trasferirsi a New York, dove, nonostante i molti viaggi Torino-New York, non ha costruito alcun legame significativo. 

È un copione che si ripete in molti casi: l’esordio sintomatico, come ho approfondito altrove (Ugazio, 1998/2012), fa abortire un tentativo di svincolo da legami avvertiti come limitanti, ma il soggetto fobico non si arrende e cerca disperatamente di disfarsi dai sintomi per guadagnarsi un positioning nel polo valorizzato della semantica della libertà.

Quali risorse? 

La valorizzazione della libertà è all’origine dell’anticonformismo, una delle più belle qualità delle persone con orientamento fobico. Anche i soggetti fobici più dipendenti dagli altri nella loro vita quotidiana, mantengono una straordinaria libertà e apertura intellettuale. Perlomeno a livello mentale sono liberi, estranei a pensieri convenzionali, capaci di sviluppare punti di vista personali. 

L’alta considerazione in cui è tenuta l’autonomia è inoltre all’origine della pressoché totale egodistonia – cioè rifiuto – di gran parte della variegata sintomatologia fobica, primi fra tutti gli attacchi di panico. I pazienti fobici lottano contro i loro sintomi, non hanno alcuna ambivalenza verso di loro: la cosa che più desiderano è liberarsene e poter finalmente esplorare, svincolandosi da umilianti relazioni protettive e tutele. Anche per questo è relativamente facile con loro costruire l’alleanza terapeutica.

Naturalmente l’esperienza terapeutica è fonte di molte paure per le persone con disturbi fobici. Temono, per esempio, di diventare dipendenti dal terapeuta. L’alleanza può svilupparsi soltanto se la terapia si configura come una base sicura per l’esplorazione da cui il paziente può avvicinarsi e allontanarsi abbastanza liberamente.

Sono inoltre preoccupati che il terapeuta sopravvaluti le loro capacità e la terapia diventi un pericoloso trampolino di lancio. Malgrado questi ed altri timori, i pazienti con organizzazione fobica riconoscono la posizione di aiuto del terapeuta e sono generalmente collaborativi. La volontà di superare i propri sintomi, unitamente alla possibilità di costruire abbastanza facilmente l’alleanza terapeutica, spiega il successo generalmente alto delle psicoterapie con i pazienti dello spettro fobico. Quasi tutti gli orientamenti terapeutici ottengono con loro buoni ed eccellenti risultati. 

La voglia di libertà dei pazienti fobici va però trattata con cautela: può diventare una trappola per la terapia. Il rischio è che il terapeuta, spesso inconsapevolmente, aderisca al progetto emancipativo del paziente, segnato dalla premessa che la propria realizzazione personale e la stima di sé richiedano lo sganciamento dai legami affettivi. Come tutti coloro che sono cresciuti in contesti dove prevale la semantica della libertà, i soggetti fobici sono prigionieri dell’idea di libertà come assoluta e solitaria indipendenza dalle relazioni.

Quest’idea, tipica dell’individualismo occidentale, è un mito pernicioso della nostra cultura, come ormai tutti noi stiamo capendo, che contrasta con la natura sociale della nostra specie. Ed è tanto più nefasta per chi, come il soggetto fobico, proviene da una storia che lo ha reso consapevole della sua vulnerabilità e dei pericoli di cui il mondo è intriso. Il progetto emancipativo che il paziente deve perseguire con l’aiuto del terapeuta va costruito dentro il ricco patrimonio di relazioni vitali di cui dispone, non fuori, nella landa desolata dell’autosufficienza, come spesso desidera.

 

Riferimenti bibliografici 
Guidano V. F. (1987), La complessità del Sé, nuova ed., Bollati Boringhieri, Torino, 1988. 
Guidano V. F. (1991), Il Sé nel suo divenire. Verso una terapia cognitiva post-razionalista, nuova ed., Bollati Boringhieri, Torino, 1992. 
Ugazio V. (1991), «La costruzione relazionale dell’organizzazione fobica». In M. Malagoli Togliatti, U. Telfener (a cura di), Dall’individuo al sistema. Manuale di psicopatologia sistemica, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 214-228.
Ugazio V. (1998), Storie permesse, storie proibite, 2a ed. ampliata, aggiornata e rivista, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
Ugazio V. (2013), Semantic polarities and psychopathologies in the family, Routledge, New York.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 266 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui