Giorgio Nardone, Moira Chiodini, Patrizia Meringolo

La resilienza: quando l'essere umano trae forza dalle sue sventure

Mentre la resistenza è la forza di sopportare un evento critico, la resilienza è la capacità di trarre dalle avversità incontrate addirittura un potenziamento delle risorse personali. 

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ll trauma e le ferite, per l'individuo, o le catastrofi e i disastri, per le comunità, nonché il modo in cui le persone rispondono a tali eventi rappresentano una sorta di sfida conoscitiva e interpretativa. Gli esiti a tali situazioni possono infatti andare da disturbi di tipo post-traumatico a un ritorno alla “normalità”, o anche a un incremento delle capacità e delle competenze

Kobasa et al. (1982) hanno ipotizzato che i soggetti che subiscono alti livelli di stress senza ammalarsi possiedano una struttura di personalità la cui caratteristica distintiva sia la resistenza.

Dal nostro punto di vista, tuttavia, la resistenza può evolvere in resilienza nel momento in cui permette alla persona non solo di non cedere sotto i colpi della vita, ma addirittura, se possibile, di ricostruire un equilibrio maggiormente adattivo e funzionale. La capacità di sopportare un evento critico contrapponendovi una forza possibilmente eguale ma contraria è ciò che ci rende resistenti. La capacità di utilizzare la forza critica che ci ha investito per trarne nuova forza vitale è ciò che ci rende resilienti.

RIALZARSI PIÙ FORTI DI PRIMA

Norris et al. (2009), a seguito di uno studio condotto su popolazioni colpite dall’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle e dall’alluvione in Messico del 1999, hanno evidenziato come i sopravvissuti avessero sviluppato reazioni diverse. Alcuni avevano manifestato sintomi iniziali moderati o anche gravi, seguiti da una netta diminuzione: i resilienti; altri avevano presentato sintomi moderati stabili: i resistenti; altri ancora, infine, avevano manifestato sintomi iniziali moderati o severi, seguiti da una diminuzione graduale: condizione di recovery (recupero).

Con il termine “recovery” si fa riferimento alla capacità di recuperare, dopo un evento critico, lo stato di salute e l’equilibrio preesistenti; anche se, a ben guardare, un’evenienza del genere non si può mai realizzare del tutto.

Gestire o superare una difficoltà non sempre si trasforma in un processo di crescita e sviluppo: alcune persone possono rimanere bloccate in un senso di impotenza che le costringe a essere vittime, oppure incapaci di liberarsi dalla rabbia e dalla recriminazione per ciò che hanno subito.

Dal dolore e dalla sofferenza possono scaturire una persona che ha perduto ogni voglia di vivere, che non crede più in un senso delle cose, oppure una persona ancora più forte. La differenza si chiama resilienza.

Il processo di resilienza rappresenta qualcosa in più della mera sopravvivenza a un trauma. Ha a che fare con la capacità di esperire il dolore e trasformarlo in forza, di sentire la rabbia e usarla come motore per il cambiamento creando un futuro di speranza dalle ceneri della disperazione.

Resilienti non si nasce, ma lo si può diventare, attraverso un processo dinamico in cui le caratteristiche personali e quelle della situazione si condizionano reciprocamente. Possiamo quindi affrontare con successo un evento traumatico anche se in passato siamo caduti sotto il peso della difficoltà.

Se vogliamo differenziare la resilienza, quale capacità ricostruttiva a seguito di un trauma, dalla resistenza e dalla capacità di recupero, dobbiamo fare riferimento alla caratteristica della flessibilità, che permette di realizzare un virtuoso processo di adattamento continuo. Flessibilità quale capacità di creare forza dalla debolezza, di accettare la fragilità, la mancanza, l’imperfezione.

A seguire una logica tradizionale di tipo lineare, viene abbastanza naturale suddividere il mondo in bene e male, positivo e negativo. Questa differenziazione dicotomica, se da una parte aiuta a semplificare e a gestire la complessità della realtà, dall’altra rischia di intrappolarci in un riduzionismo che non aiuta ma ingabbia in categorie troppo rigide, le quali non consentono di addestrare l’arte della flessibilità.

Il dolore per una grave perdita ci pone di fronte ai limiti della ragione e del ragionamento, da sempre o quasi ritenuti la strada maestra per la gestione e la risoluzione dei problemi. Se immaginiamo una persona che ha perso un figlio o che ha visto la propria casa trasformarsi in un cumulo di macerie, spazzati via ogni ricordo e ogni sicurezza, bisogna riconoscere che nessun ragionamento razionale le permetterà di affrontare e superare il dolore, lo sconforto, la paura, il terrore.

Cercare di superare il trauma facendosene – come si dice – una ragione, tentare di nascondere o attutire il dolore scacciando il ricordo, lascerà la ferita sempre aperta e la persona incapace di metabolizzare l’evento, cristallizzandolo in un eterno presente. Solo nel momento in cui riusciremo a “farci morbidi” accettando il dolore della ferita, potremo trasformare la catastrofe in forza e la ferita in speranza.

La capacità di razionalizzare rischia, se diviene troppo rigida, di sacrificare il potenziale conoscitivo ed espressivo delle sensazioni, o, ancora peggio, di soccombere di fronte alla contraddizione o al paradosso, elementi così comuni nella nostra esperienza, eppure così poco contemplati nel ragionamento (Nardone, 2013).

FLESSIBILITÀ ADATTIVA

Veniamo adesso a un altro aspetto spesso dibattuto: le abilità di coping, ovvero la capacità di affrontare e gestire gli eventi stressanti o critici. Tali abilità di per sé non fanno la differenza. Quello che conta è la capacità di utilizzare in modo flessibile le strategie di coping che si possiedono, a seconda delle situazioni, perfino quelle che normalmente potrebbero risultare non del tutto salutari, come attribuire la responsabilità delle difficoltà ai fattori esterni e i meriti a se stessi (meccanismo conosciuto con il nome di “self-serving bias”).

Il dolore e la sofferenza per un trauma o una perdita sono ferite aperte nell’anima, e quando il dolore è troppo sconvolgente l’unica via di salvezza è congelarsi per non sentirlo. Tuttavia, è proprio la capacità di riaffacciarsi ai ricordi e di fare spazio al dolore la strada che rende possibile il processo di guarigione.

In questi casi il terapeuta deve guidare la persona a non cancellare la propria memoria, ma a ricollocarla nel passato in maniera che non dilaghi nel presente. Per tale ragione il trattamento dei disturbi post-traumatici ha reso necessario la messa a punto di uno specifico protocollo d’intervento in grado di aiutare la persona a «rimettere il passato nel passato» (Cagnoni e Milanese, 2009).

Una delle sue più importanti tecniche, elaborata nella terapia breve strategica, è proprio il romanzo del trauma, cioè la richiesta fatta al paziente di narrare, in modo dettagliato, ogni giorno l’evento patito.

I resoconti fatti dai sopravvissuti all’Olocausto sia in America che in Israele riferiscono la difficoltà dell’aver dovuto affrontare una società incredula, nella quale era stato loro impedito di raccontare e condividere gli orrori della propria esperienza. Il trauma, il lutto, le catastrofi sono eventi oggettivi a cui non ci possiamo sottrarre, ma non costituiscono atti di condanna se non siamo noi stessi a firmarli.

Come indica Nardone, ognuno costruisce la realtà che gestisce, oppure, come direbbe Huxley, «la vita non è quello che ci accade, ma quello che facciamo con ciò che ci accade». Se non abbiamo potere contro ciò che ci capita, abbiamo però la responsabilità di costruire e ricostruire mediante quello che la vita ci ha dato in sorte.

ViktOr Frankl, dopo aver perso la famiglia nei campi di sterminio nazisti e aver vissuto l’esperienza della deportazione e della prigionia, nel 1946 scrive uno dei suoi testi più importanti, Uno psicologo nei lager, a cui, nell’edizione del 1977, aggiunge un sottotitolo suggestivo: Dire sì alla vita, nonostante tutto.

Questa frase lapidaria riassume in sé tutta la forza della resilienza: la scoperta o riscoperta di concrete possibilità di senso, la fiducia nel significato della propria esistenza e nella dignità della propria persona. Frankl ritiene che è stato collegandosi a questo “significato” che i sopravvissuti all’Olocausto sono riusciti a sopravvivere a una condizione drammatica, arrivando a cambiare se stessi, visto che non potevano cambiare le circostanze.

Gli eventi particolarmente critici e potenzialmente traumatici mettono in risalto la natura relazionale dell’uomo e come l’interazione con gli altri, con il mondo e con la storia condizioni il cammino di risoluzione del trauma.

Tousignant ed Ehrensaft (2005), per esempio, mettono in risalto come i bambini israeliani si siano potuti salvare psicologicamente grazie al riconoscimento e alla simpatia ricevuti da tutti i Paesi esteri e alla conseguente attribuzione dello status di eroi. Così i bambini palestinesi dell’Intifada.

Invece – fanno notare i due autori – i reduci statunitensi dalla guerra in Vietnam hanno avuto problemi di reinserimento complessi, non solo per i traumi post-bellici allora non sufficientemente approfonditi, ma anche per l’atteggiamento del contesto, diviso tra esaltazione dell’eroismo e attribuzione di corresponsabilità individuale a una guerra ingiusta, come narrato nel celebre film di Oliver Stone Nato il quattro luglio.

Ma in che modo le nostre relazioni e i legami di supporto condizionano la capacità di essere resilienti? Gli studi longitudinali di Werner e Smith (1982) hanno dimostrato chiaramente che anche in assenza di legami significativi con i propri genitori, i bambini possono sviluppare resilienza, qualora altri familiari si rendano disponibili a prendersi cura di loro.

La presenza di una solida relazione supportiva e di vicinanza emotiva permette al bambino di superare momenti di crisi e diviene un patrimonio esperienziale su cui poter far affidamento anche per il futuro. Ciò è ancora più sorprendente se consideriamo che i bambini e i ragazzi appartenenti a famiglie problematiche si dimostrano molto capaci nel ricercare e attivare relazioni supportive con altri adulti significativi nel proprio contesto di vita.

MUTUO SOSTEGNO NELLA COMUNITÀ

Pure la relazione psicoterapeutica può rappresentare per il paziente la possibilità di sperimentare, in alcuni casi per la prima volta, una relazione particolarmente significativa. Tale ruolo è ben rappresentato nel modello di terapia breve intermittente messo a punto da Cummings e Sayama (1995) che focalizza l’attenzione su come il terapeuta possa, e in alcuni casi debba, diventare un punto di riferimento stabile nel tempo, una sorta di “psicologo di famiglia”.

Come accade nella medicina generale, essi dicono, i trattamenti medici terminano, ma la relazione terapeutica viene mantenuta nell’aspettativa che in un momento di particolare stress o difficoltà il paziente potrà avere di nuovo bisogno di aiuto o di un intervento.

La resilienza, quindi, non è soltanto una caratteristica individuale, ma attiene anche ai gruppi, alle famiglie e alle comunità, e viene definita come il processo attraverso il quale i membri appartenenti a un certo contesto fronteggiano e gestiscono le criticità e la crisi “insieme”.

Norris et al. (2009) considerano la resilienza come un set di capacità adattive e collegate in rete che includono aspetti chiave quali lo sviluppo economico, il capitale sociale, l’informazione, la comunicazione e la competenza di comunità. La presenza di legami di supporto sociale, il senso di appartenenza, le risorse disponibili sono tutti fattori che incidono sul capitale sociale e sulla capacità di una comunità di essere resiliente.

Un esempio ci viene dallo Sri Lanka che, malgrado la scarsità di risorse materiali e la mancanza di infrastrutture, riuscì ad attivare un sistema di soccorso e di aiuto a distanza di poche ore dal terribile tsunami del 2004, grazie alla presenza di preesistenti reti sociali. Uno strumento centrale è rappresentato da ciò che si definisce “narrativa di comunità”, che fornisce alle esperienze un significato condiviso, relativo alla visione di se stessi e degli altri.

La lettura condivisa della realtà e la sua interpretazione collettiva contribuiscono alla forza dei legami sociali e alla coesione, che a sua volta aumenta la resilienza.

Landau e Saul (2004) hanno studiato proprio come la narrazione, ovvero il racconto di ciò che è avvenuto e delle proprie risposte, abbia contribuito alla ripresa positiva dopo l’11 settembre a Manhattan. L’11 settembre 2001, lo tsunami nel 2004 e il disastro causato dall’uragano Katrina nel 2005, ma anche – nel nostro Paese – la ricostruzione a seguito del terremoto in Friuli del 1976 (nota come “modello Friuli”) hanno reso evidenti le possibili capacità di una comunità e di un territorio di organizzarsi e riorganizzarsi per far fronte alle catastrofi.

Riprendendo gli studi di Norris et al. (2009) si possono rintracciare, in una sorta di roadmap, alcuni elementi cruciali per la promozione della resilienza di una comunità dopo un evento traumatico: 1) l’attivazione di risorse economiche; 2) il coinvolgimento della cittadinanza nel percorso di attenuazione dei danni; 3) le reti relazionali e organizzative; 4) il sostegno sociale informale e spontaneo; 5) la capacità delle comunità di pianificare, prevedendo però anche di non avere un piano, cioè di dovere e poter agire anche in situazioni imprevedibili.

La resilienza non è dunque un puro fenomeno individuale, ma anche, e inevitabilmente, relazionale e sociale. Il ruolo del contesto sociale, però, non deve mai essere interpretato nel senso di una delega delle nostre responsabilità alla società o agli altri.

 

Riferimenti bibliografici
CAGNONI F., MILANESE R. (2009), Cambiare il passato, Ponte alle Grazie, Milano.
CUMMINGS N. A., SAYAMA M. K. (1995), Focused psychotherapy: A casebook of brief, intermittent psychotherapy through the life cycle, Brunner/ Mazel, New York.
FRANKL V. E. (1946), Uno psicologo nei lager (trad. it.), Ares, Milano, 1967.
KOBASA S. C., MADDI S. R., KAHN S. (1982), «Hardiness and health: A prospective study», Journal of Personality and Social Psychology, 42, 168-177.
LANDAU J., SAUL J. (2004), «Facilitating family and community resilience in response to major disaster». In F. Walsh, M. McGoldrick (Eds.), Living beyond loss: Death in the family, Norton, New York, pp. 285-309.
NARDONE G. (2013), Psicotrappole, Ponte alle Grazie, Milano.
NORRIS F. H., TARCY M., GALEA S. (2009), «Looking for resilience: Understanding the longitudinal trajectories of responses to stress», Social Science and Medicine, 68, 2190-2198.
TOUSIGNANT M., EHRENSAFT E. (2005), «La resilienza tramite la ricostruzione del senso: l’esperienza dei traumi individuali e collettivi». In B. Cyrulnik, E. Malaguti (a cura di), Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, Erickson, Trento, pp. 181-193.
WERNER E., SMITH R. (1982), Vulnerable but invincible: A longitudinal study of resilient children and youth, McGraw-Hill, New York.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 261 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui